Il Deposito di Santo Chiodo a Spoleto, l'ospedale delle opere dove si ricovera il patrimonio ferito dal sisma


Una visita al Deposito di Santo Chiodo a Spoleto, luogo costruito per ricoverare i beni culturali colpiti da catastrofi naturali: un vero ospedale delle opere d'arte.

A vederlo da fuori sembra un normale capannone commerciale, di quelli che punteggiano l’immagine di un’Italia che lavora e produce. Anche qui, certo, si lavora (e anche in maniera molto dura e alacre): ciò che cambia è il contenuto di questo grande edificio in cemento. Siamo a Spoleto, in visita al Deposito di Santo Chiodo, che prende il nome dall’omonima località in cui si trova, la periferia industriale e commerciale della città umbra: al suo interno, è custodito un tesoro composto da migliaia di opere d’arte, quelle qui ricoverate dopo i crolli del sisma del Centro Italia del 2016. Ci sono pale d’altare, statue in marmo, in legno, in terracotta, crocifissi, paramenti liturgici, tessuti, arredi sacri, oggetti da cerimonia, colonne, campane, porzioni di affreschi, frammenti di chiese che poco o niente hanno potuto contro la violenza delle scosse che hanno colpito queste terre tra l’estate e l’autuno del 2016. A prendersene cura è un team di storici dell’arte, architetti, archeologi, restauratori, funzionarî ministeriali, rimpinguato secondo le necessità e le emergenze, e impegnato in un’attività delicata: accogliere le opere al loro arrivo, verificare lo stato, smistarle nei varî reparti del Deposito secondo il bisogno (oppure inviarle ai centri di restauro) e quindi censirle tramite schedatura e catalogazione.

Della necessità di un deposito ci s’avvide dopo il disastroso terremoto del 1997, quello rimasto nella memoria collettiva per i danni alla Basilica di San Francesco ad Assisi: occorreva una struttura che fosse in grado di fornire una primissima accoglienza delle opere, già a poche ore dal crollo, in un luogo sicuro, costruito secondo i più stringenti criterî antisismici, in modo da dare ai tecnici la possibilità di attivarsi nel modo più pronto e rapido possibile per garantire agli oggetti di sopravvivere e di essere restituiti alle loro comunità. L’iter che ha portato alla costruzione del Deposito di Santo Chiodo prese avvio nel 1997 e terminò nel 2008: nove anni, dall’ideazione del progetto all’inaugurazione del Deposito, per consegnare al paese una struttura moderna ed efficiente, unica in tutto il territorio nazionale, che ha dato la prima prova della sua sollecitudine in occasione del devastante sisma del Centro Italia, trasformandosi in una specie di ospedale per le opere d’arte, oltre che di ricovero per quelle rimaste senza una casa. Una struttura gestita dalla Regione Umbria e concessa in comodato d’uso al Ministero dei Beni Culturali: tra i due soggetti è stata stipulata un’apposita convenzione. Al suo interno, su di una superficie di circa cinquemila metri quadri, c’è una sala di prima accoglienza, un grande ambiente dove vengono temporaneamente sistemate le opere che attendono la verifica del loro stato (e spesso arrivano bagnate dalla pioggia o coperte dalla neve, e vengono lasciate qui finché non viene trovata loro una sistemazione adeguata), ci sono locali climatizzati, ci sono le rastrelliere per la conservazione dei dipinti, ci sono le scaffalature che accolgono le statue più piccole, gli oggetti liturgici e i corredi sacri, ci sono i bancali dove sono stati sistemati i resti degli edificî crollati, ci sono aree adibite ad archivio, laboratorî per i primi interventi, ci sono le cassettiere che accolgono disegni e tessuti, c’è una camera anossica per eliminare i parassiti e i materiali organici dalle opere danneggiate, c’è anche uno studio fotografico.

Responsabile del Deposito è Tiziana Biganti, storica dell’arte e funzionaria del MiBAC. Che ci accoglie ripercorrendo la storia del Deposito del Santo Chiodo: “è un museo ma è un luogo pieno di suggestione”, ci dice. “Il Deposito è il centro di raccolta delle opere che provengono dalle zone terremotate, è un luogo predisposto in maniera davvero completa per la raccolta e la cura di opere che hanno bisogno di assistenza. Si tratta di una realizzazione straordinaria che la Regione Umbria e il Comune di Spoleto hanno scelto di costruire dopo il terremoto del 1997, utilizzando un progetto di accordo quadro tra Comune, Regione e Ministero per dar vita a un luogo attrezzato, in modo tale che, quando si fosse presentato il bisogno di ricoverare il patrimonio culturale nel momento dell’emergenza, ci fosse un luogo già addestrato, preparato, come una clinica, un ospedale, pronto ad accogliere questi infortunati”.

Interno del Deposito di Santo Chiodo a Spoleto
Interno del Deposito di Santo Chiodo a Spoleto


Tiziana Biganti
Tiziana Biganti


Frammenti della chiesa di San Salvatore a Campi di Norcia
Frammenti della chiesa di San Salvatore a Campi di Norcia


La sala di prima accoglienza
La sala di prima accoglienza


Cassettiere per la conservazione di tessuti
Cassettiere per la conservazione di tessuti


La camera anossica
La camera anossica


Rastrelliera per la conservazione dei dipinti
Rastrelliera per la conservazione dei dipinti


Lo studio fotografico
Lo studio fotografico


Il laboratorio d'intervento
Il laboratorio d’intervento


Le scaffalature per gli oggetti
Le scaffalature per gli oggetti

E il fatto che il Deposito di Santo Chiodo rappresenti un centro d’eccellenza risulta evidente anche dal fatto che con i tecnici del Deposito collaborano i restauratori dell’Opificio delle Pietre Dure di Firenze e dell’Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro di Roma, le due massime autorità pubbliche italiane in fatto di restauro, e a loro volta eccellenze mondiali nel settore. Per l’Opificio, il Deposito di Santo Chiodo è diventato anche centro di formazione: nel 2018, grazie a uno stanziamento di 130.000 euro della Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze, dieci giovani restauratori appena diplomati all’Opificio delle Pietre Dure hanno potuto svolgere un anno di “interventi sul campo” proprio nel Deposito. “Abbiamo impegnato l’eccellenza del Ministero”, dichiara Tiziana Biganti. “Quindi abbiamo sempre agito con molta consapevolezza. E anche per il prossimo anno accoglieremo altri restauratori per continuare questo lavoro: non abbiamo esaurito la necessità degli interventi”. Ma le eccellenze non sono soltanto quelle che si sono occupate dei restauri. “Per quanto riguarda la schedatura inventariale”, aggiunge Biganti, “la soprintendenza ha coinvolto una squadra di schedatori con un bando di gara. Schedatori che adesso stanno operando sia per catalogare e classificare il patrimonio ospitato nel Deposito, sia per implementare il Catalogo Generale dei Beni Culturali. Si tratta quindi di una schedatura che ha una doppia valenza, anche in virtù della sua funzione di acquisizione di nozioni sulle opere che accogliamo”.

La fase di emergenza è durata per tutto il 2018 e si esaurirà con il 2019, anno in cui la gestione ordinaria del Deposito di Santo Chiodo spetterà alla Soprintendenza (e nel frattempo, diversi interventi sono stati portati a conclusione: diverse opere sono già state peraltro esposte in mostre che si sono tenute in tutta Italia). Ma nelle prime fasi sono stati molti i soggetti coinvolti nelle operazioni di recupero. “Quando arrivavano le opere”, precisa Tiziana Biganti, “c’era una squadra esterna formata da un funzionario del ministero, dai carabinieri del nucleo Tutela Patrimonio Culturale, dai vigili del fuoco, dalla Protezione Civile che è stata appositamente formata. E quest’ultima, peraltro, è una novità dell’ultimo terremoto: per la prima volta, infatti, questi volontarî avevano non soltanto i mezzi, ma anche i materiali per l’imballaggio, ed erano stati formati per imballare le opere in modo tale che anche i trasporti non arrecassero ulteriori danni al patrimonio”. L’esperienza del terremoto è stata orribile, sottolinea Biganti. Ma il lavoro al Deposito ha rappresentato un modello formativo da apprezzare e divulgare come un’eccellenza. “Quando c’è la motivazione, le squadre funzionano benissimo. Nel nostro caso, tutti i trasferimenti dal territorio al Deposito sono avvenuti senza danni e senza dispersioni”. E una delle caratteristiche che hanno permesso di agire per il meglio è stata la velocità di prelievo. “Dopo dieci giorni avevamo la possibilità di andare a prelevare le opere e portarle via laddove il pericolo non era massimo e laddove rischiavamo il meno possibile. Questo perché avevamo il luogo giusto”.

Interno del Deposito di Santo Chiodo a Spoleto
Interno del Deposito di Santo Chiodo a Spoleto


Interno del Deposito di Santo Chiodo a Spoleto
Interno del Deposito di Santo Chiodo a Spoleto


Interno del Deposito di Santo Chiodo a Spoleto
Interno del Deposito di Santo Chiodo a Spoleto


Interno del Deposito di Santo Chiodo a Spoleto
Interno del Deposito di Santo Chiodo a Spoleto


Interno del Deposito di Santo Chiodo a Spoleto
Interno del Deposito di Santo Chiodo a Spoleto


Interno del Deposito di Santo Chiodo a Spoleto
Interno del Deposito di Santo Chiodo a Spoleto


Interno del Deposito di Santo Chiodo a Spoleto
Interno del Deposito di Santo Chiodo a Spoleto


Interno del Deposito di Santo Chiodo a Spoleto
Interno del Deposito di Santo Chiodo a Spoleto


Interno del Deposito di Santo Chiodo a Spoleto
Interno del Deposito di Santo Chiodo a Spoleto


Interno del Deposito di Santo Chiodo a Spoleto
Interno del Deposito di Santo Chiodo a Spoleto

La storia di questo luogo, tuttavia, non è sempre stata felicissima. Per otto anni, dall’apertura fino al terremoto del 2016, la struttura è stata sottoutilizzata: ne nacquero polemiche, perché a molti pareva un spesa inutile, il Deposito sembrava una cattedrale nel deserto. Così, prima del sisma, la Regione vi ha trasferito una parte dell’archivio: tuttavia, all’indomani della scossa del 24 agosto 2016, è parsa chiara a tutti l’utilità della struttura. E quell’estate, il Deposito era già libero e pronto per svolgere la funzione per la quale era stato pensato. “Per mesi e mesi”, ricorda Tiziana Biganti, “siamo stati qui quasi ventiquattr’ore su ventiquattro, e abbiamo raccolto a oggi seimila e quattrocento beni, tra beni archeologici, beni storico-artistici, porzioni architettoniche”. Un lavoro complesso fin dal momento dell’arrivo delle opere, perché appena i beni giungono al Deposito, la prima operazione (una delle più delicate) consiste nella compilazione dei rilievi speditivi, le schede con le quali si identificano il bene e la sua provenienza, si registra lo stato di manutenzione generale, si descrive il tipo e l’entità del danno subito, e si fornisce dunque una prima diagnosi che servirà per orientare le tappe successive del lavoro, ovvero la messa in sicurezza, l’eventuale intervento di restauro, le azioni di conservazione, e infine la restituzione al luogo di provenienza. Un lavoro da ripetere per migliaia e migliaia di opere, che ha condotto alla realizzazione di un vero inventario analitico del patrimonio ferito. “Nessuno avrebbe pensato a un risultato numerico e anche qualitativo di questo tipo”, sottolinea Biganti: “è stata una dimostrazione e una consapevolezza. Ed è stata anche l’occasione per compilare catalogare questi beni, un modo per approfondire la conoscenza stessa di questo patrimonio”.

La presenza del Deposito di Santo Chiodo ha davvero fatto la differenza: una struttura snella, pronta per intervenire in maniera rapida ed efficace, dotata di tutte le unità professionali necessarie al suo funzionamento, ha consentito di velocizzare i tempi di recupero delle opere. In questo senso, l’Umbria ha molto da insegnare all’Italia e all’Europa, come modello di riferimento per la gestione delle emergenze. “Già dopo la prima scossa”, racconta Biganti, “ci siamo mossi per recuperare le opere delle chiese che erano a rischio di crollo, ed erano per fortuna solo tre, quindi quelle tre furono liberate prima che la scossa del 30 ottobre facesse crollare tutto. Avevamo la grande fortuna di poter agire subito, non solo perché esistevano la struttura tecnica e la squadra, ma anche perché esisteva il luogo di ricovero”. La differenza si avverte se si confronta il lavoro fatto in Umbria con quello che s’è svolto nelle altre regioni colpite dal terremoto, dove i tempi si sono allungati perché è stato necessario individuare solo in un secondo momento tutte le strutture di ricovero. Così, il Deposito di Santo Chiodo si è subito mostrato come un esempio di prevenzione che ha funzionato bene e ha permesso ai tecnici di lavorare in maniera organizzata ed efficiente. “Avendo a disposizione tutte le attrezzature utili per la conservazione e per la cura delle opere”, evidenzia Tiziana Biganti, “il Deposito non è solo luogo di conservazione, ma anche di intervento e di messa in sicurezza, e questo consente di bloccare subito il degrado delle opere, che potrebbe essere progressivo. Abbiamo anche la possibilità di agire sia a livello di interventi di restauro, sia a livello di interventi di studio e schedatura di un patrimonio immenso: questo luogo, infatti, era stato ideato per tutto il Centro Italia, poi però sette tra i comuni interessati dall’ultimo terremoto lo hanno completamente riempito”. Tutti comuni della Valnerina, una delle zone più colpite dal sisma. Le dimensioni dell’evento hanno anche messo in luce quanto sia grande e varia la ricchezza del patrimonio culturale diffuso dell’Italia. “È il vero patrimonio, l’unicità del territorio italiano”, afferma Biganti. “Non ci sono solo i musei: la vera unicità della nostra nazione è il patrimonio diffuso. Ovunque noi giriamo, non solo in Umbria ma in tutta Italia, troviamo sempre un elemento di grande pregio, e il bello è promuovere la scoperta di questo grande patrimonio”.

Basta compiere un giro tra le grandi sale del Deposito di Santo Chiodo per rendersi conto di quanto vasto sia questo patrimonio. Dentro ci sono i resti della chiesa di San Salvatore a Campi, una delle prime a crollare. Ci sono i frammenti che provengono dalla basilica di San Benedetto a Norcia. Dalla basilica provengono inoltre diverse opere d’arte, tra le quali sculture e pale d’altare. C’è un capolavoro cinquecentesco come la pala dell’Incoronazione della Vergine di Jacopo Siculo (Giacomo Santoro, Giuliana, 1490 - Rieti, 1544), risalente al 1541 e proveniente dalla chiesa di San Francesco a Norcia. Sempre da Norcia ecco la seicentesca Crocifissione di san Pietro, tela di Vincenzo Manenti (Orvinio, 1600 - 1674). C’è la grande pala della “Pace dei Casciani”, opera del 1547 di Gaspare e Camillo Angelucci, ricoverata qui dalla Collegiata di Cascia. Ci sono le tele del Sei e del Settecento in arrivo dalla chiesa di San Pellegrino a Norcia, tra cui due pale attribuite a Paolo Antonio Mattei da Cascia. E poi un numero elevatissimo di reliquiarî, statuette devozionali, ex voto, candelieri, crocifissi d’ogni dimensione, turiboli, ostensorî, aspersorî, cartegloria, teche, cornici, capitelli.

Le opere dalla chiesa di San Pellegrino a Norcia
Le opere dalla chiesa di San Pellegrino a Norcia


Frammenti della basilica di San Benedetto a Norcia
Frammenti della basilica di San Benedetto a Norcia


L'Incoronazione della Vergine di Jacopo Siculo
L’Incoronazione della Vergine di Jacopo Siculo


La Pace dei Casciani di Gaspare e Camillo Angelucci
La Pace dei Casciani di Gaspare e Camillo Angelucci


La Crocifissione di san Pietro di Vincenzo Manenti
La Crocifissione di san Pietro di Vincenzo Manenti


Organo meccanico dalla chiesa di San Procolo ad Avendita
Organo meccanico dalla chiesa di San Procolo ad Avendita


Madonna col Bambino in legno di bottega umbra del XVIII secolo, dalla chiesa di Sant'Andrea a Norcia
Madonna col Bambino in legno di bottega umbra del XVIII secolo, dalla chiesa di Sant’Andrea a Norcia


Opera in restauro
Opera in restauro


Opera in restauro
Opera in restauro


Opera in restauro
Opera in restauro

Tutte le opere, nel Deposito, sono riunite sulla base del luogo di provenienza. Se si percorrono le sale ci si troverà quasi immersi in una selva di cartelli che identificano le chiese o gli edificî dai quali è giunto un certo gruppo di beni. Norcia e Cascia, anche solo a una prima vista, sembrano i due comuni più presenti. “Il nostro terrore”, spiega Biganti, “era che i varî corredi, una volta arrivati, si potessero confondere, perché in certi giorni arrivavano anche quattro o cinque depositi da chiese diverse, e i corredi sono tutti omogenei. Dunque si preparava un elenco speditivo e si cercavano di individuare i corredi: quindi, con l’analisi che si faceva sui varî elementi, li si inviava o al cantiere della messa in sicurezza, oppure al Deposito per la conservazione”. Conservazione, nel caso del Deposito di Santo Chiodo, non significa tuttavia fine della vita dell’opera: i beni non arrivano qui per poi non lasciare più la struttura. L’obiettivo dei tecnici del Deposito è quello di restituire il maggior numero di opere possibili alle loro comunità. E il Deposito è quindi un luogo vivo, dove tutti s’impegnano affinché quest’obiettivo si possa concretizzare.

Nel frattempo, le comunità locali hanno sviluppato un forte attaccamento al loro patrimonio. Un attaccamento che aumenta sempre più: i cittadini dei comuni colpiti dal sisma chiedono di poter vedere le loro opere, e per le comunità locali il Deposito è sempre aperto. “‘Sacro’”, puntualizza Biganti, “significa dotato di una valenza religiosa e devozionale altissima. E questo soprattutto per una popolazione che ha perso tutto, che è spesso molto legata alla religione, e che vede come unica speranza, magari, il fatto di rivolgere qualche preghiera alle immagini, ai simboli che per loro hanno sempre avuto un valore eccezionale. Le opere che si sono salvate dal terremoto hanno accresciuto il loro potere salvifico per queste persone. Possiamo crederci o non crederci, ma abbiamo il dovere di rispettare questo sentimento. Così, il Deposito di Santo Chiodo è aperto, in primo luogo e in qualsiasi momento, a tutte le comunità del territorio. E non nascondo che molti chiedono un’opera precisa, la vogliono vedere, ci pregano davanti. Possono verificare come sta: per loro, è come andare a trovare un malato in ospedale”. Il rapporto con gli abitanti, tuttavia, non è sempre stato facile. All’inizio, il ricovero presso il Deposito veniva avvertito quasi come una confisca, perché per loro le opere potevano rappresentare ancora una speranza. “Quindi”, scandisce la responsabile del Deposito, “ci siamo anche personalmente impegnati ad assicurare che avremmo accolto le comunità locali, e che loro avrebbero avuto la possibilità di venire qui in qualsiasi momento. E adesso addirittura ci chiamano ancora per affidarci beni inizialmente ricoverati presso altre strutture”. Il Deposito comunque non è aperto soltanto ai residenti: tutti vi si possono recare, durante le visite che vengono organizzate con cadenza all’incirca mensile. Per l’autunno-inverno del 2018-2019, per esempio, è stato organizzato un programma di visite guidate, intitolato Deposito aperto, con quattro appuntamenti tra il 24 novembre 2018 e il 12 gennaio 2019, ognuno dedicato a un approfondimento tematico sulle opere custodite nel Deposito (gli stemmi araldici, gli arredi lignei, i grandi maestri del Novecento, i simboli del Comune di Spoleto). Se si vuole rimanere aggiornati su ulteriori appuntamenti, occorre consultare i siti del Comune di Spoleto e della Regione Umbria.

“Noi cerchiamo di operare per il meglio”, rimarca Biganti, “nella speranza unica e sola che questo patrimonio ritorni nei luoghi di provenienza, perché è una ricchezza che dev’essere restituita al proprietario: se non altro, questa direzione dev’essere seguita per la storia identitaria delle comunità”. C’è anche chi, magari perché spinto dall’infondato stereotipo che accomuna un deposito a un magazzino polveroso, vorrebbe che il Deposito di Santo Chiodo si trasformasse in un museo. “Ma di musei ne abbiamo tanti, in sofferenza, in grande difficoltà”, commenta la responsabile del Deposito, che parla anche in qualità di direttrice di museo (è infatti a capo del Museo della Villa del Colle del Cardinale di Perugia e del Museo di Palazzo Bufalini di San Giustino), che conosce bene le problematiche che affliggono i nostri istituti, soprattutto quelli più piccoli o delle zone periferiche. “Cerchiamo quindi di restituire questo patrimonio”, conclude Tiziana Biganti. “È la vera ricchezza del territorio”.


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Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta

Gli articoli firmati Finestre sull'Arte sono scritti a quattro mani da Federico Giannini e Ilaria Baratta. Insieme abbiamo fondato Finestre sull'Arte nel 2009. Clicca qui per scoprire chi siamo





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