Una delle più importanti opere della storia dell’arte occidentale, il primo esempio di Christus Triumphans di cui abbiamo notizia (almeno stando alla datazione che compare sull’epigrafe, che fissa al 1138 la data di realizzazione), una croce dipinta fondamentale per lo sviluppo dell’arte in Toscana e dintorni, si trova nel Duomo di una cittadina ligure di poco più di ventimila abitanti: è la celeberrima Croce di Guglielmo, conservata nella Concattedrale di Santa Maria Assunta a Sarzana. La sua immagine fa mostra di sé in tutti i libri di storia dell’arte medievale, è oggetto di studio in pressoché tutte le scuole in cui si insegna storia dell’arte, e possiamo considerarla una delle icone fondamentali della nostra arte. Vale dunque la pena approfondire la sua storia e cercare di scoprirne i particolari più significativi.
Guillielmus (Guglielmo), Christus Triumphans (1138; tempera su tavola, 299 x 214 cm; Sarzana, Cattedrale) |
La croce di Guglielmo nella sua collocazione |
La Cattedrale di Sarzana |
Possiamo iniziare dal nome dell’autore che, insieme alla data 1138, compare nell’iscrizione che vediamo subito sotto il titulus crucis, ovvero il cartiglio recante la motivazione della condanna che era uso affiggere alle croci, e che nel caso di Gesù assumeva anche toni cinicamente sarcastici: lo vediamo bene nella Croce di Sarzana, perché l’autore ha scritto il titulus per esteso (Iesus Nazarenus Rex Iudeorum, ovvero “Gesù il Nazareno, Re dei Giudei”). Benché l’epigrafe attesti che la realizzazione sia da attribuire a un non meglio precisato “Guglielmo” (ecco il testo: Anno milleno centeno ter quoque deno octavo pinxit Guillielmus et hec metra finxit, ovvero “nel 1138 Guglielmo dipinse l’opera e scrisse questi versi”, cioè quelli dell’epigrafe ma anche quelli nei sottostanti riquadri con le storie della Passione, divenuti però quasi del tutto illeggibili), in realtà non abbiamo altri documenti che riguardino l’autore, non abbiamo nessuna informazione sul suo conto, e ovviamente questa è l’unica sua opera certa che conosciamo. In virtù del fatto che questo Guglielmo (o “mastro Guglielmo”, come capita spesso di vederlo nominato) conoscesse il latino al punto da comporre in esametri l’iscrizione e le didascalie, e al contempo avesse una buona dimestichezza col pennello, e dato che gli sono state attribuite (su base stilistica) alcune miniature, lo storico dell’arte Marco Ciatti, in un recente studio contenuto nel volume La pittura su tavola del secolo XII, ha giudicato verosimile la possibilità che l’autore della Croce di Sarzana fosse “un religioso operoso in una sorta di officina monastica particolarmente attiva in quel periodo, sia nel campo dei dipinti su supporto ligneo, sia probabilmente, nella miniatura”. Non dimentichiamo che una conoscenza del latino approfondita al punto da scrivere versi apparteneva, all’epoca, a pochissime persone, provenienti quasi esclusivamente dall’ambiente ecclesiastico.
La critica ha stabilito da tempo che il nostro Guglielmo dovesse essere un autore di ambito lucchese. Non solo perché esiste a Lucca un nutrito gruppi di croci dipinte successive (come quella di San Michele in Foro o quella conservata nel Museo Nazionale di Villa Guinigi, in origine presso la chiesa di Santa Maria dei Servi) che con quella di Sarzana condividono forme e stile, ma anche perché già nel 1953 lo studioso statunitense Edward Garrison aveva messo in relazione la Croce di Guglielmo con il cosiddetto Passionario P+ della Biblioteca Capitolare di Lucca: si tratta di un manoscritto contenente i brani evangelici che narrano la Passione di Gesù, che condivide con la Croce diverse soluzioni stilistiche (i connotati del volto, come la forma di occhi, bocche e nasi, il modo in cui vengono raffigurate le vesti dei personaggi, i cromatismi). Interessante è, per esempio, il confronto tra un telamone che compare nel Passionario, e la figura dello sgherro di destra nella scena della Flagellazione che compare accanto alle gambe di Gesù nella Croce sarzanese: i volti caricati dei due personaggi appaiono del tutto simili.
L’iscrizione |
Apparizione in sogno di Gamaliele a Luciano, dal Passionario P+, c. 36r (Lucca, Biblioteca Capitolare) |
Confronto tra la Flagellazione sulla Croce e il telamone del Passionario P+ |
La Croce di Sarzana è stata a lungo ritenuta la prima croce dipinta della storia. Se è vero che si tratta della prima della quale conosciamo la data, occorre tuttavia sottolineare intanto che non può trattarsi della prima opera su tavola prodotta in Italia (dato che, come ha evidenziato lo studioso Ciro Castelli sempre nel libro di cui sopra, “la maniera in cui è realizzata dimostra che la tradizione artigianale che ha alle spalle è, al momento della sua realizzazione, più che attestata e stabilizzata”), e poi che ci sono stati storici dell’arte portati a individuare in altre croci dipinte, delle quali non conosciamo con sicurezza la datazione, esperienze precedenti rispetto all’opera di Guglielmo. È il caso, per esempio, di Miklós Boskovits, uno dei più grandi studiosi di arte medievale degli ultimi anni, secondo il quale un’opera come la Croce di Rosano (una croce dipinta che si trova nel monastero della località nei pressi di Fiesole e che risale anch’essa al XII secolo) potrebbe essere più antica rispetto a quella di Sarzana per il fatto che, sebbene stiamo parlando di due zone geografiche distinte (area fiorentina e area lucchese), il nostro Guglielmo sembrerebbe un artista più evoluto rispetto a quello che ha prodotto la croce di area fiorentina. Per Boskovits, alcuni dei particolari delle storie della Passione che troviamo nei riquadri a fianco delle gambe di Gesù (come il modo in cui i personaggi si dispongono attorno a Cristo nel riquadro con il Bacio di Giuda e il maggior realismo nella scena della Deposizione) sarebbero indicativi del fatto che la Croce di Sarzana potrebbe essere stata prodotta con una maggior consapevolezza, dovuta a un aumento della domanda per opere di questo tipo.
La scena col Bacio di Giuda (immagine dal sito della Cattedrale di Sarzana) |
La cimasa della Croce di Guglielmo |
Le mani di Cristo con le figure dei profeti |
Le figure dei dolenti |
Per quanto riguarda la figura del Cristo, il recente restauro, condotto tra il 1991 e il 1998 dall’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, ha confermato che si tratta di una completa ridipintura risalente a un periodo che le ultime ipotesi collocano a cinquant’anni dopo la data del 1138 attestata dall’epigrafe. Trattandosi pertanto di una ridipintura così antica, i restauratori hanno ritenuto opportuno evitare la rimozione, benché il risultato di tale decisione consista in una percezione dell’opera difforme da quella che si poteva avere dinanzi alla Croce appena uscita dalla bottega nella quale fu realizzata. La studiosa Anna Rosa Calderoli Masetti, in uno degli ultimi contributi sulla Croce, ha dato conto di come dovesse apparire la figura di Gesù in origine: "è possibile ricomporre, sia pure per grandi linee, almeno la situazione originaria del volto, attraverso una radiografia che ci restituisce una più accentuata frontalità del capo, la terribilità dei grandi occhi spalancati, la struttura ’camusa’ del naso, molto simile a quello dei Dolenti, che non sono stati toccati nell’intervento successivo“. Il corpo invece non presenterebbe, nelle forme in cui lo vediamo adesso, grandi differenze rispetto a come fosse in origine. Ancora Marco Ciatti, sulla base di tali evidenze, ritiene che la ridipintura si fosse resa necessaria non tanto per ragioni di ammodernamenti iconografici, bensì per ”riparare alcuni piccoli guasti subiti“. Tuttavia, un aggiornamento condotto sulla base di un’esecuzione ”più sensibile alle sottigliezze cromatiche e alle morbidezze plastiche“ sarebbe stato sufficiente, secondo lo studioso Antonino Caleca, ”a rendere la figura del Cristo più vicina all’umanità dei fedeli cristiani". Il recente restauro che ha condotto a tutte queste riflessioni non è che l’ultimo capitolo di una storia che attraversa nove secoli: vale la pena ripercorrerne le tappe principali.
La più recente ricostruzione della storia documentaria della Croce di Guglielmo è merito di Piero Donati, che fa risalire al 1602 il primo documento sicuro che riguarda l’opera. Data al 25 giugno di quell’anno un accordo tra il Capitolo della Cattedrale di Sarzana e la famiglia Cattani, una delle più in vista della cittadina ligure: tale accordo prevedeva che la Croce venisse trasferita da quella che era all’epoca la sua collocazione, la parete sopra alla porta della sacrestia di Santa Maria, alla cappella dei Cattani, ai quali veniva peraltro consentito di ornare la cappella, dedicata a san Giovanni Battista, con dipinti. Il documento riporta la notizia secondo la quale i termini dell’accordo sarebbero stati concordati con l’allora vescovo di Luni e Sarzana, il genovese Giovanni Battista Salvago, a capo della diocesi per ben quarantadue anni, dal 1590 al 1632. L’informazione è interessante perché, dopo il trasferimento della Croce nella cappella di San Giovanni Battista, l’opera diventò oggetto di una sentita devozione popolare, tanto che il vescovo fu spinto a emanare norme per regolare il flusso delle offerte lasciate nella Cattedrale: tra gli amministratori designati dal vescovo per occuparsi della gestione economica delle elemosine figurava il canonico Ippolito Landinelli (1568 - 1629), colto studioso di storia locale. In un suo trattato, Dell’origine della città di Luni e di Sarzana, Landinelli riportava la voce secondo cui la Croce si trovasse in origine nell’antica città di Luni e fosse stata condotta a Sarzana successivamente. Lo storico attesta anche che a Sarzana l’opera trovò dapprima ospitalità nella chiesa di Sant’Andrea, e quindi, dopo un periodo in cui fu dimenticata, trovò degna collocazione nella Cattedrale, sopra la porta della sacrestia, ovvero nel punto esatto in cui i documenti attestano la sua presenza nel 1602. Tuttavia Landinelli non mostrava di essere granché convinto dell’ipotesi di una provenienza lunense (“sia uscito detto miracoloso crocefisso da Luni, o sia proprio di Sarzana, [fu] apeso per cintinaia d’anni a una longa trave, che divideva il Choro dell’antica Parochia nostra di Santo Andrea”). E infatti, la critica più recente (a cominciare dallo stesso Donati) ritiene più plausibile che l’opera fosse stata realizzata proprio per Sarzana, e non per Luni, città la cui cattedrale era nel 1138 “in piena decadenza”, come sottolinea Donati, mentre a Sarzana era stata da poco edificata la chiesa di Sant’Andrea che, com’è lecito attendersi, doveva essere adeguatamente ornata con un bel crocifisso.
Nel 1712, la titolarità della cappella di San Giovanni Battista fu trasferita al potente cardinale sarzanese Lorenzo Casoni (i Cattani ottennero in cambio il giuspatronato della terza cappella della navata di sinistra): quest’ultimo, l’anno successivo, diede il via a lavori di rifacimento che conferirono alla cappella l’aspetto attuale. Il cardinale Casoni, inoltre, commissionò a uno dei pittori più in vista del tempo, Francesco Solimena (Serino, 1657 – Napoli, 1747), conosciuto a Napoli, città dove il prelato era stato nunzio apostolico dal 1690 al 1702, una tela “alla quale era affidato il compito di proteggere, a mo’ di teca, la Croce di Guglielmo”: nel dipinto, san Clemente papa, che compare assieme ai santi Filippo Neri e Lorenzo, indica l’ovale portato dagli angeli, all’interno del quale gli astanti potevano osservare il volto del Cristo di Guglielmo (il resto della croce era celato dal dipinto). La separazione della tela dalla Croce, continua Donati, fu attuata negli anni Quaranta del secolo scorso, epoca alla quale risale anche il primo restauro della tela, che precedette quello, citato sopra, condotto dall’Opificio delle Pietre Dure: è questo l’ultimo capitolo della storia della Croce, una delle opere più importanti della nostra storia dell’arte.
Bibliografia di riferimento
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).