Il 31 luglio del 1920, quattro giorni prima della sua scomparsa, Vittore Grubicy de Dragon (Milano, 1851 - 1920) lasciava a Milano una delle sue opere più importanti, il Poema invernale (“Quest’opera”, si legge nelle sue volontà, “è da me assegnata alla collezione municipale della mia città natale”). E oggi gli otto quadri che compongono questo straordinario polittico sono tutti esposti nel percorso della Galleria d’Arte Moderna, la GAM, allestiti esattamente come voleva il grande pittore divisionista. Inverno in Montagna (questo il titolo che l’artista aveva originariamente dato alla sua opera) è oggi noto come Poema invernale perché era precisa intenzione dell’artista quella di dar vita a una sorta di opera poetica: “Come un poema si divide in canti, canzoni, sonetti, così il mio lavoro anziché in una sola tela si compone di vari quadri, raggruppati in una determinata disposizione per concertare un assieme”, scriveva l’artista.
Sono otto vedute di paesaggi del Lago Maggiore, dipinte tra il 1894 e il 1897 a Miazzina, nei pressi di Intra (che oggi con Pallanza forma la città di Verbania), e modificate nell’allestimento a più riprese fino al 1911, anno in cui Grubicy immaginò il loro assetto definitivo. Curiosamente, Grubicy scrisse l’elenco degli otto quadri e le istruzioni su come esporli sul retro di un altro suo dipinto, che non fa parte della serie (è Sale la nebbia dalla valle, un olio su cartone del 1895 oggi nelle collezioni della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma). Le notazioni fanno parte di una dedica autografa a un personaggio il cui nome è purtroppo illeggibile, alla quale seguivano le fotografie dei quadri: “Caro... questa impressione è uno spunto staccato dalla mia opera di cui le unisco lo schema compositivo per quanto la fotografia sia mal riuscita. Cordiali saluti dal suo Vittore Grubicy 19 luglio 1911. / ‘Inverno a Miazzina’. Poema panteista in otto quadri 1894-1911 A) Notte / B) El crapp di Rogoritt / C) Sinfonia crepuscolare / D) La buona sorgente / E) A sera / F) Tutto candore! / G) Mattino / H) La vallata”. Col tempo, ai quadri sono stati dati anche nomi leggermente differenti rispetto a quelli annotati dall’artista (furono modificati dallo stesso Grubicy). Il più antico, del 1894, è Notte (o Notte lunare, o ancora Chiaro di luna), cui seguono due opere del 1895 (El crapp di Rogoritt o Pecore sullo scoglio, e La vallata o La vallata del Toce), tre del 1896 (Sinfonia crepuscolare o Armonia crepuscolare, La buona sorgente o La sorgente, e A sera, o nota anche come Dalla finestra: sera d’inverno, La sera e Ritorno all’ovile) e infine due del 1897 (Tutto candore! nota anche come Neve o In albis, e Mattino, o Mattino gioioso). Grubicy li elenca nel modo in cui vanno esposti, menzionando per primi i quadri della fila inferiore e poi quelli della fila superiore.
Inverno in montagna costituisce una sorta di manifesto della poetica di Grubicy, come ben evidenzia la dicitura “poema panteista” che l’artista stesso aveva adoperato come sottotitolo del suo ciclo. Un “panteismo laico” (come lo ha definito lo storico dell’arte Sergio Rebora, grande studioso della figura di Grubicy) che esprime l’emozione e la commozione dell’artista di fronte alla meraviglia della natura. “Un quadro”, ebbe a scrivere Grubicy nel 1891 rispondendo ad alcune critiche mosse ai pittori divisionisti all’indomani della Prima Esposizione Triennale di Brera allestita quell’anno (era la prima volta che i divisionisti si presentavano al pubblico), “non è un’opera d’arte se non riflette come uno specchio l’emozione psicologica provata dall’artista davanti alla natura o davanti al proprio sogno”. I paesaggi di Miazzina sono dunque sempre mediati dal sentimento dell’artista, che col suo poema richiama alla mente ricordi e sensazioni: sono, in breve, tra i più interessanti capolavori italiani del genere del paesaggio-stato d’animo, di cui Grubicy fu uno dei maggiori interpreti. Quando l’artista cominciò a dipingere le opere di Inverno in montagna, aveva da poco lasciato la guida della sua galleria, punto di riferimento per la scena artistica milanese del tempo, al fratello Alberto, per dedicarsi meglio alla critica (fu infatti anche un attivo critico militante) e alla pittura. Il suo intento, ha ricordato Rebora, “forse all’inizio non avvertito del tutto con piena consapevolezza programmatica, era quello di realizzare un ciclo di opere di paesaggio puro attraverso una personalissima accezione della tecnica divisionista, ritenuta lo strumento più congeniale a esprimere la propria visione estetica, elaborata sulla scorta della speculazione filosofica di Felix Fénéon e di Jean-Marie Guyau”.
Il Poema Invernale di Vittore Grubicy de Dragon allestito secondo il suo progetto alla GAM di Milano |
Vittore Grubicy de Dragon, Sale la nebbia dalla valle (1895; olio su cartone, 39,5 x 61,5 cm; Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea) |
Giovanni Segantini, Ritratto di Vittore Grubicy de Dragon (1887; olio su tela, 152 x 92 cm; Lipsia, Museum der bildenden Künste) |
Il giornalista Félix Fénéon (Torino, 1861 - Châtenay-Malabry, 1944), fondamentale teorico del neoimpressionismo di Georges Seurat e Paul Signac (è a lui che spetta l’invenzione dei termini “neoimpressionismo” e “pointillisme”), fu uno dei principali punti di riferimento dell’estetica di Grubicy, che grazie al lavoro di Fénéon trovò punti di contatto con le esperienze francesi che partivano dal concetto di colore come dato ottico: la storica dell’arte Annie-Paule Quinsac ha riscontrato come gli articoli che Grubicy scrisse a cavallo tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta dell’Ottocento contengano puntuali riprese e citazioni (pur senza che Fénéon venga nominato) dagli articoli del critico francese, in particolare da tre pezzi pubblicati sulla rivista L’Art Moderne cui il pittore milanese era abbonato, ovvero Le Neo-Impressionnisme del 1° maggio 1886, L’impressionnisme aux Tuileries del 19 settembre 1886 e La Grande Jatte del 6 febbraio 1887. Le suggestioni estetiche dalle quali sarebbe nato il divisionismo venivano declinate secondo una particolare accezione di paesaggio-stato d’animo riletto secondo il pensiero di Jean-Marie Guyau (Laval, 1854 – Mentone, 1888), e in particolare secondo l’idea di arte come mezzo di conquiste sociali e come motore di solidarietà: “Uno dei requisiti dell’arte vera e duratura”, scriveva Grubicy in un articolo intitolato Paesaggio e pubblicato il 14 agosto 1892 su La Riforma, “è l’espansività, la sociabilità e con tale requisito raggiunge il suo scopo più elevato: avvicinare, affratellare gli uomini mediante la comunanza di uno stesso stimolo che ecciti in vari gradi le funzioni sensitive, producendo un’emozione estetica collettiva, sociale”. Il trait d’union che mette assieme queste istanze, ha scritto ancora Rebora, è il “concetto di suggestione, così come era stato definito da Paul Souriau: una sorta di sinestesia che associava tra loro immagini e sensazioni attraverso il tempo”. E la volontà di dar luogo a sinestesia era spesso sottolineata da Grubicy nei testi che accompagnavano le esposizioni dei suoi quadri, quando si riferiva ai dipinti chiamandoli “sinfonie”.
Per raggiungere questo scopo era necessario non soltanto dedicarsi quasi esclusivamente alla pittura (a partire dal 1892 Grubicy avrebbe infatti anche frenato in maniera molto vistosa la sua attività critica), ma anche ricorrere a un soggiorno in un luogo dove fosse possibile un’immersione totale nella natura, fuori dai ritmi movimentati della città, là dove la vita era ancora regolata dai tempi dettati dalla natura, lontano dalle fabbriche e dalle industrie, dalla vita borghese, dalla mondanità e dagli stessi ambienti dell’arte, dai condizionamenti della quotidianità cittadina, dalla frenesia urbana. Per sei anni, dal 1892 al 1898, il piccolo borgo di Miazzina, villaggio di pastori e contadini sulle alture del lago Maggiore, divenne dunque il suo ritiro, il luogo in cui poteva astrarsi completamente dal mondo, arrivando a quell’agognato isolamento che costituiva una condizione necessaria per mettere in atto il programma poetico che l’artista si prefiggeva. Nacquero qui diversi paesaggi, gran parte dei quali dipinti nella quiete della stagione invernale, oggi conservati in diversi musei: gli otto che compongono l’Inverno in montagna o Poema invernale sono tra i più intensi e raffinati, e sono tra i vertici della pittura di paesaggio di Grubicy, opere in cui l’immedesimazione dell’artista con la natura, in una sorta di panismo pacato e commosso, arriva al suo massimo compimento. Sono paesaggi dipinti con intensi accenti emozionali: l’artista studia a lungo gli effetti della luce che si posa tra gli alberi del bosco, sulla neve, sulle acque del lago Maggiore, per creare opere che ci restituiscono brani di vedute lacustri in certi momenti della giornata, quando le condizioni di luce raggiungono il loro massimo potenziale simbolico ed evocativo. Sono, citando ancora Rebora, “rivisitazioni emozionali” del dato naturale, eseguite partendo da uno studio dal vero (oppure con una prima stesura di colore direttamente in loco, anche semplicemente per dividere le luci dalle ombre), e poi terminate in studio: l’artista, peraltro, diede prova di intervenire sui suoi dipinti anche a distanza di diversi anni.
Rebora ha inoltre notato una consonanza con la poesia di Giovanni Pascoli (San Mauro di Romagna, 1855 – Bologna, 1912), e in particolare col Pascoli di Myricae. Ci sono, intanto, somiglianze di carattere biografico: come Grubicy aveva cercato un rifugio a Miazzina, così Pascoli aveva fatto a Castelvecchio. Le affinità sono poi da ritrovare nell’analogo modo di rapportarsi all’esistente: “Il valore simbolico individuato negli elementi della natura, il senso di aspettativa e mistero nascosto il senso di aspettativa e mistero nascosto nelle piccole cose della quotidianità, la giustapposizione di immagini uditive e visive, gli effetti di sinestesia sembrano ritrovarsi nei rispettivi mondi interiori dell’artista e del poeta”.
Vittore Grubicy de Dragon, Notte lunare o Chiaro di luna (1894; olio su tela, 64,5 x 55,5 cm; Milano, GAM, inv. 1717) |
Vittore Grubicy de Dragon, El crapp di Rogoritt o Pecore sullo scoglio (1895; olio su tela, 58 x 98 cm; Milano, GAM, inv. 1720) |
Vittore Grubicy de Dragon, Sinfonia crepuscolare o Armonia crepuscolare (1896; olio su tela, 66 x 55,5 cm; Milano, GAM, inv. 1716) |
Vittore Grubicy de Dragon, La sorgente o La buona sorgente (1896; olio su tela, 57 x 99 cm; Milano, GAM, inv. 1722) |
Vittore Grubicy de Dragon, Dalla finestra: sera d’inverno o La sera o Ritorno all’ovile o A sera (1896; olio su tela, 66 x 55,5 cm; Milano, GAM, inv. 1715) |
La scelta della stagione invernale a scapito di altre risponde probabilmente alle inclinazioni sentimentali dell’artista, ma anche a ragioni di carattere estetico: i paesaggi invernali delle Alpi sopra il Lago Maggiore, con la loro natura spoglia, con la gamma cromatica invernale ridotta al minimo, consentono all’artista di non perdersi in minuzie descrittive, in esplosioni entusiastiche o in distrazioni narrative, e al contrario gli permettono di concentrarsi sui suoi obiettivi estetici. “Posta la fronte sul freddo vetro della mia finestra”, scriveva l’artista a Miazzina il 3 febbraio del 1895 in una lettera, “andavo meditando con tristezza sulle innumerevoli miserie d’ogni sorta che brulicano senza posa laggiù sotto a quel mare di nebbia, quel funereo lenzuolo – ricoprente il piano mentre la montagna si librava serena nella notte lunare limpida e pura”. Ed è, quella descritta nella lettera, una visione simile a quella che troviamo raffigurata nel primo dipinto del ciclo, Notte (o Chiaro di luna: è questo il titolo che si trova sul telaio del dipinto, ed è proprio l’artista che spesso si riferisce alle sue opere con titoli leggermente diversi, ragion per cui nei cataloghi si trovano con più titolazioni): una veduta del lago colto dalle alture di Miazzina. La luce della luna che si riflette sul lago ci accompagna verso il borgo di Intra, che si staglia in controluce (vediamo anche il profilo della chiesa di San Vittore) sulle rive, e il nostro sguardo viene spinto sul lago anche dai profili degli alberi che l’artista inserisce al centro della composizione e che c’invitano quasi a guardare oltre i loro rami, tra le foglie, per scorgere il profilo della città tra i due fiumi, le cui acque sono anch’esse esaltate dalla luce lunare. Tutt’altra atmosfera è invece quella che troviamo ne El crapp di Rogoritt, che ci mostra alcune pecore al pascolo (l’opera fu infatti esposta all’epoca anche col titolo Pecore sullo scoglio) nella luce radente del crepuscolo, tra betulle e faggi, in un brano di paesaggio ripreso verso i monti della valle di Strona. L’opera, curiosamente, è dedicata ad Anna Kuliscioff, che fu tra i fondatori del Partito Socialista Italiano.
Ambientato nell’atmosfera del tramonto è anche Sinfonia crepuscolare, che ci affascina per il potente controluce che avvolge questo brano della valle del Toce, verso il monte Mottarone, che vediamo in parte sulla sinistra. La buona sorgente, tela di formato orizzontale, ci porta in un idilliaco e silenzioso bosco di faggi al centro del quale scorre l’acqua che, come da titolo, sgorga da una sorgente: la delicatezza con cui Grubicy restituisce al riguardante questo brano di paesaggio, con colori puri accostati con leggerezza quasi a suggerire, sinesteticamente, il lieve scroscio dell’acqua che scorre nel bosco, rende La buona sorgente uno dei dipinti più intensamente lirici di tutto il Poema invernale. Si prosegue con A sera, opera esposta con diversi titoli, che chiude la parte inferiore del “polittico”: la visuale è la stessa di Notte e di Sinfonia crepuscolare, anche se più spostata verso sud (qui si vedono in lontananza anche il lago di Varese, il borgo di Laveno e il lago di Comabbio). Cambia il momento della giornata: questa volta la valle del Toce è raffigurata nella tranquillità della sera che cala sulle montagne. In una delle occasioni in cui fu esposta, l’opera fu presentata col titolo Dalla finestra: sera d’inverno. Dato il punto di vista appare però improbabile che Grubicy abbia dipinto dalla finestra di casa sua: più plausibile che fosse all’aperto.
Passando alla parte superiore del Poema panteistico, arriva l’unico dipinto in cui protagonista è la neve, ovvero Tutto candore!, dove la luce invernale raggiunge una delle più alte vette di poesia dell’intero ciclo: esaltata dal Biancore della neve, la luce si posa sulle foglie rossastre degli alberi e tinge di tonalità rosacee le montagne e di arancione le acque del lago. Il successivo Mattino riluce anch’esso dei riflessi luminosi aurorali che si posano delicatamente sull’acqua tingendola di rosa. Inoltre, con la disposizione paratattica degli alberi che ostacolano la vista del lago, qui Grubicy dimostra probabilmente il suo punto di massima vicinanza alle stampe giapponesi che per lui costituirono un’importante fonte d’ispirazione: fin dall’epoca della sua apertura al pubblico nel 1876 la Galleria Grubicy aveva venduto oggetti di provenienza giapponese e orientale in generale, ragion per cui Vittore Grubicy aveva grande confidenza con l’arte nipponica. I rami degli alberi che si frappongono tra l’artista e l’oggetto della veduta sono desunti dall’arte giapponese, e lo stesso si potrebbe dire delle masse di colore quasi pure che caratterizzano questo dipinto. Il dipinto con cui Grubicy congeda l’osservatore, La vallata, ci porta in un sentiero di montagna che s’inoltra lungo i pendii della valle del Toce.
Vittore Grubicy de Dragon, Tutto candore! o Neve o In Albis (1897; olio su tela, 58 x 97,5 cm; Milano, GAM, inv. 1719) |
Vittore Grubicy de Dragon, Mattino o Mattino gioioso (1897; olio su tela, 75 x 56 cm; Milano, GAM, inv. 1718) |
Vittore Grubicy de Dragon, La vallata del Toce o La vallata (1895; olio su tela, 58 x 98,5 cm; Milano, GAM, inv. 1721) |
Vittore Grubicy de Dragon ebbe modo di esporre diverse volte i dipinti del ciclo, spesso separati, oppure riuniti in trittici: alla Biennale di Venezia del 1897, per esempio, portò un trittico, Inverno a Miazzina, di cui facevano parte La sorgente, Sera e Meriggio, a quella del 1899 presentò per la prima volta un trittico col titolo Inverno in montagna, e altre opere ancora avrebbe portato nel 1901, sempre combinandole anche con dipinti che oggi non fanno parte dell’allestimento definitivo del ciclo, quello che vediamo alla GAM di Milano. E le sue opere furono generalmente apprezzate. “Ci presenta il Grubicy un trittico”, scrisse il critico Mario Morasso nella sua recensione della Biennale di Venezia del 1899, pubblicata sulla Nuova antologia, “che supera di gran lunga i precedenti lavori suoi, nei quali si osservavau no sperpero ingente di fatica, una specie di raschiatura assidua senza scopo. Adesso invece la meta è quasi raggiunta, i tre paesaggi sono di una trasparenza e di una luminosità vivida e brillante; lo sforzo scompare nella completa fusione dei colori nitidi e freschi come fiori mattutini. Al centro alcuni grandi alberi si inalzano contro un cielo azzurro rosato delicatissimo che si schiara lontano. Tra una massa d’aria pura e cristallina nel pannello di sinistra alcuni ramoscelli di gialli fiori montani risaltano sul suolo nevoso con un nitore radioso mentre nel fondo si disegna l’azzurra rosata chiostra dei monti ; lo stesso motivo, senza l’effetto bianco della neve, si ripete a destra; e l ’ impressione complessiva ne è limpida ed efficacissima , poiché il sentimento del paesaggio trova una vivente rivelazione in quel rapido e cristallino comporsi e ricomporsi della luce nei suoi elementi”.
Era infine il 1911 quando, alla prima mostra dell’Associazione degli acquarellisti lombardi, Grubicy presentò il polittico nella sua redazione in otto tele. L’Inverno in montagna rappresenta anche l’ultima opera importante di Grubicy (oltre che il suo capolavoro più noto), anche perché sul finire degli anni Novanta il pittore fu colpito da alcuni seri disturbi del sistema nervoso che lo portarono a rinunciare del tutto a dipingere nuovi dipinti dal 1900: negli ultimi vent’anni della sua carriera, Grubicy si dedicò piuttosto a intervenire sulla sua produzione precedente e a esporla per farla conoscere. E oggi possiamo considerare il ciclo di Vittore Grubicy come uno dei risultati più importanti raggiunti dalla pittura italiana di fine Ottocento.
Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta
Gli articoli firmati Finestre sull'Arte sono scritti a quattro mani da Federico Giannini e Ilaria Baratta. Insieme abbiamo fondato Finestre sull'Arte nel 2009. Clicca qui per scoprire chi siamo