di
Federico Giannini, Ilaria Baratta
, scritto il 06/08/2019
Categorie: Opere e artisti / Argomenti: Arte antica - Arte romana
Per proteggersi dal “fascinus”, ovvero dal malocchio, gli antichi romani utilizzavano dei curiosi amuleti a forma fallica: se ne trovano molti in tanti musei archeologici in tutto il mondo.
Il “fascinus” dell’antica Roma: l’amuleto a forma di fallo che proteggeva contro il malocchio
A chiunque abbia visitato un museo archeologico con una sezione dedicata all’arte romana, sarà capitato almeno una volta di imbattersi in oggetti a forma di fallo: potevano essere amuleti, lucerne, tintinnabula (una sorta di versione romana dello scacciapensieri che si appende alle porte d’ingresso di un’abitazione o di un negozio) o altri oggetti di uso comune, ma l’organo maschile è spesso grande protagonista dei manufatti dell’antica Roma. Per comprendere il perché di questa costante presenza è necessaria una premessa per introdurre il tema della superstizione presso gli antichi romani: e quello con la superstizione era un rapporto costante e quotidiano per i romani, dal momento che anche le più piccole disavventure della vita di tutti i giorni prevedevano gesti o rituali per scongiurare eventuali peggioramenti, mentre situazioni più gravi (come malattie o incidenti di ogni tipo) prevedevano l’intervento di veri maghi, specialisti nel formulare incantesimi (che, secondo le credenze del tempo, dovevano essere condotti con precisione, altrimenti sarebbero stati inefficaci), chiamati per ottenere il favore delle divinità. Nell’antica Roma, il confine tra superstizione e religione era molto labile: dèi e semidèi della religione ufficiale, ha scritto la studiosa Maria Grazia Maioli, “hanno caratteristiche e attributi specifici, formule rigide richieste per le invocazioni e le preghiere, animali preferiti da offrire e da sacrificare; il rispetto preciso del rituale porta alla sicurezza del risultato, sia quando l’ambito è quello della religione superiore, dei rapporti con gli dèi celesti ed inferi, sia quando si tratta di qualcosa di molto più basso, ma importantissimo nella vita di tutti i giorni, come guarire, ad esempio, da un raffreddore o da un mal di stomaco; la religione familiare romana conosce infinite divinità, la cui funzione è quella di proteggere ogni momento della vita [...]; per avere il loro appoggio bastava fare una piccola offerta, come un pizzico di farina, o fare un preciso gesto rituale o scaramantico, senza il quale però tutto sarebbe andato male, una religione di tutti i giorni, spesso sconosciuta o appena citata dalle fonti, ma che riempiva tutti i momenti, fra superstizione pratica e magia spicciola”.
Qual era la causa attribuita ai mali che colpivano gli antichi romani, soprattutto quelli che capitavano improvvisamente? Per i romani, spesso poteva trattarsi dei risultati di un maleficio o di un’influenza negativa, chiamata in causa anche per spiegare malattie di cui all’epoca erano ignote le cause: uno dei grandi spauracchi della Roma antica era il fascinus, il malocchio, un influsso malefico che si riteneva venisse trasmesso a parole, con dei gesti particolari oppure semplicemente con uno sguardo. Era il cosiddetto oculus malignus, “occhio maligno”, esatta corrispondenza antica del termine “malocchio”: si pensava che esistessero persone, dotate di occhi deformi o incantatori, capaci di lanciare malefici solo guardando una persona. Questo potere talvolta veniva attribuito anche a intere famiglie, come apprendiamo leggendo il settimo libro della Naturalis Historia di Plinio il Vecchio, dove l’autore scrive che “in Africa esistono, secondo Isigono e Ninfodoro, famiglie in grado di lanciare il fascinus e che con le loro lodi riescono a uccidere gli armenti, seccare gli alberi, far morire i neonati. Isigono aggiunge che persone di questo genere ci sono anche tra i Triballi e gli Illiri, e sono capaci di lanciare il fascinus anche solo con lo sguardo e riescono a far morire coloro che fissano a lungo, soprattutto se lo fanno con occhi adirati”. Non sappiamo con sicurezza da dove derivi il termine fascinus: c’è chi lo ha messo in relazione con il greco báskanos (“calunniatore”, “iettatore”, “ammaliatore”) e ancora chi, invece, ritiene che abbia a che fare con il sostantivo latino fascia (“fascia”, come a dire che il fascinus è un sortilegio che avvinghia e intrappola chi lo riceve). Ed è peraltro dal termine fascinus che deriva l’italiano “fascino” (si pensi all’accezione negativa che può avere il termine, se inteso come malia in grado di soggiogare chi la subisce).
Il fascinus poteva avere molti effetti, anche fatali (al malocchio erano attribuite anche morti improvvise, e oltre che per spiegare l’insorgere di malattie lo si chiamava in causa anche per motivare raccolti poco abbondanti, morie di bestiame, incidenti alla propria abitazione), e poteva colpire tutti, ma una categoria particolarmente soggetta agli influssi negativi era ritenuta quella dei bambini (com’era naturale che fosse, dal momento che i più piccoli sono più predisposti ad ammalarsi rispetto agli adulti): a loro veniva fatta indossare la bulla, un amuleto che portavano per tutta l’infanzia e che si riteneva potesse scacciare il malocchio (“al collo dei bambini”, scriveva Varrone nel De lingua latina, “si appende contro il malocchio un amuleto rappresentante una figura oscena”). Più in generale, erano molti i modi per scampare al fascinus o per allontanarlo. Dai già citati rituali si passava a pratiche più semplici, come i gesti apotropaici, scaramantici, di scongiuro (alcuni gesti antichissimi sopravvivono ancora oggi: si pensi al gesto delle corna), ma particolarmente diffusa era la distrazione dello sguardo maligno mediante amuleti: il più diffuso di questi era l’amuleto a forma fallica, ritenuto un mezzo molto potente per allontanare il fascinus (tanto che gli amuleti a forma di falli erano noti con lo stesso termine: anche l’amuleto, cioè, si chiamava fascinus). La rappresentazione visiva forse più potente del simbolismo associato al fallo è un bassorilievo del secondo secolo dopo Cristo rinvenuto a Leptis Magna (nell’odierna Libia) che rappresenta un organo maschile dotato di gambe colto mentre eiacula sopra un oculus malignus per neutralizzare i suoi effetti malefici.
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Bassorilievo con fallo che eiacula sull’oculus malignus (II secolo d.C.; Leptis Magna)
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Il fallo era direttamente collegato al culto del dio Priapo, nume tutelare della fertilità, rappresentato come un uomo dal pene enorme: alla rappresentazione dei genitali maschili, proprio in virtù dei loro richiami alla fertilità e all’abbondanza (e quindi alla forza generatrice della natura e alla capacita di donare la vita), era attribuito un grande potere scaramantico, e indossare un fascinus era ritenuto un modo efficace per allontanare il malocchio. E non occorreva soltanto indossarlo, ma era necessario anche portarlo in bella vista, dal momento che esibirlo, come detto, avrebbe distratto lo sguardo degli ammaliatori e quindi allontanato i loro influssi malefici. I fascini più semplici erano quelli che semplicemente riproducevano genitali maschili: se ne trovano di diversi in molti musei archeologici, e sono modellati naturalisticamente, spesso provvisti di testicoli e, ovviamente, di un anello di sospensione per far passare la collana (si trattava, infatti, di oggetti che venivano portati al collo). Spesso l’anello era posizionato in orizzontale rispetto al fusto del pene, in modo tale che, indossandolo, la punta dell’organo in erezione venisse minacciosamente rivolta nei confronti di chi osservava l’arnese. Occorre specificare che l’esibizione di questi oggetti nella maggior parte dei casi non aveva niente di sconveniente (e, vale la pena sottolinearlo, si vedevano rappresentazioni di falli nelle abitazioni, nei negozi, lungo le strade): semplicemente per il fatto che Priapo era ritenuto un dio positivo, capace di appagare, dispensare piacere e abbondanza.
La fantasia degli artigiani romani era spesso incline a spiccare il volo: nella produzione di amuleti spiccano oggetti che hanno per protagonista il fallo alato o il fallo con le gambe, e il fatto che gli organi sessuali maschili venissero rappresentati con ali o gambe alludeva simbolicamente alla potenza del fallo, alla sua forza, alla sua grande vitalità. Inoltre, spiega la studiosa Carla Corti, nel caso in cui fosse stato raffigurato alato, il fallo “poteva anche assumere connotati magici più evidenti”: in casi come questi, “si concretizzava la similitudine iconografica con la figura del cavallo alato, munendo il fallo delle zampe posteriori e della coda”. Altro amuleto molto tipico e frequente è quello che vede da una parte raffigurato il pene in erezione, e dall’altra una mano con il pugno chiuso a fare il cosiddetto “gesto delle fiche” (ovvero facendo passare il pollice tra l’indice e il medio), che allude ai genitali femminili e pertanto in oggetti come questi aveva la funzione di unire la doppia forza generatrice dell’organo dell’uomo e di quello della donna.
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Arte romana, Amuleto fallico (I-III secolo d.C.; lega di rame, 4,3 x 1,5 x 1,4 cm; Cambridge, Massachussets, Harvard Art Museums)
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Arte romana, Amuleto fallico (bronzo; Trento, Castello del Buonconsiglio). Ph. Credit Francesco Bini
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Arte romana, Amuleto fallico (I secolo d.C.; bronzo; Venezia, Museo Archeologico Nazionale)
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Arte romana, Amuleto fallico (I-IV secolo d.C.; bronzo; León, Museo de León)
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Arte romana, Amuleto fallico con mano che fa il gesto delle fiche (I secolo d.C.; bronzo; Napoli, Museo Archeologico Nazionale). Ph. Credit Francesco Bini
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Arte romana, Amuleto fallico con mano che compie un gesto scaramantico (media-tarda età imperiale; bronzo; Piacenza, Musei Civici di Palazzo Farnese)
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Arte romana, Fallo alato con gambe (I-III secolo d.C.; bronzo; Praga, Palazzo Kinský)
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Arte romana, Fallo alato (media-tarda età imperiale; bronzo; Piacenza, Musei Civici di Palazzo Farnese)
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Arte romana, Fallo alato con gambe (I secolo d.C.; bronzo; Londra, British Museum) © The Trustees of the British Museum
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Arte romana, Fallo a forma di quadrupede-uccello con coda scorpionica fallica e due insetti sul dorso (I secolo d.C.; bronzo; Napoli, Museo Archeologico Nazionale). Ph. Credit Marie-Lan Nguyen
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Le composizioni potevano farsi anche molto più complesse. I falli potevano avere zampe e coda di leone (i cosiddetti “falli leonini”) e potevano essere addirittura cavalcati dalle figure più svariate (alcuni interessanti esempî in tal senso si trovano al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, all’interno del Gabinetto Segreto che raccoglie una vasta collezione di oggetti a soggetto erotico). A volte il fallo era peraltro cavalcato da una figura femminile: il medievista David Williams ha scritto che questa simbologia è all’origine della ben più nota immagine della strega a cavallo della scopa. In certi casi il fallo diventa così animato da aggredire il suo... possessore, dando luogo a esiti grotteschi: sempre a Napoli è conservata, per esempio, la figura di un guerriero che lotta contro il suo pene, che ha assunto le sembianze di una pantera. Ancora, alle volte capitava che il fascinus con il quale armarsi contro il malocchio non raffigurasse semplicemente un fallo, ma una divinità itifallica (ovvero con il pene in erezione), tipicamente Priapo, ma anche Mercurio. Il simbolismo del fallo fin da tempi antichi era legato anche al culto di Mercurio: l’associazione tra il dio greco e romano del commercio e le allegorie falliche deriva da alcuni culti in area greca nell’ambito dei quali il dio Ermes (poi diventato il Mercurio dei romani) veniva identificato con il dio Kadmilos, venerato in Samotracia in tempi remoti (era un dio della fertilità ed era rappresentato anch’egli in atteggiamento itifallico). Sempre a Napoli è conservato un Mercurio che cavalca un ariete (animale legato al dio, così come a Kadmilos: era inoltre, per entrambi, la bestia che di preferenza veniva loro sacrificata durante i rituali), dotato di un fallo di enormi proporzioni.
Molte delle figure che si sono citate venivano inserite in tintinnabula: si trattava di oggetti che, come detto in apertura, erano affini ai più famosi “scacciapensieri”. Un tintinnabulum era cioè un sonaglio, tipicamente realizzato in bronzo, che veniva appeso alle porte delle case e delle botteghe, solitamente composto da una figura principale e da una serie di campanelli che gli venivano appesi, in maniera tale che il vento o l’apertura di una porta lo facessero suonare. Si pensava che il suono del tintinnabulum distraesse gli iettatori e allontanasse quindi il malocchio: un potere che cresceva se l’oggetto assumeva forme falliche. In tutto il territorio dell’impero romano sono molti i tintinnabula che sono emersi dagli scavi archeologici e che oggi sono conservati nei musei di tutto il mondo: si trattava, infatti, di oggetti di uso comune e di diffusione relativamente vasta (in altre parole, erano molti i romani che avevano amuleti fallici, ma non tutti li possedevano: del resto, se si pensa che gran parte del potere di questi amuleti risiedeva nella capacità di sorprendere chi lanciava malefici, non avrebbero sortito effetto se i malintenzionati fossero stati abituati a vederli). E più gli amuleti erano strani e bizzarri, più erano ritenuti potenti, dal momento che erano considerati capaci di distrarre più a lungo gli iettatori.
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Arte romana, Tintinnabulum a forma di fallo con campanelli (I-III secolo d.C.; bronzo; Berlino, Staatliche Museen, Antikensammlung). Ph. Credit Francesco Bini
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Arte romana, Tintinnabulum con fantino che cavalca e incorona un grosso fallo e sta per essere penetrato dalla coda fallica (I secolo d.C.; bronzo; Napoli, Museo Archeologico Nazionale)
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Arte romana, Tintinnabulum a forma di fantino che monta e incorona un grosso fallo alato (I secolo d.C.; bronzo; Napoli, Museo Archeologico Nazionale)
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Arte romana, Tintinnabulum a forma di gladiatore intento a combattere con un pugnale contro il suo stesso fallo trasformato in una pantera aggressiva (I secolo a.C.; bronzo; Napoli, Museo Archeologico Nazionale)
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Arte romana, Tintinnabulum con Mercurio polifallico (I secolo d.C.; bronzo; Napoli, Museo Archeologico Nazionale). Ph. Credit Francesco Bini
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Arte romana, Tintinnabulum con Mercurio che cavalca ariete itifallico (I secolo d.C.; bronzo; Napoli, Museo Archeologico Nazionale). Ph. Credit Francesco Bini
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Se gli oggetti fin qui visti servivano per la protezione personale contro la fascinatio (ovvero la pratica magica di chi lanciava il fascinus: l’immagine più famosa è forse quella del Carme VII di Catullo, dove il poeta chiede tam te basia multa basiare / vesano satis et super Catullo est; / quae nec pernumerare curiosi / possint nec mala fascinare lingua, ovvero domanda alla sua amata “tanti baci che i maligni non possano contarli né le male lingue possano lanciarvi contro il malocchio”), occorre per completezza sottolineare intanto che questa superstizione aveva anche carattere pubblico (le erme itifalliche di Dioniso ed Hermes che già nell’antica Grecia venivano poste al limitare dei campi o nelle strade che conducevano verso le città avevano lo scopo di invocare la protezione degli dèi per vaste comunità), e in secondo luogo come non mancassero rituali pubblici destinati a scampare al malocchio e a ingraziarsi Priapo, che rimaneva comunque, spiega Maioli, “un dio familiare, glorioso simbolo di allegria e di buona fortuna, difensore dei confini e dei diritti, feroce in modo sarcastico con chi gli si opponeva o che violava la sua protezione, come si desume dai Carmina Priapica conservatici dalle fonti: è naturale quindi che anche il suo attributo principale sia trattato con lo stesso spirito”. Per i romani, insomma, non era strano vedere falli rappresentati un po’ ovunque.
Bibliografia di riferimento
- Adam Parker, Stuart McKie (a cura di), Material approaches to Roman magic. Occult objects and supernatural substances, Oxbow Books, 2018
- Megan Cifarelli, Laura Gawlinski (a cura di), What shall I say of clothes? Theoretical and methodological approaches to the study of dress in antiquity, American Institute of Archaeology, 2017
- Jacopo Ortalli, Diana Neri (a cura di), Immagini divine. Devozione e divinità nella vita quotidiana dei romani, testimonianze archeologiche dall’Emilia Romagna, catologo della mostra (Castelfranco Emilia, Museo Civico, dal 15 dicembre 2007 al 17 febbraio 2008), All’Insegna del Giglio, 2017
- Carla Conti, Diana Neri, Pierangelo Pancaldi (a cura di), Pagani e cristiani. Forme ed attestazioni di religiosità del mondo antico nell’Emilia centrale, Aspasia edizioni, 2001
- Eva Björklund, Lena Hejll, Luisa Franchi dell’Orto, Stefano De Caro, Eugenio La Rocca (a cura di), Riflessi di Roma. Impero romano e barbari del Baltico, catalogo della mostra (Milano, AltriMusei a Porta Romana, dal 1° marzo al 1° giugno 1997), L’Erma di Bretschneider, 1997
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Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta
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