“Un'arte salubre e serena”. Il Luglio di Ettore Tito


Nel 1894, il pittore veneziano Ettore Tito presentava alla Triennale di Belle Arti di Milano una delle sue opere più note, “Luglio”. Uno splendido quadro balneare che ritrae un bagno nel mare Adriatico.

Nella guida dell’Esposizioni Riunite di Milano del 1894 si poteva leggere che i quadri di Ettore Tito non erano in grado di richiamare d’emblée l’attenzione del pubblico: “non sono di grandi dimensioni, né di soggetto nuovo od eccentrico”, sentenziava il volume. Eppure, quella stessa pubblicazione li individuava come “forse l’avvenimento più notevole di tutta l’esposizione”, perché nessun altro degli artisti esposti (e ce n’erano di grandi: Giuseppe Pellizza, Giovanni Segantini, Emilio Longoni, e moltissimi altri), secondo la guida, riusciva con altrettanta semplicità a trasmettere al riguardante i valori atmosferici del plein air. E per illustrare quest’apparenza di semplicità, il libello presentava Luglio, uno dei capolavori più noti e riconosciuti dell’artista stabiese di nascita, ma veneziano d’adozione: lo aveva presentato proprio nell’ambito della Triennale di Belle Arti di Milano, che quell’anno era stata accorpata alle tante altre mostre che avrebbero poi dato vita alle Esposizioni Riunite (e che non ha niente a che vedere con la Triennale odierna: si trattava d’un’altra mostra).

Anche il soggetto è di disarmante semplicità: sotto la canicola estiva, nel mese di luglio, alcune persone stanno facendo un bagno nell’Adriatico, al Lido di Venezia. Ci sono mamme con bambini piccoli, ragazzini che si tengono per mano, un paio di figure solitarie più indietro. L’acqua è bassa e calma, e si tinge dei riflessi rosati del sole mattutino, che colorano l’acqua su cui si riverbera il cielo lattiginoso tipico dei giorni più caldi dell’estate, quando l’afa oscura l’azzurro terso coi suoi veli d’umidità. La donna in primo piano ha la veste bagnata fino alle ginocchia, e tiene i suoi figli in braccio. Lo stesso fa l’altra madre più indietro, sistemata a chiudere il taglio obliquo d’una composizione che vede al centro il gruppo dei ragazzini svestiti e bagnati fino alla testa.

Il pennello di Ettore Tito si scioglie in una luce calda e avvolgente, che fa risaltare le lievi increspature del mare, scintillanti di riflessi dorati tra lo sciabordio leggero delle onde che scivolano verso la riva e s’infrangono contro le caviglie dei personaggi, colti nell’atto d’avvicinarsi alla battigia, alla fine del bagno. Pare quasi d’immaginarsi quella madre in primo piano mentre va di persona a prendere il bambino più grande che non vuol saperne d’uscire dall’acqua: una scena che da decennî si verifica tutti i giorni d’estate lungo tutte le coste d’Italia.

Ettore Tito, Luglio (1894; olio su tela, 97 x 55 cm; Trissino, Villa Marzotto)
Ettore Tito, Luglio (1894; olio su tela, 97 x 55 cm; Trissino, Villa Marzotto)

Un quadro balneare, insomma, tipico del gusto di fine Ottocento: un soggetto molto frequentato dall’impressionismo tardo, di cui Ettore Tito fu uno dei maggiori esponenti italiani. Scene come quella dipinta dal pittore veneziano abbondano dal nord al sud del continente, nei lavori d’artisti come Joaquín Sorolla, Max Liebermann, Anders Zorn, Paul Gustave Fischer, per non parlar dei pittori della scuola di Skagen, da Peder Severin Krøyer a Michael Ancher, da Karl Madsen a Viggo Johansen. Ognuno leggeva il mare secondo il proprio temperamento e la propria sensibilità, dagli artisti che si soffermavano su spiagge gioiose e affollate ad altri che prediligevano invece scene più intime e meditative.

E Tito era pittore in grado di far percepire facilità e felicità, evocatore di “tanta gioia, tanta freschezza, tanta luminosità, tanto sorriso e felicità di vita”, com’ebbe a scrivere Luigi Giovanola recensendo su Emporium, nel 1919, la sua personale alla Galleria Pesaro di Milano. Il suo quadro di bagni al mare era stato molto apprezzato dalla critica contemporanea: per Raffaello Barbiera, che aveva visto Luglio proprio alla Triennale di Milano nel 1894, quella mostra segnava il punto più luminoso della carriera del pittore allora trentacinquenne. “Una rosea luce è diffusa tranquilla per il cielo, per le onde, ed avvolge e imbeve tutto”, scriveva Barbiera. “Appena appena le spume del mare, che si avanzano rotolanti, biancheggiano in una linea; appena l’acqua dell’Adriatico, venendo a morire sulla spiaggia, ha limpidi riflessi di azzurro cobalto. Sul primo piano una popolana aitante e matura, dalle carni alquanto adipose e flosce, tiene in braccio due bambini, uno de’ quali tutto nudo è bello come un Amorino dell’Albani; essa lo guarda ascoltando, a quanto pare, i desideri e le osservazioni ch’egli va mormorandole. Altri bambini in camiciola corrono per le onde e formano gruppetti deliziosi: tutto il quadro è un idillio: l’idillio del mare”.

Un idillio che Ettore Tito affronta col piglio del fotografo. Fotografica è l’idea di disporre le figure decentrate, sistemate vicino al bordo inferiore della composizione. Fotografica è l’inquadratura ravvicinata, e fotografica è la composizione impostata su di una diagonale così spiovente. E questa non è neppure una delle inquadrature più ardite d’un pittore ch’era stato capace d’osare ancor di più, nei tanti suoi quadri che raccontano la tranquillità della laguna veneta, i giochi sull’acqua, la pacata monotonia della vita dei gondolieri, la luce e i riflessi cristallini del mare. Per Roberto Longhi, Ettore Tito era un “Paolo Veronese con la kodak”. Negl’intenti del grande storico dell’arte (che aveva quattro anni quando Tito presentava Luglio alla Triennale di Milano) non doveva però essere un complimento: era il 1919 e si discuteva della possibilità d’affidare a Ettore Tito la decorazione di un salone di Palazzo Venezia. Una prospettiva davvero poco allettante secondo il giovane Longhi, per il quale Tito non avrebbe dovuto decorare né quella, né “qualsivoglia altra sala del mondo”, perché il veneziano, a suo avviso, non possedeva “la benché minima virtù di decoratore e di poeta”. E perché il metro di Leon Battista Alberti, cui è attribuito il progetto di Palazzo Venezia, non avrebbe sopportato “i gondolieri allegorico-apoplettici”, le “mitiche calere”, gli “stendardi scoloriti” dell’artista veneto. Longhi era comunque in buona compagnia: Soffici, per esempio, non avrebbe ammesso il genio di Ettore Tito neanche con un coltello alla gola (parole sue). Al più, gli avrebbe riconosciuto d’essere “un buon fotografo”, a patto di non considerare i suoi errori di disegno e la sua incapacità di ritrarre dal vero senza far avvertire la sua partecipazione emotiva, e tutta una sequela di difetti che il toscano gli attribuiva.

Quella definizione di “Paolo Veronese con la kodak”, per quanto affibbiata a Ettore Tito nel contesto d’una critica appuntita, potrebbe comunque esser considerata una sorta di nota di merito. Come quando Leroy, per stroncare la rassegna che Monet e compagni avevano allestito nello studio di Nadar a Parigi nel 1874, aveva per primo parlato della “mostra degli impressionisti”. Non serve rammentare la fortuna che ha avuto quel termine nato con intento spregiativo.

C’è, in Ettore Tito, oltre alla mirabile tecnica fotografica, una pienezza che richiama le opere del Veronese, come echi veronesiani si ravvisano nel colorismo ch’è alla base dei suoi dipinti. Alcuni hanno poi accostato la sua leggerezza a quella di Giambattista Tiepolo, altri i suoi valori atmosferici a quelli di Francesco Guardi. Esagerazioni, probabilmente. Si può esser d’accordo sul fatto che Ettore Tito non sia stato un genio: il valore della sua arte va cercato altrove. E lo aveva ben colto Ugo Ojetti, che per Tito aveva parlato d’un’arte “salubre e serena, anzi lieta e mobile e immediata”, in grado d’ignorare il dolore e la bruttezza. Un’arte che è popolata di bimbi, come in questo Luglio, perché vuole consolare, “mostrando che la vita è gradevole anche perché si rinnova ogni istante”.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).






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