Un volto impossibile da dimenticare. Il David di Tanzio da Varallo, tra Testori e Rimbaud


I due David di Tanzio da Varallo, conservati alla Pinacoteca Civica di Varallo, sono tra le immagini più interessanti dell'arte del primo Seicento. Due volti indimenticabili, secondo Giovani Testori, che li ha fatti conoscere e riscoprire.

Aveva ragione Giovanni Testori: è impossibile dimenticare i volti dei due David di Tanzio da Varallo. Specialmente di quello meno antico, il biondissimo adolescente che Tanzio dipinse attorno al 1625, dei due quello dal volto più efebico: “una specie di Rimbaud senza ambasce intellettuali” lo aveva definito Testori nel 1959, l’anno della prima, grande mostra che, a Torino, aveva fatto conoscere a tutti l’altissimo pittore delle montagne, fino a quel momento presenza marginale in una storia dell’arte che non gli aveva trovato uno spazio adeguato, eccezion fatta per l’attenzione che gli era stata riservata da Longhi. Testori, per la mostra torinese, s’era occupato di tutto: aveva anche scritto tutto il catalogo, firmando tutti i saggi, compilando ogni singola scheda, occupandosi financo della bibliografia, secondo una prassi oggi in disuso. E aveva aperto a un pieno riconoscimento dell’eccezionale statura artistica di Tanzio da Varallo.

Una delle prime passioni di Testori era stata Une saison en enfer di Arthur Rimbaud. E nel 1973 era tornato a quell’immagine che aveva elaborato quattordici anni prima per sottolineare lo “strazio prerimbaudiano” dei due David di Tanzio, come di due Rimbaud che fossero “vissuti per sempre dentro le valli o sui monti”. L’idea che più spesso s’accosta alle due potenti immagini di Tanzio, ai due quadri conservati nella Pinacoteca Civica di Varallo ed esposti appaiati, è quella che li vuole pastori della Valsesia studiati dal vero dal grande pittore che, nato ad Alagna da una famiglia di muratori e scultori Walser (il suo vero nome era Antonio D’Enrico, e “Tanzio” altro non è che un mutamento fonetico del patronimico con aggiunta di desinenza nominale: era figlio di Giovanni, “Anz” nel dialetto tedesco dei Walser, dunque figlio “d’Anz”), si formò assieme a suo fratello Giovanni, e partì per Roma appena diciottenne: ci rimase quindici anni, con qualche occasionale trasferta a Napoli e in Abruzzo, ed ebbe tutto il tempo d’assimilare il linguaggio caravaggesco per poi riportarlo tra le sue montagne.

Tanzio da Varallo, David (1616-1620 circa; olio su tela, 112 x 88 cm; Varallo, Pinacoteca Civica)
Tanzio da Varallo, David (1616-1620 circa; olio su tela, 112 x 88 cm; Varallo, Pinacoteca Civica)


Tanzio da Varallo, David (1623-1625 circa; olio su tela, 120 x 90 cm; Varallo, Pinacoteca Civica)
Tanzio da Varallo, David (1623-1625 circa; olio su tela, 120 x 90 cm; Varallo, Pinacoteca Civica)

E il primo dei due David, quello ch’esibisce la testa di Golia sollevandola e tenendola per i capelli, opera eseguita attorno al 1616, è il frutto più diretto delle riflessioni di Tanzio su Caravaggio. Il secondo è invece, come s’è detto, d’una decina d’anni più tardo: Francesco Frangi vi ha riscontrato “un momento di quasi miracoloso equilibrio” ch’è frutto di un incontro tra il naturalismo appreso a Roma, il plasticismo del disegno e “la ricerca di una bellezza tersa e luminosa che conferisce ai tratti del volto una regolarità che verrebbe da definire idealizzata”. È però lo stesso Frangi a riconoscere che parlare d’idealizzazioni in Tanzio equivale a introdurre una nota stonata nello spartito: c’è poco d’ideale, del resto, nella forza quasi bruta con cui il David adolescente afferra e trattiene, col braccio vigoroso, la testa di Golia. È la forza del pastore alpino che s’appresta a macellare uno dei suoi animali (“hanno sgozzato il loro proprio Golia con la stessa implacabile e folle necessità con cui son usi sgozzare il maiale”, ha scritto Testori). E si veda poi come ogni suo tendine, ogni suo muscolo, l’espressione del suo volto, tutto sia pervaso da un’intensa energia che gli scuote tutto il corpo, lo fa vibrare assieme alla luce che gl’infiamma i capelli e fa scintillare la sciabola che stringe con la mano destra. Lui, del resto, è abbigliato come un valligiano, con la pelliccia sulle spalle, e anche un carniere che gli pende sui fianchi. Non è però un verismo incondizionato: il David di Tanzio è in posa, ed è animato da un vigore quasi michelangiolesco, che potrebbe esser tacciato di manierismo: non è così, perché il disegno tanziesco non sfocia nell’accademismo, serve per esprimere la tensione che innerva il personaggio. Ma non è comunque un David altero, trionfante, fiero di quello che ha fatto. Non è però neanche un David tormentato dal rimorso e dal senso di colpa come quelli di Caravaggio.

È difficile descrivere le sensazioni che sta provando. Nel primo dei due David c’è ancora un moto di sdegno misto a meraviglia. Il secondo ha invece uno sguardo che trasuda malinconia, angoscia e smarrimento. Lo si direbbe un uomo consapevole d’aver compiuto un gesto drammatico che gli ha cambiato la vita. Un uomo consapevole d’aver adempiuto a una missione che ha però causato una morte, conscio d’esser andato incontro al suo destino anche se era previsto che uccidesse un altro essere umano: ed è per questo motivo, ha notato lo storico dell’arte Vito Zani, che dai suoi occhi traspare “la pietà, lo sgomento per lo spettacolo della morte”. È un David tutt’altro che fiero di quel che ha fatto: dubbioso, insicuro, inquieto, morso da un travaglio interiore, un uomo che ha capito che la spensieratezza della giovinezza se n’è perdutamente andata. “Stupore dannato”, avrebbe detto ancora Testori. E nel volto del David sembra quasi di leggere le parole della Saison en enfer di Rimbaud: “Ma faiblesse, la cruauté du monde! Mon Dieu, pitié, cachez-moi, je me tiens trop mal”.

Anche questa inquietudine è uno degli elementi che rendono indimenticabili i volti dei David di Varallo. Tanzio è un pittore della verità, più che della realtà. O di una realtà inquadrata nella cornice d’un sentimento d’accesa devozione, se si preferisce. Un pittore profondamente religioso, che nel secondo David adopera all’incirca lo stesso linguaggio delle cappelle del Sacro Monte di Varallo: anche gli angeli che svolazzano nelle volte della Gerusalemme montana sono presenze corporee vive. Ancora Testori, nella prefazione al Memoriale ai milanesi di san Carlo Borromeo, scriveva che la pittura di Tanzio, con quella sua temperie da artista “scalmanato e infelice”, è l’equivalente del “tono fisico, materico, plebeo e ingombrante” dell’oratoria borromaica.

Fisica e materica è anche la pittura di Tanzio, e non solo per la presenza imponente dei suoi David. È una pittura densa, corposa: s’osservino, per esempio, le rocce dietro la sciabola, o le pennellate che definiscono il vello della pelliccia, o ancora i boccoli biondi del personaggio biblico. Non c’è spazio per troppe minuterie. Ciò nondimeno, è una materia impreziosita da effetti raffinatissimi: la luce che accende quegli stessi capelli di bagliori dorati, gli arrossamenti delle guance e dell’orecchio sinistro, i riflessi sul metallo della sciabola, i contrasti di luce e ombra che fanno risaltare la muscolatura guizzante e tornita del David, la precisione con cui Tanzio restituisce la rete del carniere (quasi un brano di natura morta), i passaggi chiaroscurali che velano la testa di Golia. E questo per tacer della ruvida bellezza montana del volto da adolescente, o della sapienza compositiva che ha nella diagonale descritta dal braccio tutto il suo fulcro: braccio ch’è al contempo elemento simbolico, ed esprime la fermezza di Davide nel compiere la sua missione (ma in certo modo anche l’ineluttabilità del suo fato), ed elemento pratico, in quanto è il mezzo con cui Tanzio cattura l’attenzione del riguardante, per stabilire una connessione emotiva e intellettuale col personaggio dipinto sulla tela, col prescelto della divinità. E per fargli sentire la verità di quel giovane pastore che, per usare di nuovo le parole di Testori, “ha lo scatto cupo e lacerante d’un demone, sulle cui spalle i resti della lana son ali straziate dalla lotta e dall’algore”.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).






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