Il tema del mecenatismo femminile ha cominciato in anni recenti ad affacciarsi sul campo degli studi di storia dell’arte. Nell’ambito degli studi di genere, s’è assistito di recente a un fiorire di ricerche che hanno riguardato in larga parte le donne artiste, e tutt’al più qualche pionieristico studio monografico ha riguardato le mecenati più note (come Isabella d’Este, per esempio): contributi di grande rilevanza, spesso inediti, e in grado di cambiare in maniera significativa la nostra percezione dell’arte e della società del passato, ma quello delle donne mecenati è un campo ancora in larga parte da esplorare. Tendenzialmente, nelle società antiche l’esercizio del potere da parte delle donne aveva dei limiti anche pesanti (e anche il rapporto tra donne e potere nei tempi antichi è un campo di studi sostanzialmente nuovo: varrà la pena citare, nella fattispecie, il convegno Donne di potere nel Rinascimento, a cura di Letizia Arcangeli e Susanna Peyronel, tenutosi a Milano nel 2008, una delle prime occasioni d’approfondimento sul tema, seppur limitata a un solo secolo), ma nel campo delle arti e delle lettere le donne godevano d’una maggior libertà, col risultato che molti dei luoghi che oggi visitiamo nelle grandi città d’arte, o nei centri minori, si devono a una vivace committenza femminile.
La Toscana, sotto questo profilo, costituisce un esempio particolarmente felice, avendo conosciuto, nel corso della sua storia, la presenza di numerose mecenati che hanno arricchito questa terra con opere anche capitali per la storia dell’arte, ma di cui si tende a dimenticare il nome di chi le ordinò. È molto recente (7 novembre 2023) un workshop internazionale intitolato Il mecenatismo delle principesse medicee nel contesto europeo: tradizioni e identità a confronto, a cura di Sabine Frommel ed Elisa Acanfora, che si è posto l’obiettivo di studiare l’estensione del mecenatismo mediceo al femminile, e di comprendere come quest’attività fosse inserita, più in generale, nel quadro delle relazioni politiche dell’epoca del Granducato di Toscana: “Le principesse”, leggiamo nell’introduzione del progetto, “furono circondate da una cerchia di nobili ambiziosi, dotati di una raffinata cultura: è sufficiente citare i fuorusciti toscani in Francia e del ruolo fondamentale dei Gondi, che promossero a loro volta strategie culturali capaci di far emergere nuove sintesi artistiche”. Obiettivo del progetto è stato anche quello di “prendere in considerazione il confronto con il mecenatismo promosso dai loro mariti, padri, fratelli o figli, gettando le basi per la ricostruzione di un profilo anche psicologico delle protagoniste, che va dall’adesione fino all’emulazione e all’avversione”, nell’attesa di risultati che possano “chiarire lo sviluppo della cultura artistica dei Medici, costruita sul continuo scambio, un va et vient che coinvolge nuovi criteri in un gioco che vede alternarsi l’azione del donatore e del beneficiario in una vasta piattaforma di migrazione”.
In questa sede ci si limiterà a un rapido excursus sul mecenatismo femminile in Toscana dal Cinquecento al primo Novecento prendendo in esame alcune delle figure più eminenti, a cominciare da una donna, Eleonora di Toledo, il cui mecenatismo può essere considerato quasi in competizione con quello del marito, il duca (e poi granduca) Cosimo I de’ Medici. Il 2022 è stato, potremmo dire, l’anno di Eleonora di Toledo, dacché ricorrevano i cinquecento anni della nascita della nobildonna Leonora Álvarez de Toledo y Osorio (Alba de Tormes, 1522 – Pisa, 1562), e una grande mostra a Palazzo Pitti ne ha tracciato un profilo completo, senza dimenticare, naturalmente, anche le sue attività culturali. Dobbiamo a Eleonora di Toledo la realizzazione del Giardino di Boboli e del suo ornamento, quella che Bruce Edelstein, storico dell’arte che ha dedicato parte dei suoi studi proprio alla duchessa e che ha curato la grande mostra fiorentina, chiama “la più grande opera di mecenatismo in ambito artistico-architettonico ascrivibile a Eleonora di Toledo”. Dobbiamo poi a Eleonora la committenza di numerose opere d’arte, al di là dei ben noti ritratti ufficiali (il più celebre è il Ritratto di Eleonora di Toledo col figlio Giovanni, capolavoro del Bronzino conservato agli Uffizi, ma la duchessa ebbe comunque un ruolo decisivo nell’importare a Firenze le effigi dei bambini della corte, usanza attestata per la prima volta presso gli Asburgo e poi introdotta alla corte dei Medici proprio col tramite di Eleonora), tese da un lato a esaltare il proprio governo (si pensi, per esempio, al ciclo degli arazzi delle stagioni, eseguiti dalle botteghe di Jan Rost e Nicolas Karcher su cartoni di Francesco Bacchiacca), e dall’altro a trasformare il gusto del tempo. Eleonora fu dunque diretta committente di opere d’arte (su tutte basterebbe citare gli affreschi del Quartiere di Eleonora in Palazzo Vecchio), ma anche innovativa trend setter (la sua presenza a Firenze determinò delle modifiche sostanziali anche nell’ambito della moda, dal momento che in quegli anni s’abbandonavano i gusti severi della Firenze repubblicana e s’apriva invece un periodo orientato verso la colorata e lussuosa moda che guardava alla Spagna, terra d’origine della duchessa), nonché protettrice delle lettere: va segnalato, in quest’ultimo ambito, che sono dedicate a lei, tra le altre, le Rime di Tullia d’Aragona, che forse sono la prima opera della storia della letteratura italiana scritta da una donna e dedicata a una donna.
Altre donne entrate in casa Medici per politiche matrimoniali, nonché raffinate mecenati, seppur meno studiate e meno conosciute rispetto a Eleonora di Toledo, sono Cristina di Lorena (Bar-le-Duc, 1565 – Firenze, 1637) e Maria Maddalena d’Austria (Graz, 1589 – Passavia, 1631): la prima divenne granduchessa consorte nel 1589, un anno dopo aver sposato Ferdinando I de’ Medici (figlio di Cosimo I), mentre la seconda, nuora di Cristina avendo sposato suo figlio Cosimo II, diventò granduchessa consorte nel 1609 (Cristina, peraltro, fu anche co-reggente del granducato tra il 1621 e il 1628). A Cristina di Lorena dobbiamo, tra le varie imprese, la decorazione della Villa La Petraia, che le era stata assegnata dopo il matrimonio con Ferdinando I: così come Eleonora di Toledo aveva chiamato il Bronzino ad affrescare il suo appartamento in Palazzo Vecchio, anche Cristina chiamò alcuni dei maggiori artisti del tempo per decorare gli ambienti della villa (Bernardino Poccetti affrescò la cappella privata, mentre Cosimo Daddi si dedicò al ciclo con le imprese degli antenati di Cristina di Lorena). Un recente studio della storica dell’arte tedesca Christina Strunck, dedicato proprio a Cristina di Lorena, ha ipotizzato che si debba all’influenza della granduchessa la pianta della Cappella dei Principi in San Lorenzo, che sarebbe ispirata alla rotonda dei Valois nella basilica di Saint-Denis, così come, secondo Strunck, sarebbe Cristina di Lorena, e non il marito Ferdinando, la committente delle decorazioni della Sala di Bona a Palazzo Pitti, uno dei più sontuosi ambienti della reggia medicea, riaperta peraltro solo in tempi recenti. Sappiamo, inoltre, che Cristina di Lorena s’interessava di scienze: è lei la destinataria di una famosa lettera del 1615 di Galileo Galilei sul rapporto tra conoscenza scientifica e zelo religioso, attraverso la quale il grande scienziato non soltanto esprimeva la sua posizione (Galileo sosteneva la necessità dell’indipendenza della ricerca scientifica rispetto ai testi sacri) ma cercava anche la protezione della granduchessa in vista dei prevedibili guai che le sue teorie gli avrebbero procurato.
Il nome, forse ancor meno noto, di Maria Maddalena d’Austria è invece legato alla Villa medicea del Poggio Imperiale, dove la granduchessa, sorella dell’imperatore Ferdinando II d’Asburgo, si stabilì nel 1618: fu lei a commissionare all’architetto Giulio Parigi il restauro dell’edificio, e fu da lei che la villa prese il nome (“Poggio Imperiale” in omaggio alle origini di Maddalena d’Austria). Inoltre, Maria Maddalena incaricò uno dei maggiori artisti del tempo, Matteo Rosselli, di decorare gli interni della villa: è interessante rilevare che non soltanto gli affidò un ciclo su temi legati alla sua casata, ma anche una serie di dipinti aventi per protagoniste le eroine bibliche. Una donna, dunque, che intendeva celebrare la virtù e il valore delle donne attraverso uno dei cicli che sarebbero rimasti tra i vertici del Seicento fiorentino. E ancora Maria Maddalena d’Austria diede avvio, tra il 1625 e il 1627, a una delle più mirabili imprese artistiche del primo Seicento a Firenze, ovvero la decorazione della Sala della Stufa a Palazzo Pitti, terminata poi dopo la sua scomparsa. Qui, ha scritto la studiosa Elisa Acanfora, autrice d’uno studio che ha in parte risollevato Maria Maddalena d’Austria dai pregiudizi della storiografia del passato (la granduchessa, per esempio, aveva fama di donna bigotta ma al contempo amante del lusso e dei piaceri), la granduchessa “seguì parzialmente il progetto di abbellimento iniziato con l’ampliamento del palazzo voluto da Cosimo II e affidato all’architetto di corte Giulio Parigi”, occupandosi da vicino dei lavori della Sala della Stufa, i cui soggetti riflettono la produzione letteraria che proprio in quegli anni veniva promossa a Firenze dalla stessa Maria Maddalena d’Austria. La Sala della Stufa si poneva anche come impresa in grado di entrare nel dibattito politico del tempo: in un’epoca in cui s’erano riaperte discussioni sulla miglior forma di governo e sul primato della monarchia, “il richiamo costante al proprio casato”, scrive Acanfora facendo riferimento ai temi del ciclo decorativo (Matteo Cinganelli, Matteo Rosselli e Ottavio Vannini vi dipinsero immagini di grandi sovrani dei tempi antichi uniti a figure allegoriche), “è di fatto, e in primo luogo, il riferimento a una forma di governo assoluto, di cui per nascita ella si sentiva depositaria. Dal punto di vista teorico, nel confronto con le monarchie antiche, a Firenze come altrove, si cercò la legittimazione di tale potere. E nella volta della Stanza della Stufa Maria Maddalena offrì anche una precoce ed eloquente rappresentazione figurativa di tali idee”.
Anche la marchigiana Vittoria della Rovere (Pesaro, 1622 – Pisa, 1694), moglie di Ferdinando II de’ Medici, proseguì l’operato delle donne che l’avevano preceduta nel ruolo di granduchessa consorte. Vittoria della Rovere è ricordata principalmente per esser stata l’ultima erede del ramo principale dei Della Rovere, che si estinse con la sua scomparsa, e per aver portato a Firenze, per tal ragione, buona parte delle mirabili collezioni dei duchi di Urbino, ereditata con la scomparsa del nonno Francesco Maria della Rovere nel 1631: è per questa ragione che oggi troviamo agli Uffizi capolavori come la Venere di Urbino di Tiziano, il dittico dei ritratti dei duchi d’Urbino di Piero della Francesca, il Ritratto di giovane con la mela attribuito a Raffaello e diversi altri. Vittoria della Rovere è nota poi per esser stata attenta sostenitrice della musica, per aver portato avanti la decorazione della Sala della Stufa (fu con lei che venne chiamato Pietro da Cortona a decorare le pareti con le scene delle Quattro età dell’uomo, capolavoro della pittura barocca), per aver commissionato a Baldassarre Franceschini detto il Volterrano gli affreschi dell’appartamento invernale di Palazzo Pitti, per aver ampliato la reggia stessa dopo la scomparsa del marito, e per essere stata generosa sostenitrice dell’Istituto della Quiete, la sede della congregazione laicale delle “Minime Ancelle dell’Incarnazione” fondata nel 1645 da Eleonora Ramírez de Montalvo, educatrice e poetessa che nel 1650 aveva acquistato, grazie proprio alla mediazione di Vittoria, la Villa La Quiete, che divenne dunque un istituto per l’educazione delle giovani nobildonne fiorentine.
Negli ultimi anni del granducato mediceo si distinse anche l’operato di Violante Beatrice di Baviera (Monaco di Baviera, 1673 – Firenze, 1731), moglie di Ferdinando de’ Medici, erede al trono fiorentino ma mai divenuto granduca in quanto morto prima di suo padre Cosimo III: “donna colta, poliglotta, musicalmente versata”, come scrive la studiosa Silvia Benassai, “fu attratta dai circoli arcadici cui aderì con il nome di Elmira Telea, protesse letterati e poeti tra cui Giovan Battista Fagiuoli e il celebre senese Bernardino Perfetti, e fu essa stessa dotata di una penna fluente che le permise di redigere nel 1693 il proprio ritratto autobiografico”. Il suo ruolo di mecenate si espresse soprattutto nel privato: fu, in particolare, appassionata di oreficeria e gioielleria (fu lei, per esempio, a commissionare agli orafi Giovanni Comparini e Giuseppe Vanni la Corona di santa Maria Maddalena de’ Pazzi), ma numerosi furono anche i pittori al suo servizio.
L’ultima grande mecenate di casa Medici fu invece Anna Maria Luisa de’ Medici (Firenze, 1667 – 1743), figlia di Cosimo III, che esercitò la sua passione per le arti soprattutto in Germania, a Düsseldorf, essendo divenuta nel 1690 moglie di Giovanni Carlo Guglielmo I, principe elettore del Palatinato: è tuttavia merito di questa nobildonna se oggi possiamo ancora ammirare a Firenze i capolavori radunati lungo secoli di collezionismo del suo casato. Nel 1737, infatti, Anna Maria Luisa, nel frattempo tornata a Firenze dopo la scomparsa del marito occorsa nel 1716, ereditò dall’ultimo granduca di Toscana, Gian Gastone de’ Medici, suo fratello, la sterminata collezione di famiglia: con la scomparsa dell’ultimo erede maschio del casato, che moriva senza figli e destinava dunque all’estinzione il ramo principale dei Medici, s’era aperto il problema della successione al soglio granducale. Anna Maria Luisa nutriva il timore che alla sua scomparsa l’ingente tesoro artistico accumulato dai Medici nei secoli andasse disperso com’era accaduto in occasioni simili. Poco prima della scomparsa di Gian Gastone, i Lorena erano stati designati come i successori dei Medici al governo di Firenze, e Anna Maria Luisa era riuscita a stipulare col casato franco-austriaco il cosiddetto “Patto di Famiglia”, un accordo con cui l’ultima Medici s’impegnava a cedere ai successori di suo fratello tutto il patrimonio della sua dinastia (“Mobili, Effetti e Rarità della successione del Serenissimo Gran Duca suo fratello, come Gallerie, Quadri, Statue, Biblioteche, Gioie ed altre cose preziose, siccome le Sante Reliquie e Reliquiari, e loro Ornamenti della Cappella del Palazzo Reale”: così leggiamo nel terzo articolo della convenzione firmata da Anna Maria Luisa e Francesco Stefano di Lorena il 31 ottobre 1737), a patto che “non ne sarà nulla trasportato, o levato fuori della Capitale, e dello Stato del Gran Ducato”. Moderne le motivazioni: Anna Maria Luisa, ritenendo infatti che il patrimonio avesse finalità di “ornamento dello Stato”, “utilità del pubblico” e “attirare la curiosità dei forestieri”, aveva ceduto tutto il patrimonio con la specifica clausola che tutte le opere d’arte dei Medici non venissero portate fuori dalla Toscana. Anche per questo motivo ogni anno, il 18 febbraio, giorno dell’anniversario della morte di Anna Maria Luisa, l’amministrazione comunale di Firenze la ricorda in via ufficiale.
Accanto alle donne di casa Medici è poi possibile annoverare, soprattutto in epoche più recenti, alcuni interessanti casi di donne mecenati alle quali dobbiamo importanti opere che ancor oggi ammiriamo nei musei, la nascita di capolavori della letteratura, sostegno alla musica e a varie forme d’arte. Senza entrare nel merito della committenza dei monasteri femminili (va comunque registrato che i conventi furono, per secoli, importanti centri di produzione artistica gestiti da badesse illuminate che conoscevano e apprezzavano l’arte, e promossero anche, seppur entro dimensioni minori, un’arte al femminile come quella della suora pittrice Plautilla Nelli, anche lei studiata frequentemente in tempi recenti), è possibile citare alcune donne che, pur rappresentando casi sporadici, hanno modellato il volto della cultura toscana: si può cominciare con Carlotta Lenzoni de’ Medici (Firenze, 1786 – 1859), esponente di un ramo cadetto dei Medici (quello noto come “di Lungarno”), nota per aver animato, nel suo palazzo di piazza Santa Croce a Firenze, un circolo di artisti, letterati e intellettuali che orientò in maniera significativa la cultura fiorentina del primo scorcio d’Ottocento (tra i personaggi che frequentavano casa sua è possibile menzionare anche Giacomo Leopardi, tra gli altri), e nota anche per la sua grande passione per l’arte. Tra le opere da lei acquistate è possibile includere il primo importante capolavoro di Pietro Tenerani, la Psiche abbandonata, opera che lei comperò nel 1819 e che contribuì all’avvio del successo del grande scultore carrarese: oggi la Psiche fa parte del patrimonio della Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti, cui pervenne dopo la scomparsa di Carlotta per sua espressa volontà.
Risale ai primi dell’Ottocento anche il mecenatismo di Elisa Bacciocchi (Elisa Bonaparte; Ajaccio, 1777 – Villa Vicentina, 1820), sorella di Napoleone che nel 1797 sposò il capitano corso Felice Baciocchi e in seguito, nel 1805, divenne per volere del fratello principessa di Lucca e Piombino. È noto, in particolare, il rapporto che la principessa ebbe con Antonio Canova, cui Elisa commissionò diverse opere, la più famosa delle quali è probabilmente la Musa Polimnia, che però l’artista non ebbe mai modo di consegnarle dal momento che al tempo della caduta del regime napoleonico l’opera non era ancora completa (la scultura avrebbe poi preso la strada di Vienna). Si ricorda poi il ruolo che Elisa ebbe nel promuovere l’arte, e in particolare la scultura, a Carrara, città che era entrata a far parte del principato di Lucca. Fu lei che, nel 1810, assegnò all’Accademia di Belle Arti di Carrara la sua attuale sede, il Palazzo del Principe, e fu lei, in una singolare operazione a metà tra il mecenatismo e la propaganda, ad aprire in città uno stabilimento per la produzione in serie di ritratti di Napoleone e della sua famiglia che avrebbero dovuto raggiungere tutti gli angoli dell’impero. Elisa evidentemente amava rappresentarsi come una colta sostenitrice delle arti: nel 1812, anno in cui Canova soggiornò a Firenze per eseguire il ritratto di Elisa, la principessa diede incarico al pittore Pietro Benvenuti di dipingere una grande tela che ritraesse Elisa Baciocchi assieme allo scultore e al marito (raffigurati mentre discutono assieme attorno al busto che ritrae la principessa), attorniata dalla sua corte, in mezzo agli artisti (vi si riconoscono l’intagliatore e medaglista Giovanni Antonio Santarelli, l’incisore Raffaello Morghen, il pittore Salomon Guillaume Counis, tutti artisti a cui aveva affidato incarichi e lavori), e dipinta seduta in trono a guisa di musa ispiratrice.
Il nome di Elisa Baciocchi è legato a quello della Villa Reale di Marlia, sontuosa dimora alle porte di Lucca dove la principessa fissò la propria residenza extraurbana: fu lei a trasformare il volto della villa conferendo all’edificio, trasformato in stile neoclassico, e all’enorme parco che la circonda l’aspetto che ancora adesso li contraddistingue. La villa stessa diventò sede delle sue attività di mecenatismo, soprattutto in campo musicale, dal momento che il lussureggiante teatro di verzura della villa fu spesso luogo in cui venivano chiamati i migliori artisti del tempo a esibirsi. Caduto il regime napoleonico, dopo un periodo di decadenza, la villa venne acquistata nel 1923 dal conte Cecil Blunt, su consiglio della moglie, Anna Laetitia Pecci (Roma, 1885 – Marlia, 1971), meglio nota come Mimì Pecci-Blunt, ultima mecenate di questa rassegna.
Con lei, la Villa Reale di Marlia tornò a rivivere: restituì alla dimora l’aspetto che aveva sotto Elisa Baciocchi recuperando parte degli arredi originali che nel frattempo erano andati dispersi, animò un circolo intellettuale che vide la presenza di artisti e letterati come Giuseppe Ungaretti, Alberto Moravia, Salvador Dalí, Jean Cocteau e Paul Valéry, era solita organizzare sontuose feste per le quali la contessa non esitava a far realizzare particolari scenografie effimere. Radunò inoltre un’importante collezione d’arte che annoverava dipinti dei più grandi artisti del suo tempo, da De Chirico a Severini, da Mafai a Guttuso, da Tozzi a Cagli, e che si trovava però non a Marlia, ma nei saloni del palazzo romani dei conti, in piazza Aracoeli. A Marlia è però rimasta la vasta collezione etnografica, che rispecchia un’altra passione di Mimì Pecci-Blunt, quella per le tradizioni dei popoli del mondo: nelle stanze della Palazzina dell’Orologio si possono dunque osservare le centinaia di pupazzetti abbigliati secondo le usanze dei diversi paesi del mondo, che la contessa commissionava appositamente per la propria raccolta, e poi ancora i suoi libri, i dischi e molto altro. Tutto rimasto nella villa e oggi visibile dal pubblico che la visita.
Storie di grandi donne che hanno arricchito il patrimonio della regione, e senza le quali oggi la Toscana non avrebbe il volto che tutti conosciamo, storie spesso poco note o poco approfondite ma che possiamo immaginare apriranno una nuova, florida stagione di studi: le ricerche sul mecenatismo femminile nella storia non sono che all’inizio.
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ISCRIVITI ALLA NEWSLETTERGli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta
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