Tracey Emin è senza dubbio una delle artiste più influenti e controverse del panorama contemporaneo, capace di trasformare la propria vita in arte con un linguaggio crudo, diretto e profondamente emozionale. Nata a Croydon, in Inghilterra, nel 1963 e cresciuta nella cittadina costiera di Margate, Emin ha saputo canalizzare esperienze personali – spesso dolorose – in opere che spaziano tra pittura, scultura, installazioni, video e neon. Molte di queste sono esposte alla mostra Tracey Emin. Sex and solitude, a Firenze, Palazzo Strozzi, dal 16 marzo al 20 luglio 2025, la più grande mostra mai realizzata in Italia sull’artista.
La sua pratica artistica è intrinsecamente autobiografica: temi come il corpo, la sessualità, l’amore, la solitudine e il trauma emergono con forza in ogni suo lavoro. Emin non rappresenta semplicemente eventi specifici della sua vita, ma trasforma emozioni universali come passione e malinconia in potenti metafore visive. La carriera di Tracey Emin è costellata di opere celebri che hanno segnato l’arte degli anni recenti. Dai ricami intimi all’uso del neon per frasi che riproducono la sua scrittura manuale, fino alle sculture monumentali in bronzo, ogni pezzo racconta una storia personale che diventa universale. Emin è stata anche una figura centrale del movimento dei Young British Artists (YBA), distinguendosi per il suo approccio innovativo e provocatorio. Con un dialogo costante tra vulnerabilità e forza, la sua arte esplora i limiti della figurazione e dell’astrazione, ponendosi in relazione con maestri come Edvard Munch ed Egon Schiele.
Ecco dieci cose da sapere su Tracey Emin per comprendere meglio il suo universo artistico.
Tracey Karima Emin nasce il 13 luglio 1963 a Croydon da padre turco-cipriota e madre inglese di origine romnichal, gruppo rom stanziatosi nel Regno Unito a partire dal XVI secolo. Cresce a Margate, una cittadina costiera del Kent, dove vive un’infanzia segnata da difficoltà economiche e traumi personali. Margate, con le sue spiagge battute dal vento e il suo fascino decadente, lascia un’impronta indelebile nell’immaginario dell’artista. A tredici anni subisce un’esperienza di violenza sessuale che influenzerà profondamente la sua arte. Questo evento traumatico diventa una delle chiavi interpretative della sua produzione artistica: il corpo femminile ferito ma resiliente emerge come tema centrale nelle sue opere.
A quindici anni Tracey scappa di casa, iniziando un percorso di vita segnato da ribellione e autodeterminazione. La fuga rappresenta non solo una rottura con l’ambiente familiare ma anche un primo passo verso la costruzione della propria identità artistica. Margate rimane comunque un luogo simbolico per Emin: anni dopo vi tornerà per aprire i TKE Studios, uno spazio dedicato agli artisti emergenti. Questo legame profondo con le sue radici dimostra come l’infanzia turbolenta non sia stata solo fonte di sofferenza ma anche di ispirazione creativa.
La formazione artistica di Tracey Emin è caratterizzata da un percorso non lineare ma estremamente ricco di esperienze. Dopo aver inizialmente studiato moda al Medway College of Design, abbandona questo ambito per dedicarsi all’arte visiva presso la Sir John Cass School of Art. Successivamente si diploma in Belle Arti al Maidstone College of Art e prosegue gli studi al prestigioso Royal College of Art di Londra, dove si specializza in pittura nel 1989 con una tesi dedicata al suo idolo Edvard Munch.
Tuttavia, la carriera pittorica di Emin subisce una brusca interruzione negli anni Novanta a causa di due aborti traumatici che segnano profondamente la sua vita personale e artistica. L’artista decide allora di distruggere gran parte delle sue opere pittoriche precedenti e abbandona temporaneamente questo medium per esplorare altre forme espressive come il ricamo, le installazioni e i video. Questa fase rappresenta un momento cruciale nella sua evoluzione creativa: l’abbandono della pittura non è una rinuncia definitiva ma piuttosto una pausa necessaria per rielaborare il proprio linguaggio artistico.
Durante questo periodo Emin realizza opere emblematiche come Everyone I Have Ever Slept With 1963–1995, una tenda ricamata con i nomi delle persone con cui aveva condiviso il letto (in senso sia letterale che metaforico). Quest’opera segna l’inizio della sua fama internazionale e dimostra come l’artista sia capace di trasformare esperienze intime in potenti dichiarazioni artistiche.
L’opera Everyone I Have Ever Slept With 1963-1995 è una delle creazioni più discusse e significative di Tracey Emin, un lavoro che incarna la sua estetica autobiografica e la sua capacità di trasformare l’intimità personale in arte. Realizzata nel 1995, l’opera consisteva in una tenda da campeggio di colore blu, acquistata in un negozio di articoli militari, sulla quale Emin aveva cucito con la tecnica dell’appliqué i nomi di tutte le persone con cui aveva condiviso un letto dalla sua nascita fino a quel momento. È importante sottolineare che il titolo dell’opera è spesso frainteso: “slept with” non si riferisce esclusivamente a rapporti sessuali, ma include chiunque abbia semplicemente dormito nello stesso letto con lei, inclusi familiari, amici e amanti.
La tenda, quindi, diventava un luogo simbolico, una sorta di santuario intimo che racchiudeva i ricordi e le relazioni dell’artista. I nomi erano cuciti con fili colorati diversi, creando un patchwork visivo che rifletteva la complessità e la varietà delle sue esperienze. L’interno della tenda era illuminato, invitando lo spettatore a entrare fisicamente nello spazio e a confrontarsi con la storia personale di Emin. L’opera sollevava interrogativi sul concetto di intimità, sulla sessualità femminile e sulla relazione tra arte e vita.
La scelta di utilizzare una tenda da campeggio non era casuale: la tenda è un luogo di rifugio temporaneo, un riparo dalla realtà esterna. Allo stesso modo, l’opera di Emin offriva uno sguardo intimo sulla sua vita, rivelando vulnerabilità e fragilità. La tenda, inoltre, evoca l’idea di nomadismo e di viaggio, suggerendo un percorso esistenziale in continua evoluzione.
Purtroppo, Everyone I Have Ever Slept With 1963-1995 andò distrutta in un incendio nel 2004, quando un magazzino a Londra in cui era conservata prese fuoco. La perdita dell’opera fu un duro colpo per Emin, che considerava la tenda un pezzo fondamentale della sua storia personale e artistica. Nonostante la sua distruzione, e nonostante Emin abbia più volte dichiarato di non essere intenzionata a rifarla, l’opera continua a vivere nell’immaginario collettivo come un simbolo della sua arte.
Nel 1998 Tracey Emin presenta My Bed, forse l’opera più celebre della sua carriera. Si tratta di una rappresentazione senza filtri del letto dell’artista durante un periodo particolarmente difficile della sua vita, caratterizzato da depressione e abuso di alcol. L’opera include lenzuola macchiate, bottiglie vuote, pacchetti di sigarette e oggetti personali come biancheria intima sporca – dettagli che raccontano una storia di vulnerabilità umana con una sincerità disarmante. Esibita alla Tate Gallery nel 1999 come candidata al Turner Prize, My Bed suscita reazioni contrastanti: da un lato viene lodata per la sua autenticità emotiva; dall’altro viene criticata da chi non la considera “arte”. Nonostante le polemiche, l’opera consacra Tracey Emin come una delle voci più originali dell’arte contemporanea.
Tuttavia, My Bed non è solo un’opera autobiografica: rappresenta anche una riflessione universale sulla condizione umana. Il letto diventa metafora del luogo dove si consumano momenti cruciali della vita – nascita, morte, amore e sofferenza – trasformandosi in un simbolo potente dell’esistenza stessa.
Uno degli elementi distintivi della pratica artistica di Tracey Emin è l’utilizzo del neon per creare opere testuali che riproducono la sua scrittura manuale. Questo medium le permette di trasformare pensieri intimi in dichiarazioni visive potenti ed evocative. Le frasi al neon sono spesso brevi ma cariche di significato emotivo: I Never Stopped Loving You del 2010, dedicata alla cittadina di Margate, o Those Who Suffer LOVE del 2009 sono esempi emblematici, e lo stesso vale per Sex and Solitude, creata per la mostra di Firenze a Palazzo Strozzi (2025).
Il neon rappresenta per Emin un mezzo espressivo capace di combinare fragilità e forza: le luci brillanti attirano lo sguardo dello spettatore mentre le parole rivelano verità dolorose o intime confessioni. Inoltre, l’uso della scrittura manuale conferisce alle opere un carattere personale che contrasta con la freddezza tecnologica del materiale. Le frasi al neon non sono mai semplici slogan ma frammenti poetici che invitano lo spettatore a riflettere sulla propria esperienza emotiva. In questo senso, il neon diventa uno strumento per creare connessioni profonde tra l’artista e il pubblico. “Sono cresciuta circondata da neon: erano ovunque a Margate”, ha detto Tracey Emin. “Oggi lì ne sono rimasti pochi, ma nel resto del mondo sono tantissimi. Io ho iniziato a farli perché volevo vederne di più in giro. E sai com’è, bisogna stare attenti ai propri desideri. Il vero neon contiene gas come argon e neon appunto, che hanno un effetto positivo sull’umore perché irradiano energia. Ecco perché erano usati nei casinò, nei bordelli, nei bar, nei club, eccetera. Il neon è luce ed energia pulsante, è una cosa viva, e questo mi fa sentire bene. Il neon, come oggetto, è semplicemente bello e ti fa sentire bene. Ecco perché li ho fatti e continuo a farli”.
Tracey Emin ha sempre dichiarato una profonda ammirazione per artisti come Edvard Munch ed Egon Schiele, dai quali trae ispirazione sia sul piano tecnico che tematico. Come loro, anche Emin esplora temi legati alla vulnerabilità umana attraverso rappresentazioni intense del corpo e delle emozioni.
Nel 1990, la sua tesi per il Royal College of Art di Londra s’intitolava My Man Munch. A Munch ha poi dedicato nel 1998 un video-omaggio intitolato Homage to Edvard Munch and all my dead children, realizzato sul fiordo di Oslo: nel video, Tracey Emin, nuda e in posizione fetale sul molo che si trova nei pressi della casa di Munch, sollevava la testa emettendo un urlo di gola, lamento per i suoi figli mai nati, e risposta all’Urlo di Munch. Ancora, nel 2021 ha realizzato la scultura The Mother per il nuovo Munchmuseet di Oslo, per rendere omaggio alla madre sua e a quella di Munch. Nel 2015 l’artista ha curato una mostra al Leopold Museum di Vienna intitolata Tracey Emin | Egon Schiele: Where I Want to Go, creando un dialogo tra le sue opere e quelle del maestro austriaco. Questi progetti dimostrano quanto Emin si consideri parte integrante di una tradizione artistica che mette al centro l’esperienza umana nella sua complessità emotiva.
“Quando frequentavo il Royal College of Art”, ha ricordato in una intervista ad Arturo Galansino, “di solito prendevo un autobus da Elephant and Castle fino a Westminster e da lì con la metro arrivavo a South Kensington. A volte però restavo sull’autobus e scendevo alla National Gallery. Appena entrata, andavo subito al piano di sotto e lì disegnavo le icone o semplicemente mi guardavo intorno e prendevo appunti. Credo di averlo fatto un paio di volte a settimana per due anni, ed è a questo che devo la mia conoscenza della pittura e della storia dell’arte. Tutto quello che sapevo prima di allora era legato all’Espressionismo e all’arte europea di prima della guerra; all’improvviso ero stata catapultata in un altro mondo, avevo capito i classici e le loro idee. Era come un’espansione della mente. Quindi Munch era pre-National Gallery mentre la pittura rinascimentale e quella classica sono arrivate attraverso la National Gallery. E le ho imparate da sola, perché non ho mai veramente studiato storia dell’arte, ho solo approfondito l’arte che mi piaceva”.
Nel 1996 Tracey Emin ha realizzato una delle sue opere più significative, Exorcism of the Last Painting I Ever Made (“Esorcismo dell’ultimo dipinto che abbia mai fatto”). Questa performance rappresenta un momento di svolta nella sua carriera, segnando il ritorno alla pittura dopo anni di abbandono. L’opera consiste in una performance durata tre settimane e mezzo, durante le quali l’artista vive e lavora nuda in uno studio temporaneo allestito come un’installazione. Lo spazio è accessibile al pubblico, che può osservare Emin mentre crea disegni e dipinti ispirati a grandi figure maschili dell’arte come Egon Schiele, Yves Klein e Pablo Picasso.
La nudità di Emin non è solo fisica ma anche emotiva: l’artista si espone completamente, trasformando il proprio corpo in soggetto e oggetto dell’opera. Questo atto sovverte il ruolo tradizionale della donna nell’arte, storicamente relegata a musa o modella passiva. Emin diventa invece protagonista attiva della sua narrazione artistica, esorcizzando i demoni personali e le convenzioni culturali che limitano la rappresentazione femminile.
L’installazione documenta non solo il processo creativo ma anche un momento di introspezione radicale. L’artista utilizza la pittura come mezzo per riconnettersi con sé stessa e con il proprio passato, trasformando un’esperienza intima in una riflessione universale sul ruolo dell’arte come strumento di guarigione e autoaffermazione. Quest’opera rimane una pietra miliare nella sua carriera e un esempio potente della capacità di Emin di intrecciare vita e arte in modo indissolubile.
La pittura occupa un posto centrale nella poliedrica produzione artistica di Tracey Emin, e rappresenta uno dei mezzi espressivi attraverso cui l’artista esplora i temi a lei più cari: il corpo, la sessualità, l’amore, la solitudine e il dolore. Sebbene Emin sia nota anche per le sue installazioni, i ricami e i neon, la pittura rimane un’ancora fondamentale nella sua pratica, un luogo dove l’artista può dare libero sfogo alle proprie emozioni e trasformare esperienze personali in immagini potenti e evocative. “Per me”, ha detto l’artista, “la pittura riguarda l’essenza stessa della creatività, è vicina al divino, è un mondo a parte, è come entrare in un’altra dimensione, un altro spazio, qualcosa che non è umano”.
La pittura di Emin è caratterizzata da un approccio istintivo e gestuale. L’artista lavora direttamente sulla tela, senza disegni preparatori, lasciando emergere forme e figure in modo spontaneo. Le pennellate sono rapide ed energiche, le colature di colore creano effetti di movimento e di instabilità, i segni lasciati dal gesto pittorico testimoniano il processo creativo. Questo approccio riflette la sua volontà di catturare l’immediatezza delle emozioni e di tradurle in immagini visive. Le sue tele sono spesso segnate da una forte materialità: strati di colore sovrapposti creano spessore e texture, le superfici sono irregolari e imperfette. Questa predilezione per la materia riflette l’interesse di Emin per il corpo umano, rappresentato in modo crudo e realistico, con tutte le sue imperfezioni e vulnerabilità.
Figurazione e astrazione si fondono nelle sue opere, creando un equilibrio dinamico tra rappresentazione e suggestione. A volte le figure emergono chiaramente dalla tela, altre volte si dissolvono in un vortice di colore. L’artista riesce così a evocare emozioni complesse e ambigue, lasciando allo spettatore la libertà di interpretare l’opera. Anche i colori assuomono un ruolo fondamentale nella pittura di Emin. L’artista utilizza cromie audaci e contrastanti, creando atmosfere intense e vibranti. Il rosso, il nero, il blu e il bianco sono i colori predominanti nelle sue tele, spesso utilizzati per esprimere passione, dolore, rabbia e malinconia. Tra le opere più significative della sua produzione pittorica, si possono citare Hurt Heart (2015), It was all too Much (2018), It - didnt stop - I didnt stop (2019), There was blood (2022), Not Fuckable (2024) e I waited so Long (2022). Questi dipinti testimoniano la capacità di Emin di creare un linguaggio visivo potente e personale, capace di toccare le corde più profonde dell’animo umano
L’amore è uno dei temi più ricorrenti nell’opera di Tracey Emin, esplorato nelle sue molteplici sfaccettature: desiderio, romanticismo, perdita, dolore, sessualità. Per Emin, l’amore non è mai rappresentato in modo idealizzato ma sempre nella sua complessità emotiva, spesso intrecciato con esperienze personali dolorose. Opere come I Want My Time With You (2017), installata nella stazione ferroviaria londinese St Pancras International, traducono l’intensità emotiva dell’amore in dichiarazioni visive potenti. Questa scultura al neon si trova in un luogo simbolico per incontri e addii quotidiani, amplificando il significato universale del messaggio.
Anche i ricami di Emin affrontano il tema dell’amore con una delicatezza che contrasta con l’intensità delle emozioni rappresentate. Opere come No Distance (2016) utilizzano materiali tradizionalmente associati all’artigianato femminile per esplorare sentimenti profondamente personali. In questo modo l’artista sovverte le convenzioni culturali legate ai ruoli di genere, trasformando tecniche “domestiche” in potenti strumenti espressivi.
L’amore emerge anche nelle sculture monumentali in bronzo realizzate da Emin negli ultimi anni. Queste opere combinano vulnerabilità ed erotismo per esplorare il corpo umano come luogo di connessione emotiva e fisica. Attraverso queste diverse forme espressive, Emin riesce a catturare l’essenza dell’amore nelle sue molteplici contraddizioni: gioia e sofferenza, intimità e distanza.
Tracey Emin è oggi riconosciuta come una delle artiste più influenti del panorama contemporaneo, ma il suo percorso verso il successo internazionale non è stato privo di ostacoli. Dopo aver raggiunto la notorietà negli anni Novanta grazie alla sua partecipazione al movimento dei Young British Artists (YBA), Emin ha continuato a evolversi artisticamente, guadagnandosi un posto di rilievo nel mondo dell’arte globale. Nel 1999 la sua opera My Bed viene candidata al Turner Prize: sebbene non vinca, l’opera suscita un enorme dibattito mediatico che contribuisce a consolidare la sua fama. Nel 2007 Emin rappresenta la Gran Bretagna alla Biennale di Venezia con la mostra Borrowed Light: questo evento segna il riconoscimento ufficiale del suo contributo all’arte contemporanea da parte delle istituzioni britanniche. Negli anni successivi, Emin riceve numerosi premi e onorificenze. Nel 2011 viene nominata Professor of Drawing presso la Royal Academy of Arts, diventando la seconda donna a ricoprire questo ruolo nella storia dell’istituto. Il suo lavoro è stato esposto in alcune delle istituzioni più prestigiose al mondo, tra cui il MoMA di New York, il Louvre di Parigi e il Munch Museum di Oslo. Nonostante il successo globale, Emin rimane profondamente legata alle sue radici britanniche, continuando a lavorare tra Londra e Margate.
L’artista inglese si pone dunque come una figura simbolica nella lotta per l’affermazione delle donne nell’arte contemporanea. Fin dagli inizi della sua carriera ha sfidato le convenzioni tradizionali che relegano le artiste donne a ruoli secondari o marginalizzati. Attraverso opere che intrecciano autobiografia e confessione personale, Emin diventa protagonista attiva della propria narrazione artistica. Inoltre, è anche un’artista impegnata. Nel 2022 Tracey Emin ha infatti inaugurato i Tracey Karima Emin Studios (TKE Studios) a Margate, un progetto ambizioso che riflette il suo impegno nel sostenere le nuove generazioni di artisti. Gli studi offrono residenze gratuite ad artisti emergenti selezionati attraverso un rigoroso processo di candidatura. Questo spazio non è solo un luogo fisico ma anche una comunità creativa dove gli artisti possono sviluppare le loro idee in un ambiente stimolante e collaborativo.
Il progetto include anche la Tracey Emin Artist Residency (TEAR), un programma gratuito che offre formazione pratica e supporto professionale agli artisti partecipanti. Questa iniziativa dimostra l’impegno di Emin nel restituire qualcosa al mondo dell’arte che tanto le ha dato. Per l’artista, TKE Studios rappresenta una sorta di ritorno alle origini: Margate non è solo il luogo della sua infanzia ma anche una fonte inesauribile di ispirazione. Oltre agli studi d’artista, TKE Studios ospita mostre ed eventi aperti al pubblico, creando un ponte tra gli artisti emergenti e la comunità locale. Questo progetto sottolinea l’importanza dell’accessibilità nell’arte e riflette la visione di Emin come artista impegnata socialmente.
“L’arte”, sostiene Tracey Emin, “dovrebbe sempre riguardare ciò che è vero per te come individuo, sempre. Dovrebbe essere sincera e nascere da un desiderio genuino di trovare le proprie risposte. Almeno, per me è così. Per molto tempo il mio lavoro è stato assolutamente fuori moda. Ma non m’importava, perché sapevo che era la cosa giusta per me”.
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