È ormai riconosciuto il ruolo della Deposizione del Pontormo (Jacopo Carucci; Pontorme di Empoli, 1494 - Firenze, 1557) come capolavoro fondante di quel periodo storico che nella manualistica è detto “Manierismo”, malgrado l’opera possa esser letta anche (e forse soprattutto) come un capitolo a sé, come frutto dell’ingegno di un artista che, pur essendo figlio del suo tempo, non è incasellabile ed è oltremodo difficile da categorizzare. Il dipinto, commissionato allo stravagante artista empolese nel 1525 dal banchiere Ludovico Capponi per la cappella di famiglia, appena acquistata, nella chiesa di Santa Felicita a Firenze, era pronto nel 1528, quando raggiunse la cappella Capponi che fu ulteriormente decorata dall’artista con un Dio Padre nella cupoletta (oggi perduto), e con i tondi dei quattro evangelisti, realizzati assieme al Bronzino, nei pennacchi (per quanto possiamo ricostruire su basi stilistiche, il Pontormo si occupò del San Giovanni e lasciò gli altri al giovanissimo allievo).
Ancora oggi vediamo la Deposizione nella sede per cui fu pensata, e peraltro entro la cornice originale, fine lavoro di Baccio d’Agnolo. Racconta Giorgio Vasari che, durante le fasi della lavorazione, il Pontormo volle che nessuno, per nessuna ragione, vedesse il dipinto. Neanche al committente fu permesso di sbirciare l’opera mentre prendeva forma. E così, “avendola fatta a suo modo, senza che niuno de’ suoi amici l’avesse potuto d’alcuna cosa avvertire”, scrive Vasari, “ella fu finalmente con maraviglia di tutto Firenze scoperta e veduta”. Il giudizio di Vasari non era positivo: per “maraviglia” intendeva un sentimento più simile allo sconcerto che alla piacevole sorpresa.
E possiamo davvero immaginare la meraviglia dei fiorentini dinnanzi a un’opera che sovvertiva tutti gli schemi, in netto contrasto con la tradizione, che negava ogni norma di misura e di equilibrio. Nella composizione del Pontormo manca, anzitutto, qualunque riferimento spaziale: non c’è paesaggio, nella Deposizione della cappella Capponi, ma ci sono soltanto figure che occupano ogni porzione libera della superficie della tavola, fatta eccezione per un minuscolo brano di cielo a sinistra dove s’osserva una nuvola. I personaggi appaiono leggeri, evanescenti, sembrano quasi volare nello spazio. Lo sguardo dell’osservatore si concentra sul commiato della Vergine, che vediamo sulla destra mentre muove la mano verso il figlio sorretto da due giovani, forse due angeli, per salutarlo un’ultima volta. Sopra di lei, la figura di san Giovanni dolente, che allarga le braccia in segno di disperazione. Di fianco, al culmine di questa piramide umana, sta una donna di non facile identificazione, ritta in piedi, che guarda verso il basso: anche per lei non è chiaro dove stia poggiando i piedi. Il corpo esanime di Gesù viene trasportato, come detto, da due giovani, che lo tengono in modo innaturale. Si guardi per esempio quello in basso accovacciato: è raffigurato dal Pontormo in una posa del tutto irreale, in equilibrio sulle dita dei piedi, senza che la pianta poggi per terra, sfidando tutte le leggi della fisica. Completano la raffigurazione altre quattro donne: una di loro, a sinistra, si sta chinando quasi a voler aiutare gli angeli a trasportare Gesù verso il sepolcro, e con le sue mani accarezza delicatamente il volto di Cristo, e al tempo stesso lo sorregge per evitare che la testa cada all’indietro. Un’altra è girata di spalle sotto la mano della Madonna, un’altra ancora è invece voltata verso di lei, e la osserva con uno sguardo carico di angoscia. Infine, la quarta, presumibilmente la Maddalena, volta le spalle al riguardante, girandosi verso Maria, con un fazzoletto di lino in mano per asciugarle le lacrime, così che vediamo soltanto la sua nuca bionda. Sul lato destro, un uomo biondo, con la barba, guarda verso di noi: è Nicodemo, e nel suo volto sono state riconosciute le fattezze del Pontormo, che dunque con tutta probabilità ha lasciato un suo autoritratto nella Deposizione, individuato per primo da Luciano Berti nel 1956. Le vesti, quasi fossero sottili guaine, aderiscono perfettamente ai corpi lasciando intravedere le forme, i colori sono tenui, pallidi: prevalgono i rosa, gli azzurrini, i verdi, i gialli sbiaditi. Il chiroscuro è ridotto al minimo, e di conseguenza è ridotta anche la nostra percezione dei volumi. È quel “colorito chiaro e tanto unito” di cui parlava Vasari, “che a pena si conosce il lume dal mezzo et il mezzo da gli scuri”. Solo la veste della Maddalena si solleva, mossa da un filo di vento.
Si deve la riscoperta di questo dipinto, e del Pontormo in generale, a uno storico dell’arte americano, Frederick Mortimer Clapp (New York, 1879 - 1969), che risollevò l’artista dall’oblio che per secoli lo aveva condannato. Per Clapp, la scoperta della Deposizione fu una sorta di rivelazione: “quando una mattina, alcuni anni fa, andai nella chiesa di Santa Felicita”, scrive Clapp nel suo libro Jacopo Carucci da Pontormo del 1916, “non sapevo che stavo compiendo il primo passo in una missione che da allora avrebbe occupato tutto il mio tempo. Era autunno, e immaginavo (così credo di ricordare) che in un giorno di sole avrei avuto la possibilità di osservare una pala d’altare che avevo spesso scrutato invano nell’oscurità della cappella Capponi. Non mi sbagliavo. La luce, che scendeva in obliquo dalle finestre superiori della navata, piombava anche negli angoli più cupi e, in quello splendore fugace, per la prima volta vidi davvero la Deposizione del Pontormo. Fu un momento d’inaspettata rivelazione. Mentre studiavo il quadro con stupore e diletto, diventavo consapevole non solo della sua bellezza, ma anche della cecità con cui avevo sempre accettato il pregiudizio di coloro per i quali Andrea del Sarto era l’ultimo grande artista fiorentino e i suoi contemporanei più giovani erano artisti più facili benché eclettici, e la loro produzione si poteva riassumere negli affreschi di Vasari a Palazzo Vecchio. Avevo scoperto Pontormo. Poco a poco mi feci strada nell’oblio nel quale era caduto, e diventò per me una persona vivente”. Grazie al contributo di Clapp, che dedicò approfonditi studi al Pontormo, il grande artista di Empoli poté andare incontro a un processo di riscatto e rivalutazione (e lo stesso XX secolo scoprì il Pontormo: si pensi al tableau vivant di Pasolini ne La ricotta, o alla riflessione sulla Visitazione di Bill Viola), e poteva finalmente riconoscergli il posto che gli spettava nella storia dell’arte.
La Deposizione del Pontormo segna un netto distacco nei riguardi della tradizione, dove per tradizione occorre intendere, come ha scritto Gigetta Dalli Regoli, non “questo o quell’artista”, bensì “certe modalità di costruzione dell’immagine largamente condivise in passato e quindi divenute sistema codificato”. È palese che l’allucinata pala della cappella Capponi sia situata a una netta distanza dalle esperienze che l’avevano preceduta: le figure, allungate, si ammassano senza che si comprendano con chiarezza i riferimenti spaziali; i corpi, complice anche l’assenza pressoché totale di chiaroscuro già notata da Vasari, assumono un’inusitata leggerezza, quasi che il Pontormo voglia sfidare la natura stessa; gli stessi colori acidi, lividi e tenui s’allontanano da qualsivoglia tentativo di verisimiglianza conferendo ai personaggi un aspetto ulteriormente irreale. Pontormo introdusse poi ulteriori novità che sarebbero divenute, a partire dagli anni Trenta, una costante nella sua arte: “il marcato avvicinamento dell’immagine all’osservatore”, scrive Dalli Regoli, “la rinuncia a impalcature di sostegno, a forme di riquadratura, talora perfino al piano di posa, l’indifferenza di fronte al problema dell’identificazione del tema”, con il risultato che ne deriva “una ossessiva concentrazione sulla figura umana, vista sia come corpo, cioè come struttura da flettere, dilatare e comprimere (cioè ri-creare) entro uno spazio dato, e come groviglio di emozioni e di sentimenti inestricabilmente collegati alla fisicità dei personaggi”. Un altro degli elementi spesso sottolineati dalla critica sono proprio le sensazioni sui volti dei personaggi: esprimono stupore, sgomento, incredulità, spiazzamento, paura. E questo pathos è accresciuto dall’inconsistenza dei corpi, dall’assenza di riferimenti, dal senso di artificiosa astrattezza che la composizione comunica: è come se Pontormo negasse i valori del Rinascimento.
Argan aveva dichiarato che l’arte del Pontormo (e quella del Rosso Fiorentino) è “anticonformismo puro”, è un’arte che stabilisce che “la vita stessa è problema, un problema la cui soluzione è al di là della vita stessa, nella morte”. Un’arte inquieta, tormentata, alimentata anche dal sentimento d’alienazione provato in prima persona dal Pontormo, un “cervello” bizzarro e stravagante come l’aveva appellato lo stesso Vasari (e il ricorso alla metonimia del cervello è indicativo di come l’arte del Pontormo sia anzitutto un prodotto puramente mentale). Quali erano le basi su cui Pontormo aveva potuto costruire quest’immagine così innovativa e radicale? Quali le fonti dalle quali aveva attinto?
Il primo e più diretto riferimento è alla Pietà vaticana di Michelangelo Buonarroti (Caprese, 1475 - Roma, 1564), come già notava Leo Steinberg che, in un suo saggio pubblicato su The Art Bulletin nel 1974, poneva a confronto il corpo di Cristo trasportato dai due angeli nella Deposizione di Michelangelo con quello della Pietà, rilevando peraltro un dettaglio non trascurabile, ovvero il cambio di dedicazione della cappella Capponi voluto da Ludovico, che la trasferì dall’Annunciazione alla Pietà, tema più congeniale alla destinazione funeraria dell’ambiente, che doveva essere luogo di sepoltura della famiglia. “L’allusione nella pala è precisa e specifica”, scrive Steinberg: “Pontormo stava evocando il gruppo marmoreo di Michelangelo in san Pietro. Solo la figura di Cristo di Michelangelo anticipa la torsione del Cristo di Pontormo. Il sinuoso arabesco che il corpo morto descrive nel marmo di Michelangelo è, come in Pontormo, una curva tridimensionale, che si flette sia all’altezza dell’inguine che all’altezza del petto e, allo stesso tempo, si piega per abbracciare la Vergine, così che il fianco destro, quello ferito, si inarchi pienamente”. Il riferimento a Michelangelo, secondo Steinberg, non è solo una questione formale (peraltro si noterà come anche i colori rimandino al Michelangelo della volta della Cappella Sistina): Pontormo, con la sua Deposizione, ha inteso creare una sorta di “Pietà separata”, ha voluto condensare in un’unica immagine il momento del trasporto di Cristo verso il sepolcro e del lutto della Vergine. Un’intenzione ulteriormente esplicitata dal disegno preparatorio conservato a Oxford, dove nello spazio riservato alla nuvola nella redazione finale notiamo invece una scala, che evoca la Deposizione, a inserire un altro momento della narrazione, per costruire una storia divisa in tre momenti (la Deposizione, la Pietà e la Separazione). Le ragioni dell’inserimento della nuvola, secondo Steinberg, riposano su di un cambio di idea dell’artista: “nella sua realizzazione finale, avrebbe comunque simboleggiato un evento in tre fasi, ma con un cambiamento tematico che colloca la rimozione del corpo morto non nella fase finale, ma nel mezzo dell’azione” (la luce dorata che investe la nuvola prefigura infatti il momento successivo alla morte di Cristo). Il tema della “Pietà separata” troverebbe poi ulteriore corrispondenza nei volti dei personaggi, che fanno riecheggiare il dolore della madre di Cristo.
John Shearman ha invece insistito sulla possibile dipendenza della Deposizione nei confronti dell’omologo dipinto di Raffaello, la Deposizione eseguita per la chiesa di San Francesco al Prato a Perugia e oggi alla Galleria Borghese di Roma. Se la pala di Raffaello può esser letta come un Trasporto di Cristo al sepolcro, lo stesso potrebbe dirsi per la pala del Pontormo: dice Shearman che è “fuor di dubbio” che l’artista empolese conoscesse il precedente raffaellesco, dal momento che lo stesso Pontormo ne trasse un disegno. L’opera del Pontormo costituiva “un rinnovamento straordinariamente ricco d’immaginazione della tradizione tipologica cui apparteneva”, scrive Shearman, “vivificato proprio dal nuovo ricorso a quei rilievi classici che erano stati assimilati nel suo immediato modello, la pala di Raffaello del 1507”. Lo studioso nota che un’altra novità introdotta da Pontormo sta nel fatto che, nonostante sia lui che Raffaello abbiano deciso di situare “lo spettatore nel campo dell’azione”, lo spettatore della Deposizione di Santa Felicita “si trova collocato nello spazio in cui di lì a poco uno dei due gruppi si sposterà per deporre il corpo nella tomba”. Ovvero, nello spazio dell’altare, “dove il sacrificio si ripete ad ogni celebrazione della messa”. Nel quadro del Pontormo è “chiaro che si sta portando Cristo in una tomba posta nello spazio dello spettatore, ma resta in sospeso se Egli prenderà il posto dell’eucarestia sull’altare, o se dobbiamo immaginare la vera camera sepolcrale come sua destinazione”. La probabile assenza della figura di Giuseppe di Arimatea nel dipinto si spiegherebbe così col fatto che si trova al di qua della tavola, nello spazio della camera sepolcrale, dove Cristo sta per essere deposto. Molti si sono infatti posti il problema dell’identificazione dei due portatori di Cristo, sopra descritti come probabili angeli: il loro aspetto giovanile e androgino cozza infatti con le tradizionali descrizioni di Nicodemo e di Giuseppe d’Arimatea.
Quella che Shearman chiama “osmosi fra lo spazio del quadro e quello reale” ha fornito le basi per un’interpretazione, quella di Antonio Natali, che individua l’offerta del corpo di Cristo come panis angelicus, “pane degli angeli”, che richiama il sacramento dell’Eucarestia. Si tratta di una lettura che pone la Deposizione in linea con opere come la pala di Luco di Andrea del Sarto, in cui si possono leggere simili meditazioni: “la grazia redentrice del Cristo che, deposto dagli angeli sull’altare quale viva offerta di carne e sangue destinata a rinnovarsi quotidianamente nel sacrificio eucaristico”, ha scritto Andrea Baldinotti riflettendo sull’ipotesi di Natali, “operava il completamento della promessa fatta da Dio al suo popolo, si dispiegava ora in Santa Felicita con cristallina evidenza, attraverso l’alfa e l’omega della vicenda terrena del Salvatore: la sua incarnazione nel ventre di Maria e il suo discendere nel sepolcro dopo lo scandalo della croce”. Si trattava dunque anche di una sorta di manifesto politico (come del resto lo era la Pietà di Luco) che interveniva in un’epoca in cui i luterani negavano il concetto teologico della transustanziazione, ovvero la reale conversione della sostanza del pane nella sostanza del corpo di Cristo, e della sostanza del vino nella sostanza del sangue di Cristo, che secondo la dottrina cattolica avviene durante ogni celebrazione eucaristica. Rispetto ad Andrea del Sarto, il Pontormo avrebbe voluto, secondo Natali, rendere esplicita l’offerta di Cristo come panis angelicus. A riprova di ciò viene chiamata in causa la vetrata della cappella, opera di Guillaume de Marcillat che già nella finestra dell’ambiente aveva raffigurato la scena del trasporto di Cristo al sepolcro. “L’assertiva chiarezza con cui Jacopo decise d’inoltrarsi nel mistero della morte redentrice del Cristo”, conclude Baldinotti, “fa sì che il suo capolavoro si riveli non solo quale momento culminante della storia della salvezza – al Dio Padre e ai patriarchi biblici della volta fa, infatti, eco il tema dell’incarnazione proposto dall’Annunciazione e dalla Madonna col Bambino sottostanti – ma anche un’intima meditazione – carica di importanti riflessi sulla pittura fiorentina controriformata della seconda metà del secolo – intorno alla tangibile bellezza di un corpo divino che neppure la morte di croce è stata in grado di offuscare”.
L’anticlassicismo del Pontormo è stato spesso accostato a quello di Albrecht Dürer, che poté aver colpito lui e il Rosso, scriveva Maria Fossi Todorov, per la “novità delle sue invenzioni”, per le sue “iconografie inusitate”, per le “soluzioni compositive anticonvenzionali, così adatte ad esprimere le loro fantasticherie bizzarre e visionarie”. Si trattava comunque di spunti che venivano “assorbiti e rivissuti in un clima tutto diverso, che trasformava radicalmente il loro primo significato”: se però più puntuali appaiono le riprese in alcune opere come la Deposizione della Certosa del Galluzzo, che trova riferimenti nella Sepoltura della Piccola Passione di Dürer, meno stringenti sembrano invece per la Deposizione di Santa Felicita (per il corpo di Cristo, per esempio, la Deposizione del Pontormo è stata accostata alla Gnadenstuhl di Dürer del 1511), che tuttavia trova anche altri modelli iconografici. Si veda, per esempio, il gesto della donna che sorregge la testa di Gesù: trova corrispondenze nel Compianto sul Cristo morto del Perugino conservato a Palazzo Pitti, oltre che nel Compianto di Botticelli oggi al Poldi Pezzoli di Milano.
Merita infine un cenno il restauro a cui l’opera è stata sottoposta nel 2017, in occasione della mostra Il Cinquecento a Firenze. “Maniera moderna” e Controriforma tenutasi a Firenze, a Palazzo Strozzi. Dell’intervento si è occupato il restauratore Daniele Rossi, che dapprima ha sottoposto l’opera a indagini scientifiche che hanno fatto chiarezza circa gli interventi precedenti (erano stati rilevati ritocchi sui volti e sulle vesti, oltre a strati di vernice sovrapposti: i ritocchi si erano resi necessari per via delle alterazioni dovute al fuoco delle candele dell’altare), sul disegno preparatorio (i maggiori pentimenti si sono notati sui piedi della figura che sostiene il Cristo, e sul volto di Gesù: in particolare sono proprio i piedi delle figure le parti su cui Pontormo ha faticato di più, “segno forse che il pittore”, ha scritto Rossi, “cercava in ogni minima articolazione l’equilibrio perfetto dei corpi in un’opera dal forte dinamismo, in continuo movimento circolare”) e sul supporto ligneo, giudicato di eccezionale qualità, tale da mantenere ancora una formidabile planarità a cinque secoli di distanza.
L’intervento, che ha incluso anche una delicata pulitura per rimuovere le vernici ingiallite, si è concentrato soprattutto sui ritocchi antichi, con rimozioni delle ridipinture, e sui pochi sollevamenti che la pellicola pittorica presentava. La pulitura ha permesso di recuperare le cromie originali del Pontormo: “le tinte impiegate”, ha scritto Daniele Rossi, “sono così chiare, così simili nell’intensità, che le parti in piena luce sono a stento distinguibili da quelle appena in ombra e queste da quelle pienamente in ombra”. L’aspetto così luminoso della superficie si deve anche al fatto che il Pontormo impastò la maggior parte dei colori minerali con la biacca, un pigmento bianco, costituito da carbonato basico di piombo: questo espediente dona questo particolare effetto ai colori.
Oggi è dunque possibile ammirare la Deposizione del Pontormo così come probabilmente poteva vederla un fiorentino del Cinquecento. Ancora nella chiesa per la quale fu realizzata, nella cappella acquistata dal committente pochi anni prima, nella sua cornice. Non sono molti i grandi capolavori della storia dell’arte che possono essere ancora visti nel loro contesto: e pensare che la chiesa di Santa Felicita, nel quartiere di Oltrarno, passa spesso inosservata, negletta dalle migliaia di turisti che ogni giorno si muovono lungo l’asse che dagli Uffizi attraversa Ponte Vecchio e conduce verso Palazzo Pitti e il Giardino di Boboli. Il capolavoro del Pontormo è lì, appena passato il ponte, messo a disposizione gratuitamente (e si spende davvero ben volentieri, e anche ripetutamente, lo spicciolo per godere di qualche minuto d’illuminazione, fondamentale per veder brillare le vere cromie del Pontormo). Ma viene visto generalmente da pochi. Per chi vede la Deposizione la prima volta, la pala del Pontormo è una rivelazione come quella che sperimentò Clapp quando la riscoprì più di cent’anni fa. Ed è una tappa imprescindibile in un viaggio a Firenze. Per chi invece già la conosce, la visita a Santa Felicita per ammirarla è sempre un gradito ritorno.
Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta
Gli articoli firmati Finestre sull'Arte sono scritti a quattro mani da Federico Giannini e Ilaria Baratta. Insieme abbiamo fondato Finestre sull'Arte nel 2009. Clicca qui per scoprire chi siamo