Una delle più straordinarie meraviglie di Venezia si trova, come spesso accade nella città lagunare, in una posizione defilata, quasi nascosta: a Palazzo Grimani, la residenza di una delle famiglie che più incisero sulla storia di Venezia, ci si arriva infatti percorrendo un vicolo, ramo Grimani, che parte dalla stretta ruga Giuffa poco prima del ponte che conduce direttamente nel campo di Santa Maria Formosa. Le vicende di questo edificio rimontano alla fine del XV secolo, quando il patrizio Antonio Grimani (Venezia, 1434 - 1523), che prima di far carriera politica fece fortuna coi commerci in Oriente e fu poi eletto doge nel 1521, acquistò la dimora e la donò poi ai figli, e a partire dall’atto di donazione di Antonio il palazzo divenne la residenza dei Grimani “di Santa Maria Formosa”, così detti per distinguerli dagli altri rami della famiglia che abitarono in altri palazzi della città. L’edificio fu tuttavia ampliato e restaurato nel Cinquecento dai fratelli Vettore e Giovanni Grimani, nipoti di Antonio. Fu però soprattutto Giovanni Grimani (Venezia, 1506 - 1593), patriarca di Aquileia tra il 1545 e il 1550 e poi di nuovo tra il 1585 e il 1593, a promuovere i lavori più importanti a seguito della scomparsa del fratello, avvenuta nel 1558, e a dare all’edificio l’impronta che ancora lo contraddistingue, su modello delle antiche domus romane e secondo uno stile che guardava alle novità dell’architettura contemporanea, soprattutto a quella che si produceva a Roma.
Giovanni Grimani fece aprire le grandi logge del cortile, chiamò Federico Zuccari a decorare la volta dello scalone monumentale, adornò la residenza di splendide opere d’arte che andarono ad arricchire la già cospicua raccolta di famiglia (in particolare il cardinale Domenico, figlio di Antonio e zio di Giovanni e Vettore, era riuscito a radunare numerose antichità romane durante gli anni in cui visse a Roma, e divenne uno dei collezionisti più famosi della sua epoca), e soprattutto fece realizzare la Tribuna Grimani, l’ambiente più noto, fastoso e celebrato del Palazzo, il cui allestimento è stato eccezionalmente ricostruito nel 2019 con l’iniziativa Domus Grimani che ha radunato nell’edificio di ramo Grimani le antichità che un tempo erano qui custodite e che ora sono invece conservate al Museo Archeologico di Venezia (un’iniziativa a cura di Daniele Ferrara e Toto Bergamo Rossi che è poi proseguita a maggio 2021 con la seconda tappa del progetto Domus Grimani, il riallestimento della Sala del Doge: il tutto realizzato anche grazie al supporto di Venetian Heritage, che ha finanziato il progetto espositivo grazie al contributo della Helen Frankenthaler Foundation in collaborazione con Gagosian, di un anonimo donatore e della partecipazione di Civita Tre Venezie). Il riallestimento è stato possibile grazie alla rilettura dei documenti dell’epoca: lo schizzo tracciato da Federico Zuccari nel 1582 e gli inventari redatti nel 1593 da Lorenzo Massa e Pietro Pellegrini, segretari della Repubblica incaricati di registrare i beni posseduti da Giovanni Grimani dopo la sua scomparsa (non ci è però giunto il libro dei disegni che riproduceva con esattezza la sistemazione delle sculture nel palazzo).
Situata al piano nobile del palazzo, nell’ala nord fatta costruire dallo stesso Giovanni Grimani proprio per fornire una collocazione alla raccolta, la Tribuna, che si presenta al visitatore dopo un’infilata di grandi stanze, era stata progettata per accogliere le più preziose statue antiche della collezione di famiglia: il nobile la immaginò come uno spazioso e scenografico spazio quadrangolare a pianta centrale, un’aula con ampie nicchie timpanate, coperta da una volta a vele decorata con cassettoni a stucco (ispirati alla decorazione del Pantheon di Roma), in grado di ricevere luce da un ampio lucernario. Le pareti sono divise in verticale da grandi pilastri a bugnato, sormontati da una trabeazione continua in marmo rosso di Verona, a sua volta sovrastata, al centro di ogni parete, da un timpano. Nelle nicchie, sopra i timpani e sulle mensole dovevano essere collocate le statue. Non sappiamo chi sia l’architetto che abbia progettato il camerino delle antichità di Giovanni Grimani (forse fu il patriarca stesso a ideare il disegno, secondo alcuni studiosi), ma certo è che dovette stupire fin dai tempi più antichi chiunque lo visitasse. Troviamo un’eco della sorpresa che la Tribuna suscitava nei visitatori nelle parole dell’umanista olandese Steven Winand Pigge, che lodò “patriarcham Aquilejensem Joannem Grimanum, virum ut nobilitate, splendore, atque opibus, ita et prudentia, eruditione, rarisque virtutum dotibus ornatissimum”, e apprezzò le sue “elegantissimas aedes cum bibliotheca et musaeo rerum antiquarum omnis generis admodum instructo”: il “musaeum” allestito con antichità di ogni genere è la Tribuna del palazzo di Santa Maria Formosa.
L’Antiquarium di Giovanni Grimani sorprendeva anche per la sua originalità, dato che solitamente aule di questo tipo erano rettangolari (di modo che avessero la forma di una galleria), mentre il patriarca se ne fece costruire una di forma quadrata: una vera Kunstkammer “al centro del quale posizionarsi”, ha scritto la studiosa Silvia Cattiodoro, “teca e scrigno per esporre e proteggere, appositamente costruito per l’erudito e il suo tesoro”, e dove il patriarca poteva collocarsi, “con una certa vanità, come campione della visione antropocentrica di cui si dibatteva allora negli ambienti filosofici, in netto contrasto con la modestia, almeno di facciata, richiesta dal suo ruolo ecclesiastico”. Il camerino di Giovanni Grimani divenne vanto della sua residenza: gli ospiti in visita ufficiale vi venivano condotti di buon grado, e grazie anche alla Kunstkammer del patriarca, la fama di Venezia come città in cui si potevano ammirare le antichità romane cominciò a diffondersi rapidamente. “La sala della Tribuna”, scrivono Daniele Ferrara e Toto Bergamo Rossi nel catalogo di Domus Grimani, “era ed è tuttora l’ambiente più singolare dell’intera dimora. Le sue pareti, ideate per esporre la straordinaria collezione di antichità della famiglia Grimani, sono scandite da pilastri, elementi architettonici e nicchie entro le quali erano esposte le statue di grandi dimensioni. Il palazzo era una meta culturale frequentata da eruditi, letterati, artisti, sovrani e personaggi di rilievo in visita a Venezia. Il patrimonio privato dei Grimani dava lustro alla Repubblica e gli esponenti della famiglia erano consapevoli della funzione pubblica che svolgeva la loro collezione d’arte”. Ad accogliere i visitatori, peraltro, c’era una dedica (ancor oggi visibile) sul portale d’ingresso, che recitava: “Genio Urbis Augustae / Usuique Amicorum”, iscrizione che dichiarava dunque il palazzo aperto alla città e agli amici.
Per progettare la sua Tribuna, Giovanni Grimani si era ispirato alle collezioni romane (a Roma molti nobili avevano allestito raccolte di antichità entro spazi che richiamavano la classicità): tuttavia, ha scritto la studiosa Irene Favaretto, il nobile “riuscì a creare qualcosa di unico, romano quanto alla scansione simmetrica delle parti, ma addolcito da un gusto per il colore e per il teatro tutto veneziano. È il colore dei marmi che dà un’atmosfera particolare all’ambiente, rendendolo vivo con sapienti tocchi di marmo rosso nelle colonnine delle nicchie e sui cornicioni che delimitano la fuga della lanterna, con piccoli elementi di marmo verde che risaltano su lastre di marmo candido, mentre il resto della parete è sfumato in una calda tonalità di marmo grigio”. Colori, il grigio, il rosso e il verde, che sono peraltro quelli predominanti nella basilica di San Marco.
Nelle grandi nicchie del registro inferiore, Grimani aveva fatto sistemare statue a grandezza intera: nell’allestimento registrato da Pellegrini e Massa, e ricreato in occasione di Domus Grimani, figurano un Dioniso assemblato nel Cinquecento con frammenti di varie epoche e frammenti creati ex novo com’era d’uso al tempo, un Sileno con un torso del III secolo a.C. e altre parti integrate probabilmente da Tiziano Aspetti (Padova, 1559 - Pisa, 1606), e una Afrodite di tipo capitolina della seconda metà del II secolo d.C., anch’essa restaurata probabilmente da Tiziano Aspetti nel Cinquecento. Sopra, Grimani aveva disposto una teoria di ritratti che erano stati posti sopra le mensole e sopra le cornici per creare, scrive Favaretto, “un gioco di incroci di sguardi tra le sculture, talora volte l’una verso l’altra, quasi a colloquio, in altri casi guardando sdegnosamente davanti a sé”. La Tribuna raggiunse l’apice dello splendore tra il 1560 e il 1570, periodo in cui peraltro Giovanni Grimani dovette difendersi dalle accuse di chi sospettava che stesse appoggiando la riforma luterana, ed è probabilmente in questo periodo che l’ambiente dovette raggiungere il suo assetto definitivo, culminante in alto con lo spettacolare volo del Ganimede del II secolo d.C., restaurato nel Cinquecento, che era sospeso a mezz’aria, investito dalla luce proveniente dal lucernario. Tuttavia, ha osservato la studiosa Marcella De Paoli, occorre anche sottolineare come l’allestimento doveva essere “un progetto in continua evoluzione, rimodulabile allo scopo di inserire nuovi acquisti”. All’epoca in cui Pellegrini e Massa compilarono l’inventario, nella Tribuna figuravano più di centotrenta opere, in bronzo e in marmo (con Domus Grimani invece ne sono state sistemate ottantasette). “L’insieme”, ha evidenziato De Paoli, “era ispirato a un principio generale di armonia, di sensibilità rinascimentale, che nella collocazione delle statue entro nicchie e nella luce zenitale ha suggerito ad alcuni studiosi confronti con il Pantheon e con il Michelangelo delle Cappelle Medicee. Una Kunstkammer dunque, che a Venezia precorreva i tempi ed esaltava la sacralità della scultura antica”.
Segue la Tribuna in ordine di spettacolarità la summenzionata Sala del Doge, così chiamata in quanto ideata da Giovanni Grimani con lo scopo preciso di celebrare Antonio Grimani, che era stato il primo doge della famiglia. Il luogo dedicato alla memoria del nonno aveva il compito di ricordare la figura che aveva dato avvio alle fortune della famiglia: una storia di successo, di caduta e di riscatto (ad Antonio Grimani era stato affidato nel 1499 il comando della flotta veneziana contro i turchi, che inflissero due pesanti sconfitte alla Serenissima, col risultato che il futuro doge venne riportato a Venezia in catene e poi confinato sull’isola di Cherso: avrebbe però ricevuto la grazia nel 1509 e tornò poi rapidamente in auge, tanto da arrivare a essere eletto doge nel 1521, all’età di ottantadue anni). Il nipote aveva immaginato una grande stanza che riceve luce da tre finestroni affacciati sul canale San Severo e intervallati da nicchie dove andavano a posizionarsi le sculture. Il tutto decorato con raffinate ghirlande di fiori e grottesche. Al centro della sala, sul lato attiguo rispetto a quello in cui si trovano le finestre, si apre un camino sul quale spiccava il busto di Antonio Grimani (andato perduto: al suo posto per Domus Grimani è stato installato un busto di Cesare eseguito dallo scultore toscano Simone Bianco nella prima metà del XVI secolo), e dove si legge ancor oggi la dedica (“Ant Grimano venet / Principi Optimo / Grim Familiae / Ampliatori”). Nelle nicchiette del registro superiore, che si trovano sopra le porte, erano collocate ulteriori sculture antiche.
Dopo la scomparsa di Giovanni Grimani, il destino delle opere della Sala del Doge non fu simile a quello delle sculture della Tribuna, che nella stragrande maggioranza hanno condiviso la stessa sorte, finendo, come si dirà tra poco, nello Statuario Pubblico della Repubblica di Venezia. La Sala del Doge subì infatti diverse trasformazioni. Il lato opposto rispetto a quello del camino era stato rivestito con un leggero bugnato e al centro presentava una grande nicchia con “doi statue una grande più del vivo d’un fauno che abbraccia un satiro di grandezza dal vivo”, registravano Pellegrini e Massa: si tratta del gruppo con Dioniso e Satiro della seconda metà del II secolo d.C., integrato e restaurato nel XVI secolo, e reinserito con l’allestimento di Domus Grimani. Questo lato della Sala ospitava il numero di sculture più alto di tutto l’ambiente, molte delle quali tuttavia rimasero tra i beni dei Grimani, e di esse oggi non è nota l’ubicazione (tra queste figura il già citato busto di Antonio Grimani), dal momento che nel 1865 gli eredi misero in vendita diversi oggetti che si trovavano nel Palazzo, rendendo la Stanza del Doge vuota. Nonostante l’impossibilità di ricostruirla esattamente com’era, la Stanza del Doge è comunque un ambiente carico di fascino: “se la ricostruzione della Tribuna è stata una felice intuizione che ha permesso di riscoprire uno dei luoghi più ammirati nel Cinquecento per la bellezza delle sculture e per il valore storico e artistico delle sue componenti”, conclude Irene Favaretto, “la ricostruzione della Stanza del Doge ci restituirà una vicenda umana che ha visto il riscatto di un uomo da un doloroso evento personale, proiettato sullo sfondo di uno dei periodi più difficili della storia della Serenissima”.
La formidabile raccolta di Giovanni Grimani fu donata nel 1587 alla Repubblica di Venezia: i marmi rimasero pochissimo tempo a Palazzo Grimani, poiché subito dopo la sua scomparsa, avvenuta nel 1593, le sculture furono trasferite nella Biblioteca Marciana, in un ambiente (l’antisala della Biblioteca) destinato poi a diventare lo Statuario della Repubblica, che fu aperto al pubblico nel 1596 e che in seguito si sarebbe ulteriormente arricchito con donazioni di opere da parte di altre famiglie. Dopo la caduta della Serenissima nel 1797, lo Statuario non venne risparmiato dalle spoliazioni napoleoniche: le sculture lasciarono la Marciana per Palazzo Ducale, e alcune presero la via della Francia (tra queste il rilievo con suovetaurilia un tempo in collezione Grimani: un importante bassorilievo della prima età imperiale con raffigurata una scena di sacrificio, il cui nome indica le bestie in procinto d’essere immolate, ovvero un maiale, una pecora e un bue). A seguito della Restaurazione, l’Austria, che aveva ottenuto la sovranità sui territori un tempo appartenenti alla Repubblica di Venezia, inviò a Parigi il direttore della Galleria del Belvedere di Vienna, Joseph Rosa, cui spettò il compito di recuperare i beni trafugati dai francesi nelle aree che dopo il 1815 erano state riunite in una nuova entità statale, il Regno Lombardo-Veneto. Gran parte delle opere della Marciana tornò a Venezia, anche se alcune rimasero in Francia (tra queste il suovetaurilia, che era stato murato in una parete del Louvre).
La più parte delle opere tornò dunque al proprio posto. Dopo l’Unità d’Italia, nel 1882, lo Stato divise il patrimonio del museo da quello della biblioteca, atto che avrebbe portato alla nascita, tra il 1923 e il 1926, del Museo Archeologico di Venezia, con sede alle Procuratie Nuove (dove tuttora si trova). È qui che è conservata la collezione di Giovanni Grimani. Collezione che, come ricordato, nel maggio del 2019 è stata temporaneamente trasferita nella Tribuna di Palazzo Grimani, andando così a riallestire l’ambiente come lo si poteva vedere fino al 1594, anno in cui i marmi uscirono dall’edificio per essere esposti alla Marciana. Palazzo Grimani è infatti un’acquisizione relativamente recente per il pubblico: l’edificio venne infatti acquistato dal Ministero della Cultura nel 1981, e dopo anni di restauri è diventato un museo pubblico statale nel 2008 (dal 2015 è uno dei musei della Direzione regionale Musei Veneto, l’ex Polo Museale del Veneto). Per Venezia, hanno spiegato Ferrara e Bergamo Rossi, il palazzo rappresenta “una preziosa rarità, per via della sua conformazione architettonica, che richiama la domus romana e i modelli rinascimentali della città papale, nonché per le decorazioni di impronta manierista tosco-romana: gli affreschi e gli stucchi di Giovanni da Udine, allievo di Raffaello, con il quale collaborò alla decorazione delle Logge Vaticane e della Farnesina a Roma, e di altri artisti che si affermarono grazie a esperienze romane, il fiorentino Francesco Salviati e il marchigiano Federico Zuccari”.
Così, il riallestimento degli ambienti cinquecenteschi ha rappresentato un “eccezionale evento”, come lo hanno definito Ferrara e Bergamo Rossi, che “ha permesso di poter ammirare per la prima volta dopo quattro secoli le sculture greche e romane nella collocazione voluta dal patriarca Grimani, e di valorizzare una sede museale statale ancora troppo poco nota. Le collezioni di arte antica dei Grimani rappresentano oggi, come nel XVI secolo, un unicum a livello internazionale”. Palazzo Grimani è dunque un museo particolarmente vivo, il cui patrimonio continua ad arricchirsi, come dimostra l’acquisizione, nel 2020, del ritratto di Giovanni Grimani attribuito a Domenico Tintoretto, che ha colmato un importante vuoto iconografico dal momento che nel museo mancava il ritratto del “paron de casa”. Ed è già diventato uno dei luoghi di Venezia che più affascinano cittadini e viaggiatori.
Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta
Gli articoli firmati Finestre sull'Arte sono scritti a quattro mani da Federico Giannini e Ilaria Baratta. Insieme abbiamo fondato Finestre sull'Arte nel 2009. Clicca qui per scoprire chi siamo