“Gabriele Gabrielli dipingeva da quattro anni soltanto. E fu la sua una rivelazione improvvisa. Non proveniva da nessuna scuola ed entrava nell’arte senza nessuna preparazione tecnica. Lo confessava egli stesso. N’era anzi orgoglioso”. Scriveva così, il 18 dicembre del 1919, un anonimo giornalista del Telegrafo annunciando la scomparsa, a soli venticinque anni, di Gabriele Gabrielli (Livorno, 1895 - 1919) uno dei più singolari, eccentrici, bizzarri e tormentati pittori italiani d’inizio Novecento: la sua carriera durò pochi anni (le prime notizie di sue opere risalgono al 1913: non dunque quattro anni come scriveva il Telegrafo, ma comunque in soli sei anni Gabrielli era già riuscito a ottenere interessanti risultati, benché fosse sempre certo rimasto lontano dalla ribalta), ma in quel breve lasso di tempo si formò una delle più singolari personalità artistiche dei primi anni del XX secolo. Singolare, quanto dimenticato: le stranezze della sua arte, la scarsità della sua produzione, il rapido oblio, anche dopo pochi anni dalla scomparsa (nonostante una mostra che gli venne dedicata nel 1924) e una pittura lontana anni luce dai gusti del pubblico italiano e avvicinabile più a esperienze mitteleuropee o francesi che a quanto andava accadendo in quegli anni in Italia, hanno contribuito a far scomparire dalle cronache artistiche il nome di questo pittore ossessionato dalla morte, e morto suicida.
Nel 2008, una mostra curata da Francesca Cagianelli, e intitolata Gabriele Gabrielli. Un allievo spirituale di Vittore Grubicy al Caffè Bardi (tenutasi al Museo di Storia Naturale del Mediterraneo di Livorno dal 10 maggio all’8 giugno di quell’anno), ha contribuito, con un itinerario di ventisette opere, a ricostruire la sua cortissima carriera dando nuova dignità alla sua produzione. 0 Gabrielli fu un pittore macabro, affascinato dai temi esoterici, e quel poco che ha dipinto non si discosta dagli argomenti che lo interessarono: foschissime allegorie della morte, animali tratti dall’immaginario dell’occulto e della notte, dipinti ispirati ai Fleurs du Mal di Charles Baudelaire, di cui fu avido lettore (così come di Edgar Allan Poe: i nomi del francese e dell’americano sono i due che meglio identificano i riferimenti letterari del livornese).
Il nome di Gabrielli, come anticipato, compare per la prima volta nel 1913 quando, assieme ad altri artisti, sottoscrive un’iniziativa per portare all’acquisto, da parte della Pinacoteca di Livorno, di un’opera di Vittore Grubicy de Dragon (Milano, 1851 - 1920), La vela, iniziativa poi andata in porto tanto che oggi il dipinto s’osserva nelle sale del Museo Civico “Giovanni Fattori” di Livorno. “Gabrielli”, ha scritto Chiara Stefani nel catalogo della mostra Arte e magia curata da Francesco Parisi e tenutasi a Rovigo, a Palazzo Roverella, tra il 29 settembre 2018 e il 27 gennaio 2019, “si inquadra dunque nel gruppo dei giovani pittori livornesi affascinati dall’opera grubicyana, più legata alla sfera emotiva rispetto al tradizionale paesaggismo ottocentesco”. Grubicy aveva rinnovato la pittura di paesaggio italiana, ponendosi come uno dei massimi interpreti italiani del “paesaggio stato d’animo”: il suo straordinario Poema invernale, ciclo conservato alla GAM di Milano, è una delle vette del genere. Inoltre, occorre rammentare che in quegli anni era presente a Livorno il belga Charles Doudelet (Lilla, 1861 - Gand, 1938), che entrato nel circolo del Caffè Bardi, dove si riunivano i principali pittori livornesi del tempo (Renato Natali, Gino Romiti, Benvenuto Benvenuti, lo stesso Gabrielli), diffuse le idee esoteriche della Rose+Croix di Joséphin “Sâr” Péladan. La figura di Doudelet fu rilevante per la formazione di Gabrielli: sempre a Francesca Cagianelli si deve la monografia sull’artista belga intitolata Charles Doudelet pittore, incisore e critico d’arte. Dal “Leonardo” a “L’Eroica” (pubblicata da Olschki nel 2009), che contiene ampi approfondimenti sul rapporto tra il belga e Gabrielli, nonché la mostra Dans le Noir. Charles Doudelet e il simbolismo a Livorno (Collesalvetti, Pinacoteca Comunale Carlo Servolini, dal 30 settembre 2021 al 20 gennaio 2022), dove per la prima volta è stato indagato il simbolismo a Livorno con approfondimenti inediti rispetto al ruolo di Gabrielli nel simbolismo livornese e alla sua amicizia con l’artista belga (e per l’occasione sono state anche presentate due opere inedite dell’artista labronico).
Gabrielli fu affascinato dalla possibilità di tradurre le emozioni in pittura, e non tardò a riversare sulla tela (ma anche sulla tavola e sul cartone) le sue manie per il mistero, la notte, la morte, ponendosi fin da subito come pittore neosimbolista capace di orrorifiche pitture piene di mostri, fantasmi, animali inquietanti. Per comprendere la visionarietà lugubre dell’arte di Gabrielli basta vedere un dipinto del 1915-1917 (il periodo a cui appartiene la maggior parte delle opere note: e di sicuro sulla sua psiche debole e dilaniata da dubbi e ansie ebbero di sicuro un ruolo le notizie che giungevano dai fronti della prima guerra mondiale), la Morte che traccia il solco con l’aratro, dove la mietitrice, con la falce stretta in pugno, tiene due buoi infuocati di rosso acceso (esattamente come lei) mentre, nella notte più tenebrosa e cupa, viene arato un campo pieno di teste mozzate, ma con gli occhi vivi e fiammeggianti. Gabrielli, come detto, aveva una fissa per la morte, che descrive in termini poetici e altisonanti in una lettera del 1916 a Benvenuto Benvenuti, riportata già nel 1980 da Lara Vinca Masini in Umanesimo, disumanesimo nell’arte europea 1890-1980: “La morte flagellatrice danza in un cielo nero dove le stelle appaiono semispente, avvolte in un sudario di follia più cupa del cielo, incoronata dalla stella maligna fedele compagna, che è il corpo della sua anima. Sugli omeri, le ali falciate hanno riflessi di acciaio brunito sotto i raggi biancastri del disco lunare. Essa danza, danza e sulla impudica faccia sorride la Morte, sola sorella in eterno dell’arte. Intorno i pipistrelli volano, sfiorando la loro rejna, raccontandosi tra loro cose misteriose e belle”.
Altro dipinto terrificante è la Congrega satanica, dove un corteo di figure nere sembra danzare davanti ai fuochi che s’accendono alle loro spalle e che rappresentano gli unici punti luminosi della scena. È la scena di un sabba, guidato da una specie di diavolo con gli occhi gialli che si pone all’inizio della sequenza di figure, un’opera che entusiasmò lo stesso Doudelet che la descrisse parlando della mostra che gli era stata dedicata nel 1924. Per Doudelet, Gabrielli era un “efficace creatore di sensazioni di orrore, di paura, di mistero, di quelle sensazioni intense e dolorose suscitate e agitate nel Vortice dell’anima”: la Congrega satanica diventa così simbolo della sua arte, dove “le tormentose agonie e l’orridezza della morte, lo spasimo oscuro delle tristezze più profonde, travolgono, opprimono, eccitano la fantasia nevrotica di questo artista finché trovano l’espressione loro nel colore”.
Tra le opere che “traducono” in immagini i versi del capolavoro poetico di Baudelaire, Les Fleurs du Mal, è possibile annoverare quelle dove il gufo è l’animale protagonista (si legga, per esempio, la poesia Les hiboux, “I gufi”: “Sous les ifs noirs qui les abritent, / Les hiboux se tiennent rangés, / Ainsi que des dieux étrangers, / Dardant leur oeil rouge. Ils méditent. / Sans remuer ils se tiendront / Jusqu’à l’heure mélancolique / Où, poussant le soleil oblique, / Les ténèbres s’établiront”: “Sotto i tassi neri che li accolgono / i gufi stanno schierati / come dieci stranieri / saettando il loro occhio rosso. Meditano. / Senza muoversi così staranno / fino all’ora malinconica / quando, spingendo via il sole obliquo / scenderanno le tenebre”). Il gufo di Gabrielli è l’animale della notte per antonomasia, è il sovrano delle tenebre che spicca sulle altre creature che popolano la foresta quando il sole scende, ha gli occhi dardeggianti come quelli di cui parla Baudelaire, è circondato da presenze spettrali, mostri scheletrici che si dispongono attorno a lui emergendo dall’oscurità in cui è immersa l’intera scena (la tavolozza di Gabrielli conosce solo tonalità molto scure, oltre che quelle dei bagliori accesi che fanno rosseggiare le sue notti), e un pipistrello rosso che sta sotto i suoi artigli. “Opere come questa”, ha scritto ancora Chiara Stefani, “faranno uscire l’ambiente livornese più aggiornato dai vincoli della rappresentazione del vero”. La studiosa menziona un articolo di Mario Citti dedicato al pittore labronico e scritto nel 1948: “Gabrielli si è servito della pittura per esprimere un’idea tutta propria, si è estraniato dalle cose terrene per vivere in un mondo popolato di creature che egli ha accarezzato con infinito amore perché sono parte viva del suo tormento”. Al gufo è dedicato anche un altro dipinto, che lo vede come unico protagonista mentre fissa l’osservatore, e dove, ipotizza Stefani, l’animale “è qui forse un alter ego del pittore, cantore dell’ombra, del sogno e dell’orrore, personaggio tormentato ed enigmatico nella vivace avanguardia livornese del primo scorcio del Novecento”.
Nel 1979, a Gabriele Gabrielli fu anche dedicata una mostra dalla galleria Peccolo di Livorno, che potrebbe esser considerata la prima tappa della lenta riscoperta del pittore livornese, ancora comunque poco noto, specialmente fuori da Livorno. “Gabriele Gabrielli”, ha scritto di recente il gallerista Roberto Peccolo ricordando quell’esposizione, “partecipa a un’atmosfera simbolista, legge Poe e Baudelaire, e propone una pratica anomala e diversa che avrebbe potuto svecchiare gli stilemi veristi in circolazione. L’autore si avvicina al simbolo e lo mette in scena”. Peccolo citava un’altra opera, I fiori della morte, come evidente simbolo dell’“osmosi tra testo e segno pittorico” in riferimento alla poesia sulla morte che nel 1916 l’artista aveva inviato a Benvenuti.
Come poté svilupparsi una personalità così fuori dagli schemi in una Livorno ch’è sempre stata sì città dove gli abitanti hanno una visione della vita schietta e disincantata (anche se molto più propensa a sfociare nel sarcasmo e nella sfida più che ne soliloquio cupo e nell’introspezione macabra), ma dove comunque splende il sole mediterraneo e dove i colleghi di Gabriele Gabrielli arrivavano per dipingere semmai i radiosi paesaggi costieri che s’aprivano appena fuori dalla città? In parte s’è detto: letture, contingenze storiche, carattere chiuso e solitario contribuirono allo sviluppo d’una figura del tutto anomala per la Livorno d’inizio Novecento.
Occorrerà poi tener conto di quanto scriveva (con “ipocrita retorica”, ha commentato Peccolo: la sua arte del resto faticava a esser riconosciuta) il giornalista del Telegrafo quel 18 dicembre del 1919: “Da qualche tempo egli più non frequentava con assiduità i cenacoli d’arte. Vi appariva, invece, di rado chiuso in una mestizia cupa che non gli permetteva più di accendere, come una volta, discussioni aspre e vivaci; di sostenere, come una volta, una baldanza impetuosa, tutta scatti, la bontà delle sue teorie. Il suo temperamento selvaggio e intollerante di ogni freno accademico si era come spento in una rassegnazione senza dolcezza; i suoi furibondi assalti contro le ‘scuole in voga’, le sue tirate acerbe contro l’impero dei ‘professori’ non animavano più circoli artistici. Era assalito dal dubbio orribile di aver lavorato per nulla, di non aver creato che fantasmi senza significato. Un artista o un illuso? L’uno e l’altro forse”. Incompreso, dunque. Anche a distanza di molto tempo: eppure, fu una figura insolita per l’ambiente toscano (ma anche italiano), meritevole di ulteriori rivalutazioni.
Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta
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