Non è facile vivere da sopravvissuti ai campi di concentramento: quando gli occhi e la mente si riempiono di tragicità, di brutalità e morte, certe immagini ti accompagneranno per tutta la vita, vive nella memoria anche a distanza di molto tempo. Certo, chi è riuscito a sopravvivere a uno dei momenti più terribili della storia, con la persecuzione razziale, la deportazione, i campi di concentramento, le paure e le sofferenze e tutto quanto sia legato alla Shoah, probabilmente una sensazione di sollievo e di fugace gioia l’ha provata anche solo per un attimo, ma poi la mente fa scorrere nuovamente davanti agli occhi tutto quello che si è vissuto, visto e sentito, come un segno indelebile, e allora anche quel minimo di gioia svanisce. Per sempre.
Così racconta il momento della liberazione Edith Birkin (Praga, 1927 – Hereford, 2018), ebrea sopravvissuta al campo di concentramento di Auschwitz, liberata a Bergen Belsen e divenuta successivamente artista: “Intorno a te c’era sporcizia, pidocchi, odore e morte, e hai solo aspettato la fine della guerra, questo è quello che stavamo facendo. Un giorno stavamo in piedi, in piedi, e non arrivava nessun tedesco, e poi abbiamo scoperto che tutti i tedeschi se n’erano andati. Un paio di giorni dopo sono arrivati gli inglesi, i carri armati percorrevano una specie di strada principale, ma ero così debole che non potevo nemmeno andare a salutarli; la maggior parte di noi non poteva andare a salutarli, perché eravamo tanto deboli e stanchi. Ero così contenta che potevo semplicemente sdraiarmi e dormire. Abbiamo sempre immaginato che quando saremmo stati liberati avremmo ballato e li avremmo baciati - non credo che volessero essere baciati da noi ad essere onesti! Non pensavamo di essere così orribili, ma a loro sembravamo assolutamente orribili, ovviamente. E noi li abbracceremo e… saremo felici e balleremo, e Dio sa cosa, ma tutto quello che volevamo fare era sdraiarci e poterci ammalare”.
Nata a Praga nel 1927, Edith Birkin fu deportata nel ghetto di Łódź, in Polonia, nel 1941 insieme alla sua famiglia, ma i suoi genitori morirono dopo breve tempo. Il ghetto di Łódź, nella Polonia occupata dalla Germania, era il secondo più grande dopo quello di Varsavia, destinato a ebrei e zingari. Tre anni dopo, nel 1944, fu deportata nel campo di concentramento di Auschwitz, dove lavorò in una fabbrica di munizioni. “Auschwitz era molto spaventoso, perché c’era pieno di tedeschi”, ricorda. “Disciplina, una disciplina molto rigida. Questo sentimento di morte, tutte quelle persone che andavano nelle camere a gas. Era un posto molto strano, misterioso. Ogni giorno c’era questa atmosfera di morte. Si sentiva l’odore di persone bruciate: si sentiva sempre quell’odore.. era come colla bollita. Le ossa sapevano di colla”. Nel gennaio 1945 sopravvisse a una marcia della morte in mezzo alla neve verso il campo di Flossenberg, in Germania, e nel marzo dello stesso anno venne trasportata su un carro da bestiame a Bergen Belsen, dove poi fu liberata.
Fece ritorno a Praga, ma nessuno della sua famiglia e dei suoi amici era ancora vivo; le era rimasta solo una sorella più grande che viveva in Inghilterra.
“Girovagavo per Praga e mi sentivo disperatamente sola, perché all’improvviso ho capito che non c’era nessuno”, racconta Birkin. “C’era un ufficio a Praga con liste e liste di persone che tornavano. Sono andata a vedere questi elenchi ogni giorno, sperando che qualcuno tornasse, ma nessuno della famiglia è tornato. Ricordo di aver camminato devastata per Praga, e mi sono resa conto che ero sola al mondo, che non conoscevo nessuno. Penso sia stato davvero il periodo peggiore della guerra. Sebbene fossimo stati liberati, è stato il momento peggiore perché ci siamo resi conto e ho capito che nessuno sarebbe tornato, e che la vita non sarebbe mai stata più la stessa, e quello che speravo sarebbe successo dopo la guerra non sarebbe mai accaduto. La speranza era svanita. Perché fino ad allora si aveva la speranza dell’esistenza di un piccolo gruppo di persone che si conoscevano, un parente, degli amici, e si sarebbe ricominciata la vita in una comunità; sposarsi, avere figli e... sai, andare avanti. Ma non c’era assolutamente nessuno che conoscessi”.
Negli anni Settanta cominciò a studiare pittura e trovò lavoro come insegnante. Iniziò a realizzare una lunga serie di opere d’arte nel 1983 circa, incentrata su memorie dell’Olocausto. I suoi dipinti raffiguravano infatti le scene più tristi e terribili che lei stessa aveva vissuto: la marcia della morte, le persone come lei chiuse dentro a un campo di concentramento, gli addii.
Edith Birkin, Carretto della morte - Ghetto di Łódź (1980-1982; 71,2 x 91,4 cm; Londra, Imperial War Museum) |
Edith Birkin, Un campo di gemelli - Auschwitz (1980-1982; 71,2 x 91,4 cm; Londra, Imperial War Museum) |
Edith Birkin, L’Ultimo respiro - Camera a gas (1980-1982; 50,8 x 60,9 cm; Londra, Imperial War Museum) |
Edith Birkin, Giorno della liberazione (1980-1982; 53,3 x 45,7 cm; Londra, Imperial War Museum) |
Oltre a mettere su tela le sue memorie e la sua esperienza dell’Olocausto, pubblicò anche un libro di poesie illustrato, intitolato L’ultimo saluto, e un romanzo dal titolo Lacrime non versate.
Considerava la sua arte come “espressione di un senso di solitudine e di isolamento che molti hanno vissuto”. Nel suo Carretto della morte - Ghetto di Łódź , appartenente alle collezioni dell’Imperial War Museum di Londra, l’artista ha raffigurato persone che trasportano corpi avvolti in teli bianchi per caricarli su un carretto trainato da un cavallo in mezzo alla strada, altre persone osservano dalle finestre o sull’uscio e tutte hanno l’aspetto di scheletri, con le cavità oculari vuote, che si muovono in una diffusa atmosfera grigio-bluastra.
Nelle stesse collezioni, Un campo di gemelli - Auschwitz: file interminabili di ebrei imprigionati sono dietro il filo spinato di un campo di concentramento; i prigionieri sono raffigurati a coppie di gemelli, ma sono in realtà tutti simili, senza capelli, con facce scavate e cavità degli occhi vuote. I gemelli del dipinto sono stati descritti da Edith Birkin in un’intervista del 1983 con queste parole: “Ogni coppia di gemelli stava insieme guardando attraverso il filo spinato”; erano persone che lei aveva realmente visto quando era prigioniera nel campo di Auschwitz, in uno spazio separato dal resto.
E ancora, ne l’Ultimo respiro - Camera a gas, opera di immensa drammaticità, sono raffigurate due donne, in un stile astratto e in una varietà di colori, che appaiono distrutte nel cercare di respirare, con le loro bocche spalancate e gli occhi fissi; l’ultimo respiro prima di morire soffocate. infine, anche nel Giorno della liberazione un prigioniero del campo di concentramento di Auschwitz è ritratto come un morto vivente: rasato, con il volto scavato e il tipico uniforme a strisce.
Opere che ripercorrono luoghi e situazioni dell’Olocausto che l’artista ha vissuto in prima persona e che sono testimonianze pittoriche di una sopravvissuta, la cui mente ha tenuto ben impresse per tutta la vita scene di grande sofferenza e tragicità.
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ISCRIVITI ALLA NEWSLETTERL'autrice di questo articolo: Ilaria Baratta
Giornalista, è co-fondatrice di Finestre sull'Arte con Federico Giannini. È nata a Carrara nel 1987 e si è laureata a Pisa. È responsabile della redazione di Finestre sull'Arte.