Anticipiamo il saggio di Maurizio Cecchetti che figura nel catalogo della mostra ideata da Vittorio Sgarbi Arte e fascismo in corso al Mart di Rovereto, a cura di Beatrice Avanzi e Daniela Ferrari, fino al 1° settembre. Il volume è pubblicato da L’Erma di Bretschneider, che ringraziamo per la gentile concessione.
Quel che si può dire immediatamente di Edoardo Persico, a quasi novant’anni dalla morte, è che la sua impostazione del problema storico-critico nell’arte e nell’architettura non ha trovato eredi o interpreti che ne abbiano applicato il metodo. Nemmeno in chi ne ha colto la novità e ne ha messo in risalto la forza persuasiva. Nessuno, in sostanza, ha continuato sulla via tracciata da Persico per un approccio metalinguistico all’opera d’arte. Forse ha fatto ostacolo il suo convinto spirito religioso? Oppure l’essere un outsider che partendo dalla letteratura e dalla filosofia ha suscitato in molti architetti di professione una reazione di rifiuto del suo rigore e della sua polemica stessa verso il razionalismo? Tuttavia, non si può negare che sia stato il più brillante critico militante in Europa tra le due guerre per l’architettura moderna. La sua opera è stata d’indirizzo attraverso una miriade di saggi dove segna il passo ai razionalisti italiani e comprende prima di tutti gli sviluppi della nuova architettura: esaltò precocemente il genio di Wright e di Mies van der Rohe, pose la questione morale dell’architettura nell’Europa dei regimi dittatoriali, scrisse testi capitali come Punto ed a capo per l’architettura e Profezia dell’architettura che negli anni difficili del fascismo delinearono un orizzonte sovrastorico, il compito dell’architetto al di là della sua stessa arte. Come scrisse Bruno Zevi, quando parlava di architettura, Persico pensava ad altro, vedeva oltre.
Se si considera oggi la condizione storica in cui Persico e l’ambiente artistico si trovarono sotto il fascismo, non si può dimenticare che il Ventennio fu anche quello dove la filosofia della crisi espresse le sue più alte meditazioni sul futuro dell’uomo europeo dopo l’immane distruzione della Grande Guerra e mentre un altro conflitto si preparava a esplodere. Quasi mezzo secolo fa lo storico della filosofia Giuseppe Goisis aveva inserito il critico napoletano fra “i non conformisti italiani degli anni Trenta”1, lettori di Jacques Maritain. Il contesto era quello delineato da Croce nella Storia d’Europa, dove appunto il filosofo napoletano «intona il canto del cigno del liberalismo». Non fu il solo a seguire questa deriva: vi parteciparono, tra gli anni Venti e Trenta, Huizinga con Crisi della civiltà, Husserl con La crisi delle scienze europee, Ortega con La ribellione delle masse, e una sequela di “nipotini di Spengler” tra cui Berl, Drieu La Rochelle, Guénon, Scheler, Eliot, Chesterton, Malaparte, Toynbee, Mounier, Berdjaev, Heidegger, e altri se ne potrebbero richiamare, che «riecheggiano il terribile ictus della crisi». Nel quale rientra anche la categoria del “modernismo reazionario”, a suo modo. Goisis – dopo aver ricordato lo studio più specifico sul dibattito di quegli anni, il saggio di J.L. Loubert Del Bayle sull’ampia platea dei Non conformisti degli anni Trenta2 –, giustamente sottolinea che «per tutti questi scrittori la grande crisi è il punto di rendiconto di un’intera civiltà, di un’intera cultura». I “non conformisti” combattevano tanto il liberalismo e il capitalismo, quanto il comunismo; i fascismi e la stessa democrazia intesa come veniva accreditata oltre oceano; pressoché tutte le forme dei regimi moderni erano rifiutate perché negatrici, quali espressioni dei grandi sistemi, della libertà umana e del cittadino. Persico era certamente di questi3, e Goisis osserva che per tutti si trattava di “rivoluzione necessaria”, in senso etico, quello testimoniato da Charles Péguy per il quale «la rivoluzione o sarà morale o non sarà». Sgombrando il campo dagli equivoci, lo studioso italiano metteva in chiaro che per parlare dell’influsso di Maritain sull’antifascismo «bisogna guardarsi soprattutto da una visione mistica dell’antifascismo. Un antifascismo nato per partenogenesi, assolutamente opposto (perché già costituito e compatto) al fascismo, inteso a sua volta al modo demoniaco di un male radicale e, di più, privo al suo interno di sfumature e di contraddizioni». Anche Persico cita Péguy e Maritain ripetutamente. E se i giovani degli anni Trenta hanno sete di trascendenza, sono “spiriti religiosi”, questo si evince anche da certe “confessioni” di Persico che per sé parla di “ostinato cattolicesimo”. Ma la medaglia ha un rovescio: la nuova ansia di religioso favorisce, per esempio, anche la Scuola di mistica fascista appoggiata da Arnaldo Mussolini.
La grande questione storica è quella che fa di fascismo e antifascismo una coppia dialettica, così come accadde con l’appartenenza cattolica e laica (tantopiù dopo il Concordato). Persico, in questi anni, si professa ripetutamente uomo di fede e in modo spesso tormentato (come quando nel 1934 confessa a se stesso: «Io sento la fine del Cattolicesimo, il Cattolicesimo è finito! Eppure bisogna che viva perché Dio esiste»). Il fascismo non è questione che nasce dall’ideologia, sorge prima ancora che sul fango della Grande Guerra impastato col sangue di tanti giovani caduti al fronte, dunque per una questione generazionale, sulla coscienza immatura di un popolo che Gobetti legge come “autobiografia della nazione”. Questa “inadeguatezza” che si radica come “servitù volontaria” riporta in primo piano la questione ottocentesca, vale a dire l’occasione perduta dei moti risorgimentali; l’“infanzia decisiva”, dove – scrisse a sua volta Raffaello Giolli in un libro impietoso, ma onesto, uscito postumo nel 1961 presso Einaudi, La disfatta dell’Ottocento4 – il vecchio mondo dopo le rivoluzioni del 1848 «era uscito dall’Ottocento stupendamente organizzato, per poter resistere, nella sua stoltezza, ancora a più d’uno scrollo. Fra tante disfatte restava in piedi ostinato proprio solo questo mondo di stracci, con la resistenza passiva dei fantocci da fiera (…) Eran caduti, qui, sei o sette troni; ma il cerimoniale s’era salvato», «ora nel regno d’Italia, gl’italiani son ancora quelli di prima: ne sono però stati esclusi gli sregolati e gli estrosi». E Giolli così concludeva: dopo aver fatto l’Italia, «non gl’italiani eran da fare, ma gli uomini».5
Era un filo conduttore anche nella polemica di Persico attorno alle arti in Italia in rapporto all’Europa, che prendeva di mira gli architetti accusandoli di mancanza di stile, una querelle rivolta, a un certo punto, contro i razionalisti del Gruppo 7 e la rivista “Quadrante” con eccessi d’intransigenza che si allargarono su Terragni e su Luciano Baldessari, dopo che questi aveva posto davanti al suo Padiglione della Stampa cinque cilindri-colonne, che evocano i nuovi propilei industriali, come ciminiere, dall’aspetto astratto-razionale (semmai avesse fatto in tempo a vedere il progetto del comasco per il Danteum che cosa mai avrebbe potuto dire Persico di quella selva di colonne che occupano buona parte dello spazio?). Claudio Pavone – lo storico di sinistra che nel 1991 venne accusato di revisionismo per aver pubblicato Una Guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella resistenza –, fu anche lo studioso che trent’anni prima tenne a battesimo l’opera di Giolli. Nell’introduzione Pavone collocava Giolli proprio accanto a Persico: «Nel gruppo milanese che costituì uno dei più vivi centri anticonformisti di quegli anni, impegnato nella lotta contro la rettorica della romanità, egli rappresentò, con Edoardo Persico, il polo della non concessa adesione al fascismo, di contro all’altro, formato da Giuseppe Pagano e Giuseppe Terragni, della fiducia, in un primo, ed anche lungo, momento, accordata agli elementi innovatori di cui il regime si proclamava paladino»; e Pavone concludeva citando un pensiero enfatico di Zevi su Persico: «Venne all’architettura nella ricerca disperata di una civiltà».6
Nonostante la documentazione di cui disponiamo, fin dalle prime ricostruzioni della vita e del pensiero di Edoardo Persico tentate dopo la morte avvenuta nella notte tra il 10 e l’11 gennaio 1936 nessuno ancora oggi ha saputo spiegare non soltanto le zone d’ombra che tuttora accompagnano la sua biografia, ma anche il tessuto, o la trama del suo pensiero, spesso considerato troppo frammentario o, per così dire, poco sistematico. Lo storico Manfredo Tafuri fu uno dei rari interpreti che colsero invece il nocciolo di una metodologia “in fieri” definendo quella di Persico una “critica operativa”: «Poiché le circostanze dell’azione mutano di continuo, Persico non si cura di salvaguardare la coerenza dei suoi giudizi nel tempo».7
Sulla biografia di Persico e sui segreti di cui è piena, molto di ciò che si può dire probabilmente viene anche limitato dalla sottrazione quarant’anni fa di una parte dei documenti che erano compresi nei faldoni dell’archivio di Giuseppe Pagano un tempo depositati alla Fondazione Feltrinelli di Milano. Ci fu qualche decennio addietro anche un appello promosso da Giovanna e Lorenza Pogatschnig, figlie di Pagano, e sottoscritto da decine di intellettuali, per chiederne la restituzione a beneficio di chiunque volesse studiarli. Il colpevole fu individuato nello storico dell’architettura Riccardo Mariani, che si era fatto dare dalla Fondazione Feltrinelli i faldoni riguardanti Pagano e Persico per realizzare le ricerche da cui sarebbe scaturita l’antologia di Persico edita nel 1977; tuttavia, nel 1978 in una intervista con Maurizio di Puolo disse che tutto il dossier si trovava ancora alla Feltrinelli.8 Mistero. Dopo che Andrea Camilleri pubblicò Dentro il labirinto (2012) la sua ricostruzione del “caso Persico”, in molte parti fantasiosa e impostata sullo schema letterario “poliziesco”, alla mia recensione molto ampia dove ricordavo la sparizione dei documenti (Mariani nel frattempo era morto a Ginevra, dove da anni viveva e aveva insegnato) seguì un messaggio sibillino di una persona che non conoscevo, l’architetto Paolo Baldeschi, il quale mi disse di stare tranquillo perché i faldoni erano depositati presso il Gabinetto Vieusseux di Firenze. Nel caso fosse vero, sarebbe stato un notevole passo avanti, ma le mie verifiche non portarono a niente, anzi le affermazioni di Baldeschi vennero smentite dalla risposta che ricevetti dalla direttrice dell’Istituto, Gloria Manghetti.9 Punto e a capo?
I momenti di maggior concentrazione degli studi dedicati a Persico risalgono al Dopoguerra e si allungano fino al 1964, quando Giulia Veronesi curò i due volumi che riuniscono Tutte le opere (1923-1935), usciti per le Edizioni di Comunità10; la stessa Veronesi quattro anni dopo curò anche un volume di Persico con gli Scritti di architettura (Firenze 1968); poi fu la volta di Mariani nel 1977 a fare uscire per Feltrinelli dell’antologia Oltre l’architettura. Scritti scelti e lettere11, volume che generò parecchie polemiche perché il curatore poneva in forse alcune verità ufficiali su Persico, in particolare quella del suo antifascismo. Mariani espresse più esplicitamente il suo pensiero l’anno dopo nell’intervista con Di Puolo già ricordata, dove, tra l’altro, ribadiva la sua convinzione che si dovesse interpretare Persico alla luce del suo spirito religioso, “oltre l’architettura” appunto, e con una boutade giornalistica si spinse fino a rendere parte il critico napoletano di un triangolo eccellente: «Il liberale Gobetti, il comunista Gramsci e il cattolico Persico».
I maggiori dissensi vennero quando Mariani confermò la sua ipotesi che la morte di Persico fosse maturata nel giro dell’antifascismo che gravitava attorno a “Casabella”, dove Persico ormai svolgeva un’opera di leader ma al tempo stesso doveva combattere con una opposizione tanto esterna, tra gli architetti che non apprezzavano il suo rigore quando poi accettava di eseguire opere nate per volontà del regime; quanto interna, da parte di chi, lo stesso Pagano, doveva poi aggiustare i cocci rispetto alle critiche di Persico contro i rappresentanti dell’architettura di regime (alla moglie Sira, il 14 novembre 1933, a riprova di un clima pesante in atto verso di lui, il critico confessò: «Sappi però che il mio posto a “Casabella” è molto minacciato: non resterò a lungo perché la rivista non va...»).
Mentre la parabola di Persico giunge al suo termine, curando il supplemento a “Domus” Arte Romana nel dicembre del 1935, vale a dire poche settimane prima della morte, Persico è molto inquieto e confessa a Giulia Veronesi il dubbio di aver sbagliato tiro, anzi teme per la sua immagine e la propria figura morale: «Questo lavoro resterà come una macchia nella mia vita. Non avrei dovuto occuparmene».12 In realtà, si tratta di un capolavoro editoriale e un esempio elegantissimo di controcultura critica e visiva; eppure, Persico si macerava. Perché? Il tema – scrisse la Veronesi – «era stato scelto nello spirito “romano” dei tempi, dalla casa editrice, la Domus» e Persico «ne fece una sottile opera di opposizione alle retoriche correnti». Lo confermarono, già nel 1936, le parole della storica dell’arte Anna Maria Brizio: «Un’altra battaglia combattuta in favore della necessità di riportare a criteri unitari il giudizio sull’arte, contro l’insufficienza dei correnti metodi archeologici. È anche un’affermazione di modernità (...) affilare le armi per difendere forme particolarmente care alla nostra sensibilità».13 La verità è che quel volume veniva dopo le straordinarie architetture “effimere” della Sala delle Medaglie d’oro alla Mostra dell’Aeronautica italiana (1934) e la costruzione metallica pubblicitaria per il Plebiscito nella Galleria Vittorio Emanuele a Milano (1934), dove Persico, lavorando con Nizzoli, aveva raggiunto vertici di modernità e poesia assoluti, però “celebrando” appunto le istituzioni del Regime, e questo aveva destato malumori in alcuni antifascisti. Persico, forse, veniva considerato un doppiogiochista da questi oppositori. Tutto, nelle sue parole, sembra però testimoniare il contrario. Dopo queste opere, sarebbe bastato anche solo il Salone d’Onore alla VI Triennale del 1936, l’edizione dell’apoteosi razionalista, a smentire i sospetti che potevano essere sorti (ma egli morì prima di vederlo realizzato). Gino Severini, commemorando la scomparsa di Persico, lo aveva messo dalla parte di quelli che scelgono posizioni scomode, «esposte a tutti i venti, a tutti gli assalti delle correnti opposte».14 Difficile negare che lo stesso atteggiamento di Persico potesse destare qualche dubbio, in una condotta ambigua che si trascinava peraltro fin da giovane a Napoli: Persico uomo dei misteri? La sua stessa morte, come per ironia della sorte, venne definita nel verbale di polizia, “misteriosa”.
È lecito dunque pensare che un volume come quello sulla scultura romana potesse aver fatto traboccare il vaso della pazienza in chi non tollerava quel modo sofisticato di fare critica, vedendovi anzi un vero e proprio tradimento dell’antifascismo. Basti ricordare, in tal senso, la posizione intransigente di Attilio Rossi, che si rifiutò di pubblicare sulla rivista “Campo Grafico” i manifesti per il Plebiscito studiati da Persico e Nizzoli e nel 1983, nel libro che celebrò l’anniversario della rivista (1933-1939), ne diede così ragione: «Ci si opponeva al fatto che una grafica moderna, efficacissimo mezzo di comunicazione, servisse a diffondere le menzogne».15 All’epoca era certamente una scelta coerente, ma la Veronesi scrivendo il saggio Difficoltà politiche dell’architettura in Italia (1920-1940) spezzò una lancia per Persico osservando che egli «credeva come pochi all’influenza che il gusto ambiente esercita sui costumi; credeva alla forza persuasiva, oltre che simbolica, della “forma” implicante un contenuto morale».16 Era su questo che Persico aveva fondato la sua maieutica: lo stile era l’uomo stesso, non una ideologia formale.
Le novità che emergono dopo oltre mezzo secolo di studi sul “caso Persico” sono tuttavia minimali rispetto a quanto si sapeva – o si poteva sapere subito dopo la sua scomparsa: Mariani, con un approccio un po’ disinvolto, nel 1978 affermò nell’intervista con Di Puolo che dominava un clima di omertà, facendo intendere che l’essersi interessato alla morte di Persico gli aveva anche procurato qualche difficoltà come studioso; e parlando di “giallo” lo paragonò a un nuovo “Caso Majorana”. Chiediamoci, tuttavia, perché mai Persico dovrebbe dare così fastidio ancora oggi? Secondo Mariani, a far calare la cortina di silenzio fra quelli che lo conobbero, al di là dei messaggi di cordoglio, furono le circostanze non chiarite della morte del critico: forse ci furono responsabilità che tuttora, a quasi un secolo da quella storia, possono gettare ombre sul buon nome di qualcuno? Che Persico avesse un giudizio negativo sulle debolezze dell’antifascismo, non è un segreto. Per Mariani la questione riguardava «l’ordine che lui contrapponeva al disordine, e il disordine anche degli antifascisti che facevano l’antifascismo senza richiamarsi a un ordine specifico. Gramsci si richiamava ad un ordine che presuppone, che inventa, che escogita. Gli altri non si richiamavano a niente, erano anti qualcosa, ma non avevano avuto il tempo né la capacità intellettuale di creare un sistema alternativo al fascismo». Era la stessa accusa che Persico da critico d’architettura muoveva più frequentemente ai “razionalisti” italiani, il non essere capaci, gobettianamente, di “credere a ideologie precise”, vale a dire «il problema spinoso della vita italiana». Un tema di cui parlava anche Giolli, che con Persico ebbe rapporti dialettici serratissimi ma anche molto vicini nel contesto polemico. Nell’immediato dopoguerra è stato uno dei temi più ricorrenti con i repentini cambi di barricata di quelli un tempo fascisti, e per questo chiamati “voltagabbana”; per tante ragioni, continua a essere un passato che non passa neppure oggi.
1. Aa.Vv., Jacques Maritain e la società contemporanea, a cura di R. Papini, Milano 1978 (= Atti del convegno organizzato dall’Istituto Internazionale J. Maritaim e dalla Fondazione Giorgio Cini, Venezia 18-20 ottobre 1976, G. Goisis, Maritain e i “non conformisti” italiani degli anni trenta, pp. 181-203)
2. J.L. Loubert Del Bayle, I non conformisti degli anni trenta, Roma 1972.
3. Sebbene vada notata la sua condizione di dandy napoletano, ovvero – come scrisse Francesco Tentori in quello che è da considerarsi uno dei saggi recenti più disincantati e al tempo stesso capaci di valorizzare il genio del critico, Edoardo Persico. Grafico e architetto (Clean, Napoli 2006), dove ne nota gli «snobismi di alto borghese aristocratico», p. 7, non ci si deve nascondere che oltre agli enormi meriti, Persico fu anche «un formidabile, incredibile, fantasioso racconta-balle in servizio permanente effettivo (coadiuvato con molta efficacia , dopo la morte, anche dalla moglie Cesira/Sira Oreste)», p.17. L’argomento più discusso resta quello dei fantomatici viaggi in varie capitali, fino a Mosca, di cui si hanno ancora oggi scarsi e improbabili riscontri.
4. R. Giolli, La disfatta dell’Ottocento, Torino 1961 (a cura di R. Giolli); introduzione C. Pavone.
5. Ivi, pp. 322-323; 326.
6. C. Pavone, in R. Giolli, op. cit, introduzione, p. XIV.
7. M. Tafuri, Teorie e storia dell’architettura, Bari-Roma 1968, n. 26, p. 184.
8. Edoardo Persico 1900-1936: autografi, scritti e disegni dal 1926 al 1936, catalogo della mostra (Roma, Galleria A.A.M., Architettura Arte Moderna, gennaio 1978, a cura di M. di Puolo, Arti grafiche Privitera, p. 79.
9. A. Camilleri, Dentro il labirinto, Skira, Milano 2012. Alle mie richieste di chiarimento la signora Gloria Manghetti mi scrisse: «Gentile Dottore, Riccardo Mariani prese contatto con l’Istituto diversi anni fa per capire se vi fossero le condizioni per un lascito a titolo oneroso dell’intero suo archivio. Non fu però trovato l’accordo necessario con l’allora vertice dell’Istituto e quindi le carte Mariani, che comprendevano anche i faldoni Persico, non sono pervenuti». La stessa direttrice mi ricordò, di seguito, che «nel 1980 furono organizzati dal GV un incontro e una mostra [Palazzo Strozzi, 22 marzo-12 aprile] intitolata Persico-Pagano: utopia e pratica dell’architettura negli anni Trenta». Il depliant che accompagnava la rassegna, 8 pagine stampate da Arti Grafiche C. Mori, a cura di R. Mariani, aveva un indice così composto: “Persico: oltre l’architettura; Dal diario di Giuseppe Pagano; Appunti per un programma edilizio nel dopoguerra”.
10. E. Persico, Tutte le opere (1923-1935), a cura di G. Veronesi, 2 voll., Edizioni di Comunità, Milano 1964.
11. E. Persico, Oltre l’architettura. Scritti scelti e lettere, a cura di R. Mariani, Feltrinelli, Milano 1977.
12. G. Veronesi, Difficoltà politiche dell’architettura in Italia (1920-1940), Politecnica Tamburini, Milano 1953, p. 108.
13. Aa.Vv., Edoardo Persico. Testimonianze e memorie, ed. Achille Lucini, Milano 1936.
14.G. Severini, Umanismo di Persico, in “L’Orto”, Anno V, n. 6, Bologna, novembre-dicembre 1935 – XIV. La rivista uscì probabilmente a gennaio del 1936, in tempo per dare la notizia della morte di Persico; rispetto alla data di edizione, infatti, sarebbe un’incongruenza.
15. Cfr. A cura di P. Rossi, Attilio Rossi, Edoardo Persico. Un piccolo mistero editoriale del 1936, s.n., s.l. 1999. D’altra parte, il tipografo Guido Modiano, che affiancò Persico nella realizzazione della nuova grafica di “Casabella” e per altre iniziative editoriali, ebbe a scrivere a proposito del volume Arte Romana che per «noi del mestiere [era il] testamento estetico del maggior ingegno che abbia operato, da anni, nella tipografia» (F. Tentori, op.cit., p.74).
16. G. Veronesi, Difficoltà politiche dell’architettura in Italia, cit., p. 112.
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ISCRIVITI ALLA NEWSLETTERL'autore di questo articolo: Maurizio Cecchetti
Maurizio Cecchetti è nato a Cesena il 13 ottobre 1960. Critico d'arte, scrittore ed editore. Per molti anni è stato critico d'arte del quotidiano "Avvenire". Ora collabora con "Tuttolibri" della "Stampa". Tra i suoi libri si ricordano: Edgar Degas. La vita e l'opera (1998), Le valigie di Ingres (2003), I cerchi delle betulle (2007). Tra i suoi libri recenti: Pedinamenti. Esercizi di critica d'arte (2018), Fuori servizio. Note per la manutenzione di Marcel Duchamp (2019) e Gli anni di Fancello. Una meteora nell'arte italiana tra le due guerre (2023).