L’essenzialità con cui l’artista è riuscito a trasmettere la solennità della sofferenza di Cristo in croce, senza la necessità di aggiungere alla composizione ulteriori elementi che richiamino la Passione o elaborati paesaggi di sfondo: questo è ciò che colpisce l’osservatore di fronte al Cristo crocifisso di Diego Velázquez (Siviglia, 1599 - Madrid, 1660). Un dipinto costruito unicamente con la sola presenza del soggetto principale, illuminato da una luce quasi lunare, che crea l’effetto di una scultura: pare infatti che il corpo di Cristo prenda volume e vada oltre i confini della tela.
Dalle dimensioni monumentali, la croce tocca la cornice del quadro e su di essa si staglia la figura di Cristo sorretta da quattro chiodi, uno per ogni arto; sullo sfondo non un paesaggio, bensì un paramento verde scuro che dà a tutta la composizione una straordinaria profondità. Una scena estremamente intensa ma allo stesso tempo sobria: i segni della Passione sul corpo ormai privo di vita sono quasi del tutto assenti. Sottili rivoli di sangue scendono dalle ferite nelle mani e nei piedi, macchiando di rosso vivo il legno della croce, allo stesso tempo colpa dell’umanità ed evento salvifico per l’umanità intera. Sangue scende anche lungo il fianco destro dalla ferita sul costato e quasi impercettibili sono le gocce dal capo, cinto dalla corona di spine. Il corpo nudo e lucente, coperto solo da un panno immacolato annodato sui fianchi, e ben proporzionato nelle sue fattezze, presenta solo lievemente i segni del sacrificio; la composizione non risulta macabra nella sua totalità, ma l’elemento che spicca è proprio la luce che emana il corpo, che crea un’atmosfera di religioso silenzio e di meditazione. Un caldo alone circonda la testa reclinata in avanti di Gesù e il volto appare in ombra, quasi completamente coperto dai capelli bruni, ma i tratti sembrano sereni e distesi. Tutto è in linea con un’iconografia che, pur esprimendo la tragicità dell’evento, non intende renderla esplicita in maniera drammatica, ma è una sofferenza che colpisce la parte più intima dell’osservatore, probabilmente proprio per la solennità e la sobrietà con cui l’artista ha scelto di rappresentare la scena.
Diego Velázquez, Cristo Crocifisso (1632 circa; olio su tela, 248 x 169 cm; Madrid, Prado) |
L’opera è conservata al Museo del Prado, come la maggior parte delle principali dell’artista : nella sede museale madrilena sono infatti custoditi quasi cinquanta dei circa centoventi quadri a lui attribuiti, e tra questi si contano i più significativi, come Las Meninas. Per questa ragione si può considerare il pittore simbolo della prestigiosa istituzione. Il dipinto appartiene agli anni della maturità di Velázquez: risale infatti al 1631-1632, poco dopo il suo rientro dall’Italia e periodo in cui le collezioni reali iniziarono a testimoniare in modo sempre più prolifico lo splendore e la potenza della corte spagnola. Sono gli anni in cui il pittore, la cui carriera fu segnata dalla sua lunga permanenza presso la corte, realizzò molti ritratti della famiglia reale e soprattutto di re Filippo IV, del fratello Ferdinando e del piccolo Baltasar Carlos, nonché vari ritratti del conte-duca di Olivares, colui che probabilmente influenzò il suo ingresso a corte. Il Cristo crocifisso, destinato al convento delle Benedettine di San Placido a Madrid, gli fu probabilmente commissionato da Jerónimo de Villanueva, protonotario del Regno d’Aragona e segretario del conte-duca di Olivares; Villanueva era una personalità rilevante della corte e dunque potrebbe aver incaricato lui in persona una così importante opera al pittore del re. Sappiamo inoltre che Villanueva aveva contatti diretti con Velázquez, in quanto responsabile di alcuni pagamenti da parte del re tra il 1634 e il 1635.
Il fatto di essere molto legato alla corte e alla nobiltà fu forse il motivo per cui nella sua produzione artistica si contano pochi dipinti a soggetto religioso. Alcuni critici legano la sua sobrietà nel raffigurare scene sacre a un suo personale atteggiamento distaccato nei confronti di queste ultime, poiché solito trattare temi di corte; altri affermano invece che Velázquez sia il pittore spagnolo che è riuscito meglio a rappresentare l’intensità del sentimento religioso, proprio tenendo conto di tale sobrietà. Tuttavia si sa che seguì gli insegnamenti del suo maestro Francisco Pacheco (Sanlúcar de Barrameda, 1564 – Siviglia, 1644), pittore e trattatista, che divenne successivamente anche suo suocero (sposò infatti Juana Pacheco), sotto cui si formò a Siviglia. In particolare venne influenzato da quest’ultimo nella raffigurazione di Cristo come il più bello tra gli uomini, come viene definito nel Salmo 44, e nella presenza di quattro chiodi che sostengono il corpo alla croce, invece di tre, come molti artisti rappresentavano (uno su entrambe le mani e uno solo per i piedi, poiché questi ultimi venivano raffigurati uno sull’altro). E sulla quantità di chiodi Pacheco trattò alla fine del suo Arte de la Pintura del 1649. La scritta in tre lingue che si legge sul legno sopra la testa di Cristo rispecchia il testo latino del Vangelo di san Giovanni “Iesus Nazarenus Rex Iudaeorum”, ovvero l’iscrizione che Ponzio Pilato fece apporre sulla croce di Gesù per indicare il motivo della condanna.
Miguel de Unamuno (Bilbao, 1864 – Salamanca, 1936), poeta attivo a cavallo tra Ottocento e Novecento, dedicò un poema all’opera del pittore spagnolo secentesco: El Cristo de Velázquez. Composto nel 1920 in versi sciolti, è suddiviso in quattro parti e crea un perfetto dialogo tra arte e parola, tra l’opera pittorica e l’opera poetica. Unamuno fa costanti riferimenti a particolari dettagli del dipinto, come la nera capigliatura del nazareno, il suo corpo bianco, esanime, lo sfondo scuro che contrasta con il corpo bianco di Cristo, i quattro chiodi invece di tre. “Por qué ese velo de cerrada noche / de tu abundosa cabellera negra / de nazareno cae sobre tu frente?”: così si apre l’opera poetica, per poi procedere con diversi paragoni con il corpo bianco (“Blanco tu cuerpo está como el espejo del padre de la luz”; “blanco tu cuerpo al modo de la luna”; “blanco tu cuerpo está como la hostia del cielo”) in contrasto con la notte. “El Hombre muerto que no muere / blanco cual luna de la noche” viene definito dal poeta il Cristo crocifisso, in una costante similitudine con la luna bianca della notte: “Blanca luna / como el cuerpo del Hombre en cruz”; pare infatti una luce lunare quella che emana il suo corpo, una luce tenue che porta alla meditazione e a rimanere in silenzio nell’osservare tanta bellezza. È una scena che rappresenta una morte che in realtà dà vita e speranza, grazie al sacrificio di Gesù: “Por Ti nos vivifica esa tu muerte [...] vela el Hombre que dió toda su sangre / por que las gentes sepan que son hombres. / Tú salvaste a la muerte”. E allo stesso tempo guida: “cual luna, anuncia el alba a los que viven / perdidos”.
L’intensità della poesia rispecchia pienamente l’intensità del dipinto, anche se a distanza di quasi tre secoli l’una dall’altro: è un esempio straordinario di come la parola possa intrecciarsi e amalgamarsi all’immagine, restituendo ai posteri un’opera totale di grande suggestione.
L'autrice di questo articolo: Ilaria Baratta
Giornalista, è co-fondatrice di Finestre sull'Arte con Federico Giannini. È nata a Carrara nel 1987 e si è laureata a Pisa. È responsabile della redazione di Finestre sull'Arte.