Il dittico Bentivoglio, conservato alla National Gallery di Washington, si può vedere fino al 19 giugno alla mostra “Rinascimento a Ferrara. Ercole de’ Roberti e Lorenzo Costa”, a cura di Vittorio Sgarbi e Michele Danieli.
Una coppia d’eleganti signori, dipinti di profilo su due tavole di pioppo, stanno uno di fronte all’altra con sguardo austero, sullo sfondo d’una città turrita che s’apre al di là di una finestra coperta da una grande tenda scura, di cui vediamo i lembi nei due dipinti. Sono i signori di Bologna: Giovanni II Bentivoglio e Ginevra Sforza, ritratti in un sontuoso dittico di Ercole de’ Roberti (Ferrara, 1451 circa – 1496) oggi conservato alla National Gallery di Washington, come parte della Samuel H. Kress Collection. Quando Ercole dipinse le effigi dei signori de facto della città (ovviamente è Bologna quella che s’ammira nel dipinto), era un giovane di neanche venticinque anni, trasferitosi da poco a Bologna al seguito del suo maestro, Francesco del Cossa (Ferrara, 1436 – Bologna, 1478), per aiutarlo nell’impresa del Polittico Griffoni: il Cossa era già un artista di chiarissima fama, mentre Ercole uno dei giovani più promettenti d’Italia, e probabilmente non dovette faticare molto per farsi notare da Giovanni II, che nel 1463, ventenne, era stato eletto gonfaloniere di giustizia dal senato cittadino e poteva così cominciare a esercitare sulla città la sua signoria di fatto. L’anno successivo, il matrimonio con Ginevra Sforza gli garantiva l’appoggio di Milano: Ginevra (che era stata sposa del cugino di Giovanni, Sante Bentivoglio, suo predecessore nella carica di gonfaloniere) era infatti nipote di Francesco Sforza, duca di Milano.
Giovanni II è ricordato per esser stato l’artefice del rinnovamento di Bologna durante il Rinascimento, col quale riuscì a garantirsi il sostegno popolare mentre poneva le magistrature cittadine sotto il suo controllo dando vita a quella che assunse i contorni d’una larvata tirannia: si rammenta, in particolare, la sua intensa opera di mecenatismo che ravvivò le arti a Bologna (una tra le ultime città dell’Italia del nord a essere interessata dalle novità rinascimentali, ma s’aggiornò presto con l’arrivo di Niccolò dell’Arca, di Francesco del Cossa, dello stesso Ercole de’ Roberti, di Lorenzo Costa, e con le opere di artisti locali come Francesco Francia e Amico Aspertini), la valorizzazione dell’ateneo cittadino, la munificenza nei riguardi della popolazione, i tanti anni di relativa pace ottenuti grazie alla sua forza militare e a un’accorta e intelligente politica diplomatica che gli aveva permesso d’ottenere importanti alleanze, su tutte quella coi milanesi. La situazione, dopo un quarantennio di governo, minata verso la fine del secolo da crisi interne (su tutte la congiura dei Malvezzi nel 1488 e quella dei Marescotti nel 1495, famiglie rivali dei Bentivoglio, che cercarono di spodestare Giovanni II, non ci riuscirono, e dovettero subire una violenta repressione: accadde soprattutto dopo la congiura dei Marescotti, quando il signore scatenò una giustizia sommaria che iniziò a incrinare il suo rapporto con la popolazione) e da una congiuntura economica sfavorevole, iniziò a precipitare dopo la conquista francese di Milano: venuto meno l’appoggio sforzesco, Bologna era diventata oggetto delle mire di papa Giulio II, che fin dall’elezione al soglio pontificio nel 1503 coltivava il desiderio di sottomettere la città all’autorità pontificia, alla quale s’era ribellata cacciando il Legato Pontificio nel 1401 e poi una seconda volta nel 1438, dopo che l’autorità papale era riuscita a ristabilire il proprio potere tre anni prima. Al papa, per il quale Bologna era fondamentale ai fini dell’espansionismo dello Stato Pontificio in Romagna, servirono tre anni di preparativi per muovere contro Bologna: Giovanni II rifiutò le trattative (si era anche lasciato persuadere dalle previsioni astrologiche favorevoli, e aveva pure fatto torturare Luca Gaurico, l’unico astrologo che gli aveva predetto una sorte infausta), convinto di trovare l’appoggio dei francesi (che invece non arrivò, così come non sopraggiunse l’auspicato aiuto della Repubblica di Venezia), ma alla fine si trovò da solo dinnanzi all’esercito pontificio, e con anche una condanna sulla sua persona e la minaccia d’interdetto a tutta la città. Consapevole che avrebbe perso un’eventuale guerra, accettò alla fine l’ultima offerta di Giulio II: consegnò Bologna allo Stato Pontificio e lasciò la città assieme a tutta la famiglia, a condizione di poter conservare i suoi beni. Era la notte tra il 1° e il 2 novembre del 1506. Nei mesi seguenti, Giovanni II avrebbe nuovamente tentato la via diplomatica per tornare a Bologna in veste privata, solo per rivedere la sua città: non ci riuscì, e finì i suoi giorni in esilio a Milano, nel 1508.
Quando Ercole de’ Roberti stava dipingendo il suo ritratto, Giovanni II non poteva però sapere tutto questo: all’epoca era ancora il giovane e splendido signore di una città che stava costruendo a propria immagine. Nel dipinto, il pittore ferrarese lo raffigura con aspetto altero. La pelle chiarissima, con solo qualche lieve arrossamento, contrasta nettamente con la tenda cupa, blu notte, alle sue spalle, con gli occhi color nocciola e coi capelli castani con riflessi ramati, lisci che sembrano appena piastrati, e pettinati secondo la zazzera che andava di moda all’epoca nell’Italia del nord. Il volto è reso vivo da una piega che parte dal naso e raggiunge l’angolo della bocca accentuando l’espressività del signore. Sul capo, un berretto rosso, addosso una tunica di prezioso tessuto damascato con foglie dorate su fondo marrone, e il collo foderato di tessuto grigio, che lascia intravedere una veste grigia e rossa. Sullo sfondo, come detto, la città di Bologna che si staglia contro un cielo cristallino, in lontananza le montagne sulle quali s’intravede una leggera foschia.
Più elaborato l’abbigliamento di Ginevra Sforza, che come il marito è dipinta dalla vita in su. Anche lei ha la pelle chiara, ancor più di quella del marito, i toni sono quelli dell’avorio, ma il suo viso è ravvivato dal rossore della guancia. Gli occhi marroni guardano davanti, lontano. Il profilo è quello di una nobildonna sicura di sé: naso piccolo, bocca color pesca serrata, fronte alta coperta da un velo trasparente, coi capelli biondi pettinati all’indietro, secondo la moda del tempo, e coperti a loro volta da un velo di seta traslucido che ricade sulle spalle. Un’acconciatura simile a quella che Barbara di Brandeburgo sfoggia nella Camera degli Sposi affrescata pochi anni prima da Andrea Mantegna a Mantova. Ginevra indossa un abito marrone rifinito con inserti di tessuto color senape, plissettato sul gomito, su cui sono cucite gemme preziose: s’alternano rubini, zaffiri e perle radunate a gruppi di quattro disposte a rombo. All’altezza del seno, una cintura di stoffa rosso scarlatto bordata di perle. Al collo, un doppio filo di perle. E come per il marito, anche nel suo caso la finestra lascia intravedere le torri della città.
Quella di Ercole de’ Roberti non è l’unica immagine nota di Giovanni II Bentivoglio, del quale conosciamo numerosi ritratti: è, effettivamente, uno dei signori del Rinascimento di cui si contano più raffigurazioni, anche se il dittico di Ercole de’ Roberti è probabilmente il dipinto più antico, o comunque quello che ce lo restituisce con l’aspetto più giovane. Non è neppure l’unica opera di Ercole de’ Roberti che lo raffiguri: a Bologna, a Palazzo Poggi, si conserva un noto ritratto di Giovanni II, databile al 1485 circa, che però al contrario del dittico di Washington ci è arrivato decisamente rovinato. Curiosamente, il ritratto di Palazzo Poggi fu attribuito a Ercole da Roberto Longhi, che lo fece anche ripulire a sue spese. E sempre Palazzo Poggi conserva una medaglia di Sperandio Savelli, con il ritratto di Giovanni II di profilo, coniata probabilmente non appena Giovanni II diventò gonfaloniere di giustizia. Ancora, Lorenzo Costa raffigurò Giovanni II in almeno tre occasioni: nella Pala Bentivoglio, oggi a Bologna in San Giacomo Maggiore, e poi all’interno della stessa chiesa negli affreschi della Cappella Bentivoglio assieme al figlio Annibale, e in un celebre ritratto custodito agli Uffizi, dove il signore è raffigurato all’età di cinquant’anni circa. Quanto a Ginevra, conosciamo anche per lei una medaglia, disegnata da Antonio Marescotti, anche lei ovviamente è raffigurata nella Pala Bentivoglio, né la sua effigie manca negli affreschi della cappella all’interno della chiesa di San Giacomo Maggiore.
Per il dittico oggi a Washington, Ercole de’ Roberti non poté non tener conto del precedente più illustre: il doppio ritratto di Federico da Montefeltro e di sua moglie Battista Sforza, capolavoro di Piero della Francesca oggi conservato agli Uffizi, che senza dubbio è stato il principale punto di riferimento per la sua coppia di ritratti (peraltro, Ginevra e Battista erano sorellastre). Le opere di Piero sono con tutta probabilità i più precoci esempi che si conoscano in Italia di ritratti ambientati su di un paesaggio ispirato da omologhi dipinti nordici, ed Ercole de’ Roberti non poté non tenerne conto, anche se qui raggiunge un alto grado di originalità. Innovativa è l’idea di sistemare i due signori davanti a una finestra parzialmente coperta da una tenda scura: “questa soluzione”, ha scritto Michele Danieli nel catalogo della mostra Rinascimento a Ferrara. Ercole de’ Roberti e Lorenzo Costa, la doppia monografica del 2023 dedicata ai due grandi pittori, “isola i profili purissimi, geometrici eppure vivi”, che mostrano una particolare abilità di Ercole, quella di sapere unire, come ha scritto nel 1966 Mario Salmi, “sublimi astrazioni stilistiche alla precisione dei caratteri umani”.
Era stato Roberto Longhi il primo ad attribuire i due dipinti a Ercole de’ Roberti, così come lui per primo aveva suggerito una datazione a ridosso del Polittico Griffoni, intorno al 1477, anche se in occasione della rassegna Rinascimento a Ferrara, che ha ulteriormente affermato la centralità del dittico nella produzione robertiana, si è proposto di anticiparla: “la critica”, spiega Danieli, “è concorde nel ravvisare l’influenza di Cossa e le somiglianze con la predella del polittico Griffoni, e proprio per questo motivo […] si ritiene che la cronologia debba essere leggermente più alta rispetto al 1475 circa, che comunemente si indica”. La proposta di anticipare la cronologia ritenuta sin qui più plausibile è motivata sia dalla vicinanza al polittico bolognese, sia dal fatto che proprio attorno al 1474 sono documentati i rapporti tra i Bentivoglio e i due artisti ferraresi. Inoltre, un altro riferimento per ancorare la datazione del dittico potrebbe essere la distrutta Pala di San Lazzaro, perduta durante la seconda guerra mondiale, quando si trovava a Berlino: è tra le rare opere di Ercole databili con un certo margine di sicurezza, e probabilmente fu dipinta tra il 1474 e il 1475, quando cioè i Canonici Regolari presero possesso della chiesa di San Lazzaro a Bologna ed evidentemente vollero ornarla con una pala degna di tale luogo. Conosciamo l’opera dalle foto, e sotto al trono della Vergine vediamo comparire, scrive ancora Danieli, “un paesaggio magnifico che supera la frammentazione della predella Griffoni e anche dei ritratti Bentivoglio”.
Longhi fondava la sua attribuzione a Ercole de’ Roberti, mai contestata, su una serie di elementi, primo tra tutti “l’indifferenza quasi astrale con cui il ritrattista ha visto i suoi modelli, poi la bella scienza nei passaggi dei piani e la frattura adamantina nelle pieghe della candida faldetta di Ginevra, tanto simile alle formazioni cristalline nel lembo volante della donna che accorre, disperata, al centro della predella vaticana”. E poi ancora, nel profilo di Ginevra, “l’insistente costruire in tondo, nella fronte, nelle orbite, persino nei capelli lisci e come arrotati”, oppure ancora “il paesaggio, qua e là bruscato dalle prime ombre scottanti, e la forma di Bologna, un po’ vera, e un po’ deformata”, non distante dalle fantasie architettoniche del mese di Settembre a Palazzo Schifanoia, o quelle della predella del Polittico Griffoni (la “predella vaticana” cui alludeva Longhi, essendo conservata alla Pinacoteca Vaticana, e anch’essa esposta alla mostra del 2023 di Palazzo dei Diamanti, per dar vita a un intenso confronto col dittico bentivolesco, assieme ad altri esempî altissimi della ritrattistica robertiana).
Nel doppio ritratto, Giovanni II Bentivoglio e Ginevra Sforza intendono presentarsi con un portamento e un abbigliamento che si confacciano al loro status: quello di primi cittadini di Bologna. Un dittico che è dunque un’immagine viva delle ambizioni della coppia, che all’epoca aveva già posto le premesse per un governo duraturo e lavorava per ottenere ancor più riconoscimenti: nel 1471 Giovanni aveva stretto un’importante alleanza militare con il ducato di Milano ottenendo anche la carica di capitano dell’esercito milanese, nel 1473 il papa Sisto IV aveva confermato al figlio Annibale il diritto di succedere al padre come capo del collegio dei Sedici riformatori (la più alta magistratura bolognese), e nel 1478 riusciva a combinare per Annibale il matrimonio con Lucrezia d’Este, figlia di Ercole duca di Ferrara. L’opera cadeva pertanto in un momento storico importante per la famiglia e per il potere personale di Giovanni II: sorprende, dunque, che della provenienza antica del dittico non si sappia alcunché.
Risale infatti soltanto al 1870 la prima notizia sui due ritratti: vengono acquistati quell’anno sul mercato italiano (ma sono ancora oscure le circostanze della compravendita) dal collezionista parigino Louis-Charles Timbal. Due anni dopo furono venduti a un altro collezionista, Gustave Dreyfus, e alla morte di quest’ultimo vennero posti sul mercato dai suoi eredi: fu così che nel 1930 l’intera collezione Dreyfus fu venduta alla Duveen Brothers, una delle più importanti gallerie commerciali del tempo, e infine nel 1936 i due dipinti furono acquistati dal collezionista americano Samuel H. Kress, e da allora sono rimasti nella sua raccolta (Longhi, scrivendo le sue considerazioni sul dittico nella sua Officina ferrarese del 1934, si rammaricava del fatto che lo Stato italiano non fosse ancora riuscito ad assicurarsi i due preziosi dipinti: e alla fine, purtroppo per l’Italia, hanno preso la via degli Stati Uniti). Secondo Michele Danieli, è possibile che i due ritratti provengano dal sontuoso palazzo in cui i Bentivoglio risiedevano prima di andare in esilio nel 1506, e che si trovava nella zona delle odierne via Zamboni e via delle Belle Arti, nel sito dove oggi sorge il Teatro Comunale di Bologna: la dimora bentivolesca fu saccheggiata e rasa al suolo nel 1507 dai bolognesi sobillati dai Marescotti, che intendevano cancellare il ricordo dei Bentivoglio dalla città. L’episodio della distruzione per damnatio memoriae del palazzo è nota come il “Guasto dei Bentivoglio”, e un paio di odonimi in zona (Via del Guasto e il Giardino del Guasto, che sorge sul luogo dove in antico si trovava il giardino del palazzo) ricordano la zona su cui sorgeva l’edificio. In un inventario del Settecento, reso noto nel 1988, sono citati due ritratti dei signori all’Università di Bologna, ma non è possibile sapere se si tratta delle due opere oggi a Washington. È stata poi definitivamente scartata l’ipotesi secondo cui i due dipinti affiancavano in antico la Madonna del Baraccano, opera che si trova nell’omonima chiesa bolognese, eseguita forse all’inizio del Quattrocento e poi restaurata da Francesco del Cossa negli anni della signoria bentivolesca: nella Bologna perlustrata di Antonio Masini, pubblicata nel 1666, si parla effettivamente di due ritratti che accompagnano l’effigie sacra, ma l’autore alludeva ai ritratti dei committenti presenti nell’affresco.
Non sappiamo, insomma, dove fossero in antico i due dipinti, né in quale occasione furono eseguiti, e ci è del tutto sconosciuta la più parte della loro storia antica. Su un aspetto, tuttavia, non ci sono dubbî: come ha scritto Roberto Longhi, “è codesto, senza fallo, dopo quel di Piero, il più bel ritratto a dittico di tutto il ’400 italiano”.
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ISCRIVITI ALLA NEWSLETTERGli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta
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