Il grande storico dell’arte Erwin Panofsky (Hannover, 1892 - Princeton, 1968) è stato considerato, e continua a essere considerato, un continuatore dell’opera di Aby Warburg, che a sua volta è ritenuto un anticipatore di Panofsky. Tutto ciò in un certo senso è vero, ma è altrettanto vero che, come ha sottolineato Salvatore Settis in un suo recente saggio dedicato a Warburg, Panofsky e Warburg furono entrambi studiosi originali, innovativi, dotati di una forte personalità, che possono (e devono) essere valutati indipendentemente l’uno dall’altro: è quello che abbiamo cercato di fare anche noi in questa nostra piccola storia della critica d’arte. Si può partire, ovviamente, da una base comune, inaugurata da Warburg e condivisa anche da Panofsky, che possiamo (banalizzando) riassumere in due punti chiave: la critica nei confronti della critica formalista e delle teorie di Wölfflin, e la considerazione secondo la quale un’opera d’arte racchiude elementi che rimandano al sostrato culturale di una società.
Erwin Panofsky |
Il differente approccio dei due studiosi si manifesta, per esempio, nell’interpretazione di un disegno di Albrecht Dürer, la Morte di Orfeo, ripresa da un’incisione di un anonimo artista ferrarese, e a sua volta derivata forse da un originale mantegnesco perduto. Per Wölfflin, l’opera “non è semplicemente copiata, ma è tradotta, forma dopo forma, nel linguaggio delle linee modellanti di Schongauer, e si tratta di un risultato non di poco conto. Il disegno appare ancora aspro, i contorni si spezzano in angoli taglienti, i rami mancano di volume, ma la cura nell’esecuzione rende manifesto il diletto di Dürer nell’imitazione nel momento in cui l’artista avvertiva le qualità scultoree dell’originale”. Di segno totalmente opposto la lettura di Panofsky, che mette il disegno di Dürer in relazione con la Morte di Orfeo che Andrea Mantegna dipinse sul soffitto della Camera degli Sposi a Mantova: “l’interpretazione di Dürer potrebbe essere ancora più classica rispetto alle sue fonti dirette italiane. Nel disegno dell’Orfeo le menadi sono modellate sotto alle loro vesti con più perfezione di quanto appaia nell’incisione italiana, e il moderno liuto è attentamente rimpiazzato da una più ortodossa lira”. Se dunque per Wölfflin, che si concentra sullo stile (lo studioso infatti parla di linee, di disegno, di contorni) la Morte di Orfeo sarebbe una prova dell’appartenenza di Dürer a un’area ben precisa, quella germanica, per Panofsky, che valuta anche il contenuto dell’opera (la lira che sostituisce il liuto), l’inclinazione personale dell’artista lo avrebbe portato a travalicare i confini della propria area geografica per arrivare addirittura ad avvicinarsi alla fonte classica più di quanto non abbiano fatto artisti italiani imbevuti di cultura classica.
Albrecht Dürer, Morte di Orfeo (1494; disegno a penna su carta, 28,9 x 22,5 cm; Amburgo, Kunsthalle) |
Maestro ferrarese, Morte di Orfeo (1460-1470 circa; incisione; Amburgo, Kunsthalle) |
La Morte di Orfeo nella Camera degli Sposi di Andrea Mantegna |
La critica di Panofsky nei confronti di Wölfflin nasce, per dirla con le parole della studiosa d’estetica Maddalena Mazzocut-Mis, dall’esigenza “di trovare nella interpretazione iconologica lo strumento per giungere al significato intrinseco del soggetto dell’opera che è il rivelatore di un atteggiamento di fondo di un popolo, di un periodo storico”. L’analisi di Panofsky non può prescindere dall’analisi del contenuto, anzi: è proprio il contenuto che diventa oggetto principale dell’indagine dello studioso tedesco. È entro tale contesto che nasce la disciplina dell’iconologia propriamente intesa, che Panofsky definisce in questi termini: “l’iconologia è quel ramo della storia dell’arte che si occupa del soggetto o significato delle opere d’arte contrapposto a quelli che sono i loro valori formali”. Obiettivo dell’analisi del soggetto o significato di un’opera d’arte è quello di sondare i rapporti che una società instaura tra forme e contenuti, alla luce del fatto che un’opera è “un sintomo di qualcos’altro che si esprime in infiniti altri sintomi”, per adoperare le parole che Panofsky utilizza nell’introduzione ai suoi Studies in Iconology, una raccolta di saggi pubblicata originariamente nel 1939 (e uscita in Italia con il titolo di “Studi di Iconologia” per la Einaudi, in svariate edizioni). Tale introduzione rappresenta una lettura imprescindibile per chiunque voglia avvicinarsi alla comprensione dell’iconologia. Vale dunque la pena vedere quali sono le basi della disciplina secondo Panofsky.
È infatti proprio negli Studies in Iconology che Panofsky delinea i fondamenti dell’iconologia. A cominciare dai diversi significati che un’opera può assumere. Esattamente come l’atto di togliersi il cappello (è l’esempio proposto dallo stesso Panofsky: nel momento in cui identifico come un saluto l’oggetto della mia visione, un amico, e l’evento a cui assisto, l’atto di togliersi il cappello, passo già dalla sfera della percezione a quella del significato, e sulla base di tale significato mi comporterò di conseguenza) è semplicemente un evento fisico che però, a seguito dell’interpretazione fornita dalla nostra psiche, si carica di un significato che tiene conto di una storia e di un preciso sostrato culturale (Panofsky fa risalire l’atto di togliersi il cappello al Medioevo, quando i cavalieri si toglievano l’elmo dell’armatura per mostrare buone intenzioni e accordare fiducia al prossimo) rivelato dalla personalità di chi compie il gesto, allo stesso modo l’opera d’arte è data da un insieme di elementi che assumono un significato e che rivelano aspetti storici e culturali della società a cui appartiene l’artista. Tenendo conto di ciò, per Panofsky l’analisi di un’opera d’arte può essere condotta su tre livelli. Il primo è la descrizione preiconografica, che si occupa del soggetto primario o naturale, ovvero le pure forme che rappresentano figure umane, animali, oggetti e via dicendo. Il soggetto primario a sua volta può essere suddiviso in soggetto fattuale (un uomo o una donna) e soggetto espressivo (una posa che trasmette dolore o allegria, oppure, in rapporto agli oggetti, la serenità di un’ambientazione, per esempio). Il secondo livello è quello della descrizione iconografica, volta a stabilire il soggetto secondario o convenzionale. Vale la pena evidenziare che iconologia e iconografia sono due termini distinti, dotati di significati diversi: per offrire una spiegazione molto basilare di questa differenza, possiamo dire che l’iconografia è la disciplina che si limita a descrivere i soggetti delle immagini (dunque l’iconografia stabilisce cosa un’immagine rappresenta), mentre l’iconologia interpreta tali soggetti spiegando per esempio quali motivi hanno portato una società ad attribuire un significato simbolico al soggetto (l’iconologia quindi si occupa dei perché dei motivi artistici di un’immagine). Il secondo livello dell’analisi di Panofsky, dunque, ha l’obiettivo di descrivere il significato convenzionale di un motivo artistico: per esempio, un uomo con un coltello rappresenta san Bartolomeo, un insieme di dodici persone a tavola attorno a un ulteriore personaggio è interpretabile come un’Ultima cena, e così via. Infine, il terzo e ultimo livello è quello della descrizione iconologica: quest’ultima individua il significato intrinseco (o “contenuto”) dell’immagine, che è dato dalle idee e dagli atteggiamenti (derivanti da convinzioni filosofiche o religiose, oppure dall’appartenenza a un periodo storico, a una classe sociale, a un’area geografica) della società a cui l’artista appartiene e che lo condizionano.
Panofsky, al fine di fornire un esempio, applica questo tipo di analisi a un’opera attribuita a un artista veneto del Seicento, Francesco Maffei, conservata presso la Pinacoteca Comunale di Faenza, che un altro storico dell’arte, Giuseppe Fiocco, aveva pubblicato come Salomè con la testa del Battista. Per inciso, oggi si sta facendo strada l’ipotesi che l’opera sia invece da ascrivere alla mano di Bernardo Strozzi: tuttavia, per mera aderenza al testo di Panofsky, continuerò a riferirmi, in questo articolo, a Francesco Maffei. A livello preiconografico, distinguiamo una bella donna che reca in mano una spada e un bacile con la testa recisa di un uomo, il tutto in un paesaggio boscoso. A livello iconografico, potremmo trovarci di fronte a due opzioni: da una parte potremmo identificare il soggetto dell’opera con quello proposto da Fiocco, ovvero la Salomè con la testa del Battista. Tuttavia esiste un soggetto analogo, in cui ugualmente compaiono una giovane di bell’aspetto, una testa recisa e una spada: si tratta della Giuditta con la testa di Oloferne. Si pone a questo punto un problema: nessuno dei due soggetti è perfettamente coerente con le fonti letterarie. Nella Bibbia, infatti, Salomè non decapitò personalmente Giovanni Battista, ma consegnò la testa a Erode su un vassoio (quindi il soggetto spiegherebbe il bacile, ma non la spada), mentre Giuditta decapitò Oloferne con la sua spada, ma nascose la testa in un sacco (sarebbe così spiegata la spada, ma lo stesso non si potrebbe dire del bacile). Pertanto, affidandosi esclusivamente alla descrizione preiconografica e a quella iconografica, non saremmo in grado di stabilire per quali ragioni Maffei abbia raffigurato il soggetto in questo modo né, ovviamente, quale sia esattamente il soggetto. Il problema viene dunque risolto a livello iconologico. Nell’Italia del Nord, oltre che in area germanica, erano comparse precedenti raffigurazioni con il tipo “Giuditta e bacile”, mentre non esisteva alcun’opera in cui Salomè recasse con sé la spada: era dunque da tale repertorio che aveva attinto Maffei. Per comprendere le ragioni per le quali il motivo del piatto fosse passato a Giuditta occorre far riferimento proprio al sostrato culturale e sociale alla base del soggetto iconografico della “Giuditta con bacile” in Italia a partire dal XIV secolo, epoca alla quale Panofsky faceva risalire il culto nei confronti dell’immagine della testa di Giovanni Battista sul vassoio: un’immagine devozionale diventata talmente popolare da consentire al bacile di sostituirsi al sacco nelle scene con Giuditta (gli artisti infatti alla testa decapitata associavano più facilmente l’immagine del vassoio, perché era a loro più familiare).
Bernardo Strozzi (?), già attribuita a Francesco Maffei, Giuditta con la testa di Oloferne (1640 circa; olio su tela, 68 x 90 cm; Faenza, Pinacoteca Comunale) |
Quella che Panofsky introdusse fu una sorta di rivoluzione nella lettura delle opere d’arte, tanto più che veniva enunciata in modo sistematico, chiaro, preciso, pratico e con diversi esempi. Il suo metodo di analisi ebbe una profonda influenza su generazioni di storici dell’arte, e alla diffusione dei suoi studi contribuirono in maniera determinante anche la sua vasta cultura oltre alla sua grandissima abilità nel riuscire a condurre impeccabili analisi storiche dei dipinti da lui esaminati. Il suo ruolo fu inoltre fondamentale per dare impulso all’ambiente degli studiosi di storia dell’arte statunitensi. Panofsky si era infatti trasferito in America, per scampare al nazismo, nel 1933: rimase negli Stati Uniti, dove condusse le sue attività di studio e insegnamento, per il resto della sua vita. Certo, anche il metodo di Panofsky incontrò resistenze, a cominciare da quella di Otto Pächt, secondo il quale il rischio del metodo iconologico consisterebbe nell’osservare l’opera d’arte esclusivamente come un prodotto della ragione: in particolare, secondo Pächt, l’iconologia tende a vedere l’opera “non come l’espressione o la forma di un’idea, bensì come il suo mascheramento”, nel senso che l’idea e l’atto creativo alla base dell’opera non verrebbero considerati autonomi e indipendenti, ma semplici strumenti per dare una forma visiva a un simbolo (c’è però da dire che già in diversi passaggi presenti in alcuni saggi degli Studi di Iconologia, Panofsky aveva attribuito una notevole importanza alla personalità dell’artista). Rimane tuttavia il fatto che il metodo iconologico elaborato da Erwin Panofsky risulta ancor oggi uno dei più validi attraverso cui analizzare un’opera d’arte.
Bibliografia di riferimento
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).