Nel gergo della pesca, si chiamano “bilance” quelle grandi reti quadrate che vengono fissate a lunghi pali forniti di carrucole, e quindi calate in un fiume o nel mare: s’aspetta qualche momento, e poi si tirano su, cercando d’esser veloci nella speranza che le prede non sfuggano. Sono una presenza familiare in Toscana: in Versilia non è raro trovare pescatori che le montano sui pontili che punteggiano la costa, e c’è ancora chi le adopera alla Bocca d’Arno. Da queste parti, dove il grande fiume che bagna la regione si getta in mare, le chiamano “retoni”: sono le “reti pensili” che affascinarono D’Annunzio, che “pendon come bilance dalle antenne / cui sostengono i ponti alti e protesi / ove l’uom veglia a volgere la fune”. Quando il Vate componeva la sua Bocca d’Arno, la foce del fiume era colma di pontili di legno da cui pendevano le reti che schiere di pescatori gettavano nelle acque per tutto il giorno: oggi quel paesaggio non esiste più, son rimasti solo alcuni “retoni” costruiti nell’immediato dopoguerra, e soprattutto questo tipo di pesca è divenuto un divertimento. Ma all’epoca era un lavoro, una preziosa fonte di sostentamento per le povere genti delle coste toscane.
Sono le bilance di Bocca d’Arno quelle che si vedono in uno dei dipinti più famosi di Francesco Gioli, oggi proprietà della Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze. In un pomeriggio invernale, lungo la costa del fiume, tra acquitrini e cespugli di stipa, alcuni pescatori attendono davanti alle bilance, che stanno per esser calate nel fiume: in uno scorcio diagonale, di quelli che per primi avevano sperimentato qualche decennio innanzi Giuseppe Abbati e Giovanni Fattori, favorito dal formato orizzontale del cartone, Gioli allinea le palafitte col tetto coperto di paglia d’erbe palustri dei pescatori dell’Arno, che fungevano sia da sostegno per le bilance, sia da ricovero per i pescatori. E ci sono anche i pescatori, nel dipinto di Gioli: sono intabarrati nei loro pesanti cappotti di panno spesso per ripararsi dalle gelide brezze marine. Stanno da soli, ognuno davanti alla propria bilancia: ce n’è anche uno, sullo sfondo, ch’è colto alla fune nel pieno del suo lavoro.
Gioli dipinse quest’olio nel 1889: non lo sappiamo per certo, ma è probabile che il dipinto della Fondazione sia quello che l’artista pisano espose quello stesso anno alla mostra della Promotrice Fiorentina, col titolo Bocca d’Arno. E da allora, quel paesaggio che per Gioli era così consueto, essendo lui nato e cresciuto da queste parti, attirò tanti altri artisti. Il suo conterraneo Guglielmo Amedeo Lori, per esempio, che nel 1901 portò alla quarta Biennale di Venezia un’Alba alla bocca dell’Arno. Oppure suo fratello Luigi, più giovane di nove anni, che nel 1902 portò a Torino un paesaggio Presso la foce dell’Arno. E poi ancora Niccolò Cannicci, Ulvi Liegi, e più tardi Galileo Chini, Federigo Severini, Renato Natali.
Francesco Gioli, Bilance a Bocca d’Arno (1889; olio su cartone, 25 x 70 cm; Firenze, Fondazione Cassa di Risparmio) |
Per Francesco Gioli però non si trattava di documentare un aspetto della difficile vita quotidiana dei pescatori dell’Arno, di restituire sul cartone un brano di verismo, d’occuparsi di quel che accadeva tutti i giorni alla foce del fiume. Si trattava semmai d’affrontare il tema con accenti lirici, ricavando la poesia di quelle mattinate sempre uguali, di quei gesti ripetuti ogni giorno, di quegli uomini che vivevano secondo il ritmo imposto dalla natura, di quegli splendidi paesaggi che, per loro, erano nient’altro che il luogo dove procurarsi di che vivere. In Italia era stato Nino Costa l’iniziatore del paesaggio-stato d’animo, e peraltro il pittore romano aveva trascorso gli ultimi scorci della sua esistenza proprio sul litorale toscano, tra Castiglioncello e Marina di Pisa: a suo avviso, il vero non diceva nulla se non veniva filtrato attraverso il sentimento. Proprio in queste zone Nino Costa, verso la metà degli anni Ottanta, aveva elaborato la sua poetica, e Gioli si dimostrò attento a seguirne le indicazioni, “sulla scorta di una vigile attenzione naturalistica, ma anche di un’inclinazione lirica”, ha scritto Francesca Cagianelli, che ha notato come Gioli associ, alla spiccata inclinazione disegnativa del difficile taglio della composizione, che presuppone una complessa griglia prospettica, “una sapiente restituzione degli effetti atmosferici, tramite la ricerca di una corretta intonazione alla quale affidare la suggestione dell’ora”.
E dalla suggestione dell’ora derivano anche le scelte cromatiche, che accrescono il sentimento di malinconia che Gioli cerca d’evocare. Il sole basso, coi suoi bagliori rossastri che si fanno largo tra le nubi all’orizzonte, fa risplendere le acque fredde e perlacee del fiume di toni dorati e, di converso, pone le baracche dei pescatori, le bilance e le figure umane in un robusto controluce. L’accordo tra i toni freddi e i forti contrasti tra luce e ombra sono tipici di questa fase della produzione di Francesco Gioli: l’artista adoperava questi effetti atmosferici per accentuare il lirismo delle sue composizioni, di quei paesaggi costieri che, scriveva Enrico Panzacchi nel 1897, “egli ha studiato con tanto amore e sa rendere così attraenti nelle lontananze luminose e con la fusione delicata delle varie fioriture entro la varietà dei verdi”.
Era proprio a partire da questi anni che Gioli aveva smesso d’essere “il poetico e gentile illustratore delle colline pisane”, come l’aveva appellato Guido Carocci recensendo le sue opere nel 1886, per diventare un pittore aggiornato che fosse in grado di trasfigurare in poesia la dura vita marinaresca della costa toscana. Una poesia che, osserva spesso chi si trova ad ammirare il quadro, è in gran parte racchiusa nella figura del pescatore più vicino al riguardante. Le bilance di Gioli non sono un documento, esulano da qualsiasi intento narrativo o di denuncia sociale. È lasciato semmai all’osservatore il compito d’interrogarsi su quali fossero le asprezze, le difficoltà, le noie di quella vita: ci si può provare immedesimandosi nel pescatore colto in quell’atteggiamento così contemplativo, malinconico a sua volta, mentre fuma la pipa guardando davanti a sé la massa del fiume che scorre, col suo sentimento che si diffonde nell’atmosfera.
Se ti è piaciuto questo articolo, leggi i precedenti della stessa serie: il Concerto di Gabriele Bella; la Ninfa rossa di Plinio Nomellini; l’Apparizione di Cristo alla madre del Guercino; la Maddalena di Tiziano; le Mille e una notte di Vittorio Zecchin; la Trasfigurazione di Lorenzo Lotto; il Tobia e l’angelo di Jacopo Vignali; il Profumo di Luigi Russolo; Novembre di Antonio Fontanesi; i tondi di san Maurelio di Cosmè Tura, la Madonna col Bambino e Angeli di Simone dei Crocifissi.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).