Se pensiamo all’arte preraffaellita, la nostra mente vola alle donne sensuali di Dante Gabriel Rossetti (Londra, 1828 – Birchington-on-Sea, 1882) e ai miti e alle leggende impresse sulla tela da Edward Burne-Jones (Birmingham, 1833 – Londra, 1898), ma in realtà si tratta di un movimento fortemente legato alle vicende storiche e culturali di quel tempo. Nella Gran Bretagna di metà Ottocento, quando il paese era dominato dalla forte personalità della regina Vittoria, sovrana considerata per il suo lungo regno e per le sue attitudini alla moralità e alla prosperità economica fautrice del periodo più stabile e più florido della storia d’Inghilterra, aveva visto la nascita il Preraffaellismo, movimento culturale che intendeva rivoluzionare il pensiero e la modalità di fare arte dell’epoca. La regina che tanto incitava alla moralità regnava su una società caratterizzata da grandi differenze tra classi alte e basse, ancora più rafforzate dalla rivoluzione industriale. Bambini e giovanissimi erano impiegati nelle fabbriche e nelle miniere in condizioni di sfruttamento (si pensi ai protagonisti dei romanzi di Charles Dickens), e la qualità e gli orari di lavoro degli operai nelle industrie erano a dir poco disumani: si riteneva che tutto ciò fosse necessario per condurre l’Inghilterra a una forte espansione economica. Dal punto di vista artistico, la pittura era confinata all’accademismo perpetuato dalla londinese Royal Academy of Arts e alla volontà di esprimere una morale.
Proprio all’interno di quest’istituzione avevano studiato tre giovani allievi che avevano deciso di cambiare la scena artistica fondando nel 1848 la confraternita dei Preraffaelliti. I tre protagonisti della “rivoluzione” erano William Holman Hunt (Londra, 1827 – 1910), John Everett Millais (Southampton, 1829 – Londra, 1896) e Dante Gabriel Rossetti. La stessa denominazione del movimento rimandava ai principi della loro arte: preraffaellismo infatti indica la volontà di tornare ai “primitivi”, ovvero agli artisti che precedono l’arte raffaellesca. Raffaello (o meglio: il Raffaello romano) simboleggiava per loro l’arte accademica, il massimo esponente del Rinascimento, periodo a cui i preraffaelliti facevano risalire le prime contaminazioni mercantilistiche, poiché in quell’epoca si era ampiamente sviluppato il fenomeno del mecenatismo. L’arte di Raffaello aveva dato origine alla pittura moderna perché aveva influenzato il gusto dei secoli successivi. In particolare, William Hunt aveva criticato la Trasfigurazione realizzata dall’artista urbinate come modello da non seguire a causa della postura altezzosa degli apostoli e dell’atteggiamento poco spirituale del Salvatore e soprattutto per la mancata raffigurazione del carattere semplice della verità. Condannando l’arte raffaellesca, i preraffaelliti intendevano assumere come modello l’arte medievale e quella del primo Rinascimento, libera e pura, e ritornare alla semplicità della natura. Gli esponenti del nuovo movimento sognavano un Medioevo che rimandasse alle remote ere preindustriali e un artigianato nuovamente libero e non falsificato dagli “stampi”; sognavano una pittura che escludesse le grandi masse in movimento immortalate sulle tele nell’ultimo Settecento e nel primo Ottocento.
Le tematiche preraffaellite più ricorrenti erano perciò citazioni letterarie o provenienti da miti: frequenti erano infatti i soggetti tratti da Dante, dalla Bibbia, dalle leggende medievali riprodotti sulla tela con un’atmosfera tra il mistico e il sensuale. Fervido sostenitore del Preraffaellismo era John Ruskin (Londra, 1819 – Brantwood, 1900), scrittore e critico che si opponeva pesantemente al materialismo e all’utilitarismo della civiltà industriale. È del 1851 il suo saggio dal titolo The Pre-Raphaelitism attraverso il quale diviene il propugnatore del movimento inglese e critica in modo esplicito la realtà socio-economica contemporanea, la società industriale colpevole della degradazione dell’uomo a macchina, del lavoro in condizioni disumane e del cambiamento in senso negativo del paesaggio dell’Inghilterra. Per lui, la critica contro le macchine delle fabbriche era una critica in nome dell’umanità e della moralità. Ruskin proponeva una concezione morale dell’arte, alla quale conferiva un ruolo sociale, sosteneva la necessità di una valorizzazione dell’artigianato in contrapposizione all’abbrutimento dell’industrializzazione, e propugnava una visione poetica e mistica della natura che doveva essere rappresentata in modo reale e veritiero.
Dal punto di vista tecnico, i dipinti dei preraffaelliti erano caratterizzati da colori vivaci e, come detto, da riferimenti religiosi e letterari, dalla semplicità della natura e da una certa libertà nella rappresentazione dei personaggi. Proprio grazie alla tradizione letteraria, il movimento aveva ottenuto consenso di pubblico e di critica, nonostante le novità apportate artisticamente. Tra i vari esponenti, a cui si erano aggiunti ai primi lo scultore e poeta Thomas Woolner (Hadleigh, 1825 – Londra, 1892), James Collinson (Mansfield, 1825 – Camberwell, 1881), il fratello di Dante Gabriel Rossetti, William Michael Rossetti (Londra, 1829 – 1919), e Frederick George Stephens (Londra, 1828 – 1907) , colui che ancora oggi è da considerarsi come il più celebre è senza dubbio Dante Gabriel Rossetti, autore di donne sensuali e portatrici di simboli. Ed è da quest’ultimo che un altro artista, divenuto rappresentante della seconda generazione del movimento, aveva appreso le linee dell’arte preraffaellita: Edward Burne-Jones.
Elliott & Fry, da Alfred James Philpott (Phillpot), Ritratto di Edward Burne-Jones (1885; negativo fotografico; Londra, National Portait Gallery) |
Dante Gabriel Rossetti, Autoritratto (1847; matita e gessetto bianco su carta, 207 x 168 mm; Londra, National Portait Gallery) |
Come Rossetti, Burne-Jones era attratto dalla letteratura, dalla poesia e dal Medioevo, e perciò da lui aveva appreso quelle che erano state le innovazioni della sua epoca. Inoltre i due avevano in comune l’amore per l’arte italiana, esplicitato da Dante Gabriel Rossetti a partire dal 1850 nei suoi Sonnets for Pictures, una serie di sonetti composti dallo stesso artista e dedicati a opere d’arte di importanti artisti come Mantegna (Isola di Carturo, 1431 – Mantova, 1506) o Giorgione (Castelfranco Veneto, 1478 circa – Venezia, 1510): i sonetti erano posti come definizioni, commenti o traduzioni delle immagini stesse, evidenziando il carattere multidisciplinare di Rossetti e il forte legame che è possibile instaurare tra pittura e poesia. Malgrado il rapporto di amicizia e di stima tra i due artisti, l’influenza diretta di Rossetti si era presto esaurita e aveva preso il suo posto John Ruskin, che dal 1856 si era occupato della formazione di Burne-Jones: il critico aveva a poco a poco abbandonato l’interesse per il Medioevo, poiché credeva che questo facesse venire meno il contatto con la natura e con la realtà, e lo aveva spinto a scoprire in maniera diretta l’arte italiana. Testimonianza del suo conseguente viaggio in Italia sono i taccuini dell’artista: nella penisola aveva potuto ammirare capolavori di Giotto (Vespignano, 1267 – Firenze, 1337), di Filippo Lippi (Firenze, 1406 – Spoleto, 1469), di Masaccio (San Giovanni Valdarno, 1401 – Roma, 1428), di Botticelli (Firenze, 1445 – 1510), di Tiziano (Pieve di Cadore, 1488/1490 – Venezia, 1576), di Giorgione e di tanti altri. Ruskin lo aveva indotto anche ad approfondire opere italiane conservate in Inghilterra: uno tra i tanti esempi da citare è quello del Ritratto di Margherita Paleologa realizzato da Giulio Romano (Roma, 1499 circa – Mantova, 1546) e custodito presso la Royal Collection Trust di Londra a cui Burne-Jones si era ispirato per l’abito di Sidonia von Bork. Tuttavia anche il collezionismo inglese era già partecipe di questo interesse per l’arte italiana: della collezione di John Eastlake faceva parte il Satiro chino su una ninfa di Piero di Cosimo (Firenze, 1461 circa – 1522), che il collezionista aveva acquistato a Firenze nel 1857 dalla collezione Lombardi Baldi; dal capolavoro di Piero di Cosimo l’artista inglese si era ispirato per il suo Pan e Psiche.
E ancora in Italia, Burne-Jones aveva conosciuto il Michelangelo (Caprese, 1475 – Roma, 1564) della Cappella Sistina, cogliendo nell’artista fiorentino il perenne tormento e l’energia che scaturisce dal suo segno; in particolare, il pittore inglese sarebbe stato influenzato dal nudo michelangiolesco. Anche la figura di Botticelli era stata per lui significativa: attratto dall’apparente paganità del pittore che evoca una lontana ed estinta mitologia, Burne-Jones era affascinato inoltre dalle linee morbide del pittore fiorentino e dalla grazia che invadeva i personaggi da lui rappresentati. Aveva sentito tuttavia vicino al suo linguaggio pittorico l’arte di Giorgione, caratterizzata da una simbologia che tuttora rimane in molti casi misteriosa, non del tutto decifrata; una pittura che esprimeva armonia ma che era ricca di simbologie e citazioni.
Edward Burne-Jones, Sidonia von Bork (1860; acquerello e gouache su carta, 333 x 171 mm; Londra, Tate Britain) |
Giulio Romano, Margherita Paleologa (1531; olio su pannello, 115 x 90 cm; Londra, Hampton Court) |
Edward Burne-Jones, Pan e Psiche (1872-1874; olio su tela, 65,1 x 53,3 cm; Cambridge - Massachussetts, Fogg Art Museum) |
Piero di Cosimo, Satiro che piange la morte di una ninfa (1495-1500 circa; olio su tavola, 65,4 x 184,2 cm; Londra, National Gallery) |
Oltre alle influenze artistiche, è necessario ricordare gli influssi letterari che hanno giocato un ruolo importante nella sua pittura. Grazie all’amicizia con William Morris (Walthamstow, 1834 – Hammersmith, 1896) aveva approfondito la conoscenza della cultura popolare inglese, tra cui le leggende del ciclo arturiano e le Border Ballads, le cosiddette ballate di frontiera tipiche dell’area anglo-scozzese; aveva inoltre progettato insieme a Morris d’illustrare The Earthly Paradise, il poema epico scritto da quest’ultimo tra il 1868 e il 1870 nel quale erano riuniti miti classici, leggende scandinave e medievali. I disegni che aveva cominciato a realizzare per questo progetto erano stati successivamente spunto per la composizione dei suoi grandi cicli, da Cupido e Psiche a Perseo, da Pigmalione alla Rosa selvatica.
In questa sede si è scelto di analizzare quest’ultimo ciclo, poiché tema insolito e poco affrontato nella storia dell’arte, nonostante la vicenda sia molto conosciuta in campo letterario. Gli altri cicli infatti sono dedicati a storie molto più frequenti in dipinti e sculture. Burne-Jones aveva iniziato a realizzare la prima serie della Rosa selvatica nel 1870, quindi, come già affermato, in concomitanza con l’incompiuto progetto d’illustrare il poema epico di Morris. Frutto di questa prima versione era stata la cosiddetta serie della Small Briar Rose, che comprende tre dipinti: The Briar Wood, The Council Chamber e The Rose Bower; la serie è esposta a Puerto Rico, presso il Museo de Arte de Ponce. È stata attestata invece tra il 1885 e il 1890 la serie successiva della leggenda della Rosa selvatica, ispirata al medesimo soggetto, ma composta da quattro dipinti: ai tre della serie precedente si era aggiunto The Garden Court. Questi decorano tuttora un intero salone della residenza di Lord Faringdon, Buscot Park, nell’Oxfordshire, oggi facente parte del National Trust. Una dimora settecentesca che aveva risentito dell’influsso dell’architettura italiana, poiché ispirata all’arte di Andrea Palladio (Padova, 1508 – Maser, 1580). Quando il pittore inglese aveva visitato la villa e ammirato i suoi dipinti collocati nel bel salone, aveva deciso di prolungare le cornici di ciascun dipinto e di aggiungere dieci pannelli per continuare il motivo floreale.
Le opere di Burne-Jones nel salone della residenza di Lord Faringdon, Buscot Park |
L’ispirazione per la raffigurazione del soggetto della leggenda della Rosa selvatica gli era nata dalla storia della Bella addormentata, racconto introdotto nei famosi Contes du Temps Passé di Charles Perrault, pubblicati nel 1697, e riscoperto nell’Ottocento grazie alla versione dei fratelli Grimm, Rosaspina, e al componimento di Alfred Tennyson dal titolo The Day-Dream, pubblicato nel 1842. Le vicende della Bella addormentata sono note a tutti, ma Burne-Jones aveva scelto di rappresentare nel suo ciclo un solo momento della storia, ovvero quando il coraggioso principe, dopo aver combattuto con la foresta di rovi, giunge in un primo momento davanti alla corte vittima dell’incantesimo, e successivamente dalla principessa che dovrà risvegliare con un bacio. Aveva deciso di non raffigurare il prosieguo della storia, ma di fermarsi alla principessa ancora addormentata, che non ha ancora quindi ricevuto il bacio del vero amore. Non c’è un racconto progressivo, bensì un mondo che resta assopito e impenetrabile.
La serie ha inizio con The Briar Wood: tra i rovi intricati della rosa selvatica che occupano l’intero dipinto sono raffigurati addormentati in un sonno profondo cinque soldati; anche parti delle loro armature, gli scudi e le spade sono rimasti intrappolati tra i rovi. A giungere sulla scena incantata è il principe, posto sulla sinistra della tela, che indossa l’armatura luccicante e tiene in mano la spada con la quale si è fatto strada tra l’intricata selva. Il quadro è accompagnato da un’iscrizione che riporta una poesia di William Morris composta proprio per quest’opera: “The fateful slumber floats and flows / About the tangle of the rose. / But Io the fated hand and heart / To rend the slumberous curse apart”. Nel groviglio della rosa impera infatti il sonno, ma la mano e il cuore del principe romperanno questa maledizione.
Nella scena successiva intitolata The Council Chamber regna ancora il sonno profondo: qui ad essere addormentati sono il re, seduto sul trono, e i membri del consiglio, sdraiati gli uni sugli altri o appoggiati sui gomiti o addirittura in piedi. Dietro le tende si intravedono dormire altri soldati. La poesia di Morris correlata al dipinto recita: “The threat of war the hope of peace / The Kingdoms peril and increase / Sleep on and bide the latter day / When fate shall take his chain away”. I regni correranno pericoli e accresceranno, dormiranno e attenderanno il giorno successivo quando il Fato avrà tolto la sua catena.
La terza tela, The Garden Court, raffigura l’esterno del castello dove sono abbandonate al sonno giovani fanciulle, tessitrici addormentate sui loro telai. Attorno si aggrovigliano archi di rose. Le giovani del regno non parlano e non tessono. Come scrive Morris: “The Maiden plaisance of the land / Knoweth no stir of voice or hand / No cup the spleeping waters fill / The restless shuttle lieth still”.
Il ciclo si conclude con The Rose Bower, la bella addormentata sdraiata sul suo letto con altre tre fanciulle, sue servitrici, anch’esse abbandonate in un sonno profondo. La tenda sullo sfondo è ormai sollevata dai rovi della rosa, che stanno per invadere il giaciglio. L’iscrizione di Morris recita: “Here lies the hoarded love the key / To All the treasure that shall be / Come fated heart the gift to take / And smite the sleeping world awake”. Qui giace l’amore, la chiave di tutti i tesori che mai ci saranno e il mondo addormentato sarà risvegliato. Ma la serie della Rosa selvatica di Burne-Jones non include il risveglio della principessa. Ogni forma vivente è ridotta al silenzio e all’immobilità, eccetto il principe sul margine esterno del primo dipinto della serie.
Edward Burne Jones, The Briar Wood, dalla serie The Briar Rose (1885-1890; olio su tela, 124,5 x 249,3 cm; Buscot, Buscot Park) |
Edward Burne Jones, The Council Chamber, dalla serie The Briar Rose (1885-1890; olio su tela, 124,5 x 249,3 cm; Buscot, Buscot Park) |
Edward Burne Jones, The Garden Court, dalla serie The Briar Rose (1885-1890; olio su tela, 124,5 x 249,3 cm; Buscot, Buscot Park) |
Edward Burne Jones, The Bower Rose, dalla serie The Briar Rose (1885-1890; olio su tela, 124,5 x 249,3 cm; Buscot, Buscot Park) |
Tutte le tele che compongono il ciclo della leggenda sono caratterizzate da forte cromatismo e da un’attenzione particolare alla luminosità e ai riflessi: lo si nota nelle armature dei cavalieri, negli abiti dei membri del consiglio e nelle loro mani che si riflettono sul pavimento, nelle fanciulle del giardino del castello e nelle loro mani e piedi sulla superficie. Si nota inoltre cura nei panneggi e morbidezza nelle linee. Tuttavia si percepisce anche l’influenza giorgionesca (si pensi, per esempio, alla sua Venere), in quanto pittura spesso ermetica, intima. Il sonno profondo dei personaggi raffigurati nel ciclo potrebbe significare l’esistenza di una realtà senza cambiamenti positivi o come una sorta di barriera di fronte ai profondi mutamenti causati dall’industrializzazione avvenuti nell’epoca dell’artista.
Dopo la serie conservata a Buscot Park, Burne-Jones ne aveva realizzato un’altra con lo stesso soggetto: composta da tre dipinti, questi ultimi sono dislocati in collezioni diverse tra loro; The Garden Court è visibile al Bristol City Museum & Art Gallery, The Council Chamber al Delaware Art Museum e infine The Rose Bower a Dublino, presso la Hugh Lane Gallery of Modern Art. La storia della Bella Addormentata è oggi divenuta una delle più famose tra i film d’animazione Disney, uscito negli Stati Uniti nel 1959, ma le tele di Edward Burne-Jones ne rappresentano uno dei capolavori della storia dell’arte inglese dell’Ottocento. Dipinti che emanano un’atmosfera magica , di fronte ai quali per una sorta di immedesimazione viene naturale rimanere in silenzio, forse per lasciare pienamente l’azione al principe. Tuttavia per assistere al risveglio della bella principessa si dovrà necessariamente ricorrere al fortunato cartone disneyano.
Bibliografia di riferimento
Giorgione e Tiziano, Venere dormiente (1507-1510 circa; olio su tela, 108,5 x 175 cm; Dresda, Gemäldegalerie) |
Un fotogramma de La bella addormentata nel bosco della Disney |
L'autrice di questo articolo: Ilaria Baratta
Giornalista, è co-fondatrice di Finestre sull'Arte con Federico Giannini. È nata a Carrara nel 1987 e si è laureata a Pisa. È responsabile della redazione di Finestre sull'Arte.