Lo scorso anno, su queste pagine, avevamo scritto di come la città di Prato sia nota, tra le altre cose, per il culto della Sacra Cintola, ovvero la cintura che la Madonna avrebbe donato a san Tommaso come prova dell’Assunzione al cielo. O almeno così si crede. E avevamo raccontato la storia di questa reliquia, considerata miracolosa, attraverso le opere d’arte che si conservano in città. Non ci eravamo però soffermati sull’originale pulpito che decora l’angolo della facciata del Duomo di Prato: un’opera estrosa e fortemente innovativa, realizzata da Donatello (Firenze, 1386 - 1466) e Michelozzo (Firenze, 1396 - 1472), e pensata appositamente per l’ostensione della Sacra Cintola. Vale la pena parlare in modo un po’ più approfondito di un’opera d’arte tra le più interessanti del Rinascimento.
Il DUomo di Prato |
Iniziamo sgombrando subito il campo da un eventuale equivoco: i rilievi che oggi vediamo a rivestimento del pulpito sulla facciata del Duomo sono copie. Gli originali infatti sono custoditi presso il Museo dell’Opera del Duomo, ospitato nel palazzo vescovile, che si trova proprio di fianco al Duomo: un museo piccolo e tranquillo il cui biglietto d’ingresso dà accesso anche alle cappelle monumentali del Duomo. Al pulpito di Donatello e Michelozzo è dedicata un’intera sala, e l’opera si trova qui dal 1970: nel marzo di quell’anno era infatti stata definitivamente smontata per ragioni conservative (l’opera, nel corso della sua storia, ha subito diversi interventi di restauro) e sostituita in facciata con la copia che osserviamo oggi.
Donatello e Michelozzo, Pulpito del Duomo di Prato (1428-1438; marmo con sfondo a mosaico, 210 x 340 cm, lastre del rilievo 73,5 cm x 79 cm; originali presso il Museo dell’Opera del Duomo di Prato e copie sulla facciata del Duomo di Prato) |
I rilievi originali al Museo dell’Opera del Duomo di Prato |
Le vicende del pulpito hanno inizio nel 1428. Un atto, che riporta la data del 27 novembre, ci conferma il contratto che i due grandi artisti fiorentini stipulano, nel mese di luglio, con gli Operai della Cappella della Cintola: Certa cosa essere si dicie, che dell’anno presente 1428 et del mese di luglio del detto anno, Lionardo di Tato, ser Lapo di messer Guido, Nicholao di Piero Benuzzi e Paolo di Donato, tutti da Prato, allora Operai della Cappella della Cintola di Nostra Donna posta nella pieve di Prato, insieme con certi altri ufficiali electi e diputati per lo Comune di Prato [allogarono] a Donato di Nicholò et Michele di Barttolomeo, intagliatori cittadini fiorentini, a fare uno certo pergamo nella detta pieve, a quelli tempi e termini e chon patti modi e conditioni contenenti ec., e de’ quali si dice apparire per mano di ser Iacopo da Colle allora cancellieri del Comune di Prato. L’atto, controfirmato dagli artisti, li impegna a restituire ogni somma anticipata dagli Operai qualora ci siano ritardi o inadempienze rispetto al contratto originario. Il problema (per gli Operai della Cappella, ovviamente) è che Donatello e Michelozzo, essendo artisti di grande fama, sono oberati di lavoro e hanno moltissimi impegni. Di conseguenza, si prospetta che i lavori vadano per le lunghe, ed evidentemente con l’atto del novembre 1428 gli Operai vogliono in qualche modo premunirsi contro eventuali noie che potrebbero scaturire dal fatto che affidare un lavoro a Donatello e Michelozzo possa significare correre il rischio di prolungate pause che i due artisti potrebbero prendersi per terminare altri lavori. E gli Operai hanno ragionato bene, perché i lavori sarebbero andati avanti per una decina d’anni. Basti pensare che, malgrado i tempi contrattuali prevedano il termine dei lavori nel giro di tredici mesi e mezzo (quindi entro settembre 1429), i primi marmi arrivano a Prato solo nel dicembre del 1429. E comunque ciò non è sufficiente per dare il via all’opera, perché Donatello è impegnato a Roma per attendere ad alcuni lavori nella capitale dello Stato Pontificio.
Sta di fatto che i lavori riescono a partire solo nel 1433, e si rende necessario addirittura l’intervento di Cosimo il Vecchio per sbloccare la situazione. A lui infatti si rivolge, nel settembre del 1432, uno degli Operai della Cappella, un certo Cambio di Ferro: l’agente dei Medici sollecita così il ritorno di Donatello e di Michelozzo, ma trascorrono altri tre mesi prima che tutti si decidano a tornare a Prato per iniziare a lavorare al pulpito. Nella primavera del 1433 ripartono i pagamenti nei confronti dei due artisti, arrivano nuovi marmi da Carrara e, a cominciare dal mese di maggio, i lavori possono procedere un po’ più speditamente: durante l’estate del 1433 viene dunque rimosso il vecchio pergamo e gli artisti iniziano a lavorare sulle lastre che devono rivestire la struttura. Nel frattempo, Michelozzo assume la direzione dei lavori, che nel periodo dell’assenza sua e di Donatello era passata a Pagno di Lapo Portigiani (Fiesole, 1408 - dopo il 1469): il giovane scultore fiesolano aveva dovuto mantenere buoni i rapporti con gli Operai, e prima che Donatello e Michelozzo tornassero si era prodigato per far arrivare a Prato parte del materiale necessario per ricominciare i lavori. La critica ha ipotizzato infatti che i lavori non si fossero arrestati durante l’assenza dei due grandi scultori: anzi, è altamente plausibile che al loro ritorno da Roma la struttura architettonica del pulpito, progettata da Michelozzo, fosse già stata completata. E questo potrebbe spiegare perché proprio tra la fine del 1432 e gli inizi del 1433 gli Operai si fanno così insistenti nel richiedere a gran voce (anche con l’ausilio dei Medici) il ritorno dei due.
In realtà, l’unica parte del pulpito che viene completata nel 1433 è, molto presumibilmente, il capitello in bronzo che deve permettere all’intera struttura di reggersi sul pilastro angolare della facciata del Duomo. L’opera, disegnata da Donatello e fusa da Michelozzo e Maso di Bartolomeo (Capannole di Bucine, 1406 – Dubrovnik, 1456 circa) ci offre quello che è a tutti gli effetti un freschissimo ricordo del viaggio romano. L’opera si presenta infatti alla nostra vista con alcuni ricchi motivi floreali e vegetali che richiamano quelli che decoravano i capitelli corinzi, in particolar modo quelli di età adrianea, e sono accompagnati da due putti sdraiati (assumono quasi la posa tipica delle statue che rappresentavano divinità fluviali). Il festone più grande è sorretto, alle due estremità del capitello, da due genietti in piedi (ne vediamo anche altri, più piccoli, che svolazzano tra i fiori), mentre un ulteriore putto corona tutta la composizione sporgendosi al di qua di una sorta di balaustra che Donatello colloca sulla sommità del capitello. Come le formelle, anche il capitello originale è conservato nel Museo dell’Opera del Duomo, per l’esattezza dal 2011: ultimati i lavori di restauro che lo avevano interessato, è stato infatti anch’esso sostituito da una copia.
Donatello e Michelozzo, Capitello per il pulpito del Duomo di Prato (1433; bronzo fuso parzialmente dorato, rifinito a bulino e cesello, 96,8 x 144,2 x 50,6 cm; Prato, Museo dell’Opera del Duomo) |
Il 27 maggio del 1434, con la stipula di un nuovo contratto, il pulpito è finalmente in dirittura d’arrivo, anche se saranno necessari ancora quattro anni per completarlo: sarà infatti montato sulla facciata del Duomo nell’estate del 1438, e la Sacra Cintola verrà finalmente mostrata dal nuovo pulpito, per la prima volta, in data 8 settembre. Il nuovo documento riguarda i rilievi che decorano il parapetto del pergamo pratese. Sono suddivisi in sette formelle e rappresentano un corteo di putti danzanti e festanti, la cui invenzione è frutto del genio di Donatello, peraltro unico firmatario del nuovo contratto. I sette riquadri sono separati tra loro da coppie di pilastri scanalati e dotati di capitelli corinzi, mentre il fondo è coperto con mosaici dorati che, riflettendo la luce, donano luminosità alla danza dei putti rendendola ancora più vivace e allegra. Non sappiamo però se quest’ultimo intervento sia stato pensato da Donatello, perché le fonti contemporanee non ne parlano. O meglio: sappiamo che in origine era previsto che il fondo fosse occupato da un mosaico, ma nessun documento parla di un’eventuale doratura delle tessere come quella che possiamo osservare oggi a decorazione dei pannelli.
I putti assumono le pose più svariate: ballano, corrono, si dimenano, si tengono per mano, si voltano di scatto, intrecciano i loro corpi, ne abbiamo anche alcuni che suonano strumenti musicali (due hanno una tromba e uno suona il tamburello). La composizione è all’insegna del ritmo e dell’armonia: ogni riquadro ospita, senza eccezioni, cinque putti che dànno vita a una festa che è sì frenetica ma è comunque equilibrata, senza che ci siano personaggi che assumano pose scomposte o sgraziate. Tuttavia l’artista, in ogni lastra, sperimenta soluzioni diverse: il primo pannello, probabilmente il meno dinamico dell’insieme, presenta i putti che rivolgono tutti lo sguardo nella stessa direzione (tranne uno che guarda verso di noi) e che si dispongono ordinatamente in fila, uno dietro l’altro, con il secondo e il quarto che si sporgono leggermente fuori. Di conseguenza, la formella appare più affollata rispetto ad altre, come la quinta: qui, Donatello ha scelto di nascondere due putti dietro ad altrettanti loro compagni (di quello in secondo piano a sinistra distinguiamo a malapena un occhio e una ciocca di capelli, mentre quello a destra ha il volto completamente nascosto dal putto che gli sta davanti), rendendo più ariosa la composizione.
Primo pannello. Credit |
Secondo pannello. Credit |
Terzo pannello. Credit |
Quarto pannello (pannello centrale). Credit |
Il rilievo centrale sembra essere quello di maggior qualità, sia per invenzione sia per realizzazione, tanto che si pensa sia stato scolpito dallo stesso Donatello (non è infatti scontato che il grande artista abbia realizzato in prima persona tutti i sette pannelli: all’impresa parteciparono anche gli aiuti della bottega). Donatello, qui, ha realizzato uno schema molto equilibrato e armonioso, creando due simmetrie, una tra i putti alle estremità (entrambi in contrapposto, ovvero la posa con la gamba che sostiene il peso avanzata e l’altra che invece segue) e l’altra tra quelli al centro che, anch’essi in contrapposto, s’incontrano sfiorandosi e nascondendo quasi del tutto il quinto putto, che occupa il centro esatto della composizione. Lo schema è in qualche modo simile a quello dell’ultima formella (che è però la prima a essere stata eseguita): i putti alle estremità qua assistono, sempre posizionati simmetricamente, alla danza dei due centrali che si muovono seguendo lo stesso ritmo, osservati dal quinto putto, anch’esso, come nel rilievo di mezzo, nel centro esatto della scena a bilanciare tutta la composizione. Anche questo pannello è ritenuto dalla critica, per qualità esecutiva e originalità dell’invenzione, d’intera autografia donatelliana. Infine, si aggiunge al gruppo delle formelle interamente donatelliane, con ogni probabilità, anche la terza lastra (iniziando la conta dal lato nord del pulpito).
Quinto pannello |
Sesto pannello |
Settimo pannello. Credit |
Per i suoi putti, Donatello probabilmente si era ispirato a un sarcofago romano che aveva visto a Pisa durante il suo soggiorno in città nel 1426: si tratta di un sarcofago ancor oggi conservato presso il Camposanto (in piazza dei Miracoli). Quest’antica opera, della fine del II secolo dopo Cristo, è decorata con una serie di putti che si abbandonano, ebbri, ai piaceri del rito dionisiaco che stanno celebrando. Benché i putti del pulpito di Prato non siano i primi della produzione donatelliana (sono preceduti, di qualche anno, da quelli in bronzo realizzati per il Battistero di San Giovanni a Siena), la fortunata iconografia della danza, che viene affrontata qui da Donatello per la prima volta nella sua carriera (oltre che per la prima volta in tutto il Rinascimento), sarebbe riuscita a riscuotere un notevole successo.
Sarcofago con putti ebbri (III sec. d.C.; Marmo; Pisa, Camposanto monumentale). Credit |
A questo punto, ci si potrebbe domandare per quale ragione Donatello abbia scelto di ricorrere a un soggetto classico per un monumento destinato a un tempio cristiano (anche se non è il primo caso, nel Quattrocento: il primato forse spetta a Jacopo della Quercia, con ogni probabilità il primo scultore quattrocentesco a decorare un sarcofago, ovvero quello di Ilaria del Carretto, con putti che, nel suo caso, reggono festoni). Se infatti potrebbe apparire più facile l’associazione di idee “putto-angelo” per le sculture che ornano il fonte battesimale senese, più labile appaiono i nessi tra la religione cristiana e i putti pratesi, che peraltro non sono alati come quelli di Siena. Anticamente, i putti decoravano i sarcofagi di uomini ritenuti esempi di virtù dal momento che, negli antichi culti dionisiaci, si riteneva che i putti abitassero il paradiso di Dioniso, e non di rado li vediamo, nei monumenti romani, intenti a vendemmiare: il vino, che nasce dall’uva, diventa simbolo di rinascita (quella a cui aspira l’eroe nell’aldilà). Questi aspetti iconologici si trasferiscono letteralmente nell’immaginario cristiano, e la figura del putto viene dunque associata al concetto cristiano di salvezza, in diretta connessione con il motivo del vino versato da Cristo nell’ultima cena e simbolo del suo sangue (anche in antichità il vino era considerato un po’ come il “sangue” dell’uva), dunque del suo sacrificio per redimere l’umanità. Resta comunque il fatto che il pulpito di Donatello è considerato dalla critica (De Fusco, Argan), al pari della cantoria fiorentina, la più dionisiaca opera del Quattrocento italiano. E sarebbe limitante sottovalutare l’importanza della componente classica dell’opera di Donatello giustificando i putti sulla sola base delle connessioni con la religione cristiana: il dinamismo dionisiaco, specchio di quell’“innato paganesimo” donatelliano di cui aveva parlato il critico d’arte Guido Edoardo Mottini, è una delle manifestazioni più evidenti della “rivoluzione” che lo scultore operò nell’arte del Quattrocento, iniziata con il recupero totale e profondamente sentito dell’arte classica.
Sarà forse anche per il modo simile d’approcciarsi all’antico che il pulpito del Duomo di Prato affascinò così tanto il giovane Gabriele D’Annunzio che, com’è noto, trascorse la sua giovinezza nella città toscana, e in una lettera scrisse alcune memorabili impressioni sull’opera di Donatello: “Prato è [...] illuminata dal cielo meno che da un pulpito marmoreo scolpito in basso rilievo divinamente dal divino Donatello. Questo pulpito è all’aperto, a un angolo esterno del Duomo; e rappresenta una danza di putti. È un’opera famosa dello scultore fiorentino. L’imagine che più profondamente m’è rimasta impressa nella memoria, di tutto quel periodo della mia vita, è appunto l’imagine di quel pulpito meraviglioso”.
Bibliografia di riferimento
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).