“Locuzioni neogiottesche”: con questa espressione, il grande storico dell’arte Roberto Longhi si riferiva alle figure che compaiono nel celeberrimo Cristo in pietà di Masolino da Panicale (vero nome Tommaso di Cristoforo Fini, Panicale, 1383 - Firenze, 1440 circa), forse il più famoso capolavoro dell’artista toscano, e sicuramente, come ha scritto la studiosa Anna Bisceglia, “una delle testimonianze più significative dell’attività del pittore”. Un capolavoro rimasto celato per chissà quanto tempo agli occhi di coloro che si recavano nel battistero della Collegiata di Sant’Andrea a Empoli, il luogo per il quale fu concepito: in un’epoca imprecisata, infatti, fu ricoperto d’uno strato d’intonaco, e solo nell’Ottocento inoltrato, rimosso lo scialbo, il meraviglioso Cristo in pietà riemerse dall’oblio, subito destando le attenzioni dei più grandi critici, data la sua eccezionale qualità. Quell’opera capitò così, all’improvviso, e di conseguenza niente si sapeva di lei: ma si poteva chiaramente intuire che fosse opera d’un grande artista. E il primo a formulare il nome di Masolino fu Bernard Berenson, che avanzò il nome del pittore toscano nel 1902: lo storico dell’arte statunitense aveva all’epoca trentasette anni, e da due s’era sposato con Mary Whitall Smith nella cappella della Villa I Tatti di Firenze. Già da qualche tempo era diventato un assiduo frequentatore della Collegiata di Empoli, scrigno di tesori d’arte che aveva attirato la sua acuta attenzione.
L’attribuzione a Masolino del Cristo in Pietà veniva formulata nel 1902 in un articolo pubblicato sulla Gazette des Beaux-Arts, ancor oggi un imprescindibile punto di riferimento per studiare l’artista e la sua opera, data la convincente solidità e il profondo rigore metodologico degli argomenti che Berenson aveva addotto a supporto della sua ipotesi. “Nel battistero di Empoli”, aveva scritto Berenson, “ammiriamo una Pietà nella quale l’intensità dell’emozione e la nobile sobrietà ricordano le più belle composizioni di Bellini”. Appena riscoperto, il Cristo in pietà era stato attribuito a Masaccio (vero nome Tommaso di ser Giovanni di Mone Cassai, Castel San Giovanni, 1401 – Roma, 1428): tale era, per esempio, la posizione di Giovanni Battista Cavalcaselle, che nel 1883, primo a parlare dell’opera, la riteneva prodotto congiunto di Masaccio e Masolino. Ma per Berenson c’erano pochi dubbî: si trattava di un’opera di Masolino. Non poteva essere di Masaccio, perché questi, “tanto nelle tavole quanto negli affreschi, utilizzava sempre colori più scuri e opachi”. Qui, nel Cristo in pietà, al contrario “ritroviamo le tinte bionde e la trasparenza che caratterizzano gli affreschi di Masolino”. E ancora, sono tipici di Masolino i profili aquilini, o i connotati della Vergine, che ricordano quelli della sua Madonna dell’Umiltà conservata a Monaco di Baviera, o anche quelli dell’uomo col turbante che compare nell’affresco della Resurrezione di Tabita che Masolino dipinse nella Cappella Brancacci a Firenze. Oppure, un Cristo che “Masaccio non avrebbe mai potuto dipingere di forma e statura così poco solide”, tanto più che il volto di Cristo somiglia a quello del Gesù che compare nel Battesimo di Cristo di Castiglione Olona, o anche nella Predica del Battista, altro affresco che Masolino dipinse nel Battistero del borgo vicino Varese. Infine, Berenson richiamava l’attenzione sulla figura che compare nella parte alta dell’affresco: il “profeta che alza il braccio al cielo in presenza dell’orribile spettacolo che scorge”. In tutta l’arte di Masaccio non esiste, suggerisce Berenson, “un tipo così puramente ispirato dal gusto del quattordicesimo secolo”. E peraltro quel personaggio palesava una notevole somiglianza con l’Eterno che vediamo nella Madonna di Monaco. Dunque, nessun tratto in comune con Masaccio, moltissime somiglianze con altre opere di Masolino.
Nel 1905 le intuizioni di Berenson furono felicemente confermate, seppur indirettamente, dal ritrovamento di un documento nel quale, senz’alcuna ombra di dubbio, si poteva leggere che Masolino era stato attivo a Empoli. Il merito della scoperta spetta allo studioso Giovanni Poggi, che ritrovò una nota, datata 2 novembre 1424, nella quale venivano pagati a “Maso di Cristofano”, identificato come “dipintore da Firenze”, settantaquattro fiorini d’oro per la realizzazione dei dipinti che decoravano la cappella della Compagnia della Croce, che aveva sede nella chiesa di Santo Stefano, non lontano dalla Collegiata di Sant’Andrea. Nel documento, si legge che “detta cappella di sopra nominata chella Compagnia la fece dipingere per infino addì 2 novembre MCCCCXXIIII pagano al Maso di Cristofano dipintore da Firenze fiorini settantaquattro d’oro come apparisce in su gli antichi nostri libbri”: non ci sono dunque testimonianze documentarie per il Cristo in pietà, ma è comunque importante e decisivo sapere che, nel 1424, Masolino si trovava in città. Gli affreschi di cui parla il documento sarebbero stati riscoperti nel 1943, e in quegli stessi anni il Cristo in Pietà veniva staccato per ragioni conservative: era il 1946 quando il restauratore Amedeo Benini procedeva col distacco dell’affresco, riportandolo sopra un telaio di legno. Oggi, il capolavoro di Masolino è esposto presso il Museo della Collegiata di Empoli, proprio nell’edificio (attualmente annesso al museo) che in antico ospitava la chiesetta di San Giovanni Evangelista, poi divenuta il battistero della Collegiata empolese: si può dunque dire che il Cristo in pietà si trovi ancora nel luogo per il quale era stato pensato.
Masolino da Panicale, Cristo in pietà (1424; affresco staccato, 280 x 118 cm; Empoli, Museo della Collegiata di Sant’Andrea). Ph. Credit Francesco Bini |
La sala che ospita l’opera di Masolino al Museo della Collegiata di Empoli. Ph. Credit Finestre sull’Arte |
Masolino da Panicale, Madonna dell’Umiltà (1423; tempera su tavola, 96 x 52 cm; Berna, Kunsthalle) |
Masolino, Madonna lactans (1423 circa; tempera su tavola, 110,5 x 62 cm; Firenze, Galleria degli Uffizi) |
L’uomo col turbante nella Resurrezione di Tabita nella Cappella Brancacci |
Masolino, Battesimo di Cristo (1434; affresco; Castiglione Olona, Battistero) |
L’affresco del grande artista toscano colpisce per la sua commovente intensità: Cristo, al centro, è esanime e s’erge dal sepolcro, nel quale è stato appena deposto. Viene pianto dalla madre e dall’apostolo Giovanni, come da tipica e antica iconografia. Al di sopra, in posizione perfettamente centrale, si leva la croce, cui sono stati appesi alcuni degli strumenti del martirio subito da Gesù: due flagelli, che penzolano dai chiodi e che sono lievemente mossi da un soffio di vento, e la corona di spine, infilata nel braccio verticale. Nella cuspide, ai tre vertici del triangolo, abbiamo due figure di profeti (nei vertici della base), ovvero Isaia ed Ezechiele, che preconizzarono rispettivamente la nascita e la morte di Gesù (proprio alla morte fa riferimento il teschio tra le mani di Ezechiele), e la figura del Volto Santo, in posizione sommitale.
È una composizione sobria, essenziale, quasi ridotta ai minimi termini, quasi scarna: eppure si tratta di un’opera fondamentale, perché testimonia l’avvicinamento di Masolino ai modi del più giovane Masaccio, dei quali il Cristo in Pietà può esser in qualche modo considerato una sorta di riflesso. Masaccio e Masolino, com’è noto, avevano collaborato alla realizzazione di diverse opere: il Trittico Carnesecchi, la Sant’Anna metterza, il famosissimo ciclo di affreschi della summenzionata Cappella Brancacci. E a confermare una datazione al 1424 del Cristo in pietà concorre anche il fatto che, guardando alle opere che Masolino realizzò da solo, le maggiori tangenze tra l’arte sua e quella di Masaccio si verificano proprio negli anni della loro collaborazione, ovvero tra il 1424 e gl’inizi del 1426. “Al tempo di Masaccio vivo e rampognante”, scrisse Longhi: tutto quello che in Masolino s’allontana da Masaccio, certifica anche “un allontanarsi di quel tempo” (nelle opere che Masolino realizzò dopo la fine della collaborazione, si assistette infatti a un progressivo distacco dalle conquiste masaccesche). E fu proprio grazie allo sprone di Masaccio, sosteneva Longhi, che Masolino s’avvicinò a un rigore formale tipicamente neogiottesco, lui che, nelle prime opere che conosciamo (come la Madonna dell’Umiltà conservata a Berna e sicuramente opera del 1423, oppure la Madonna lactans degli Uffizi, di datazione incerta ma che alcuni storici dell’arte, tra i quali spicca Miklós Boskovits, hanno datato agli anni Venti) palesa quelle sinuosità e quei calligrafismi tipici del gotico fiammeggiante, che scompaiono del tutto nel Cristo in Pietà, per poi tornare nelle opere degli anni Trenta del Quattrocento, quando ormai Masaccio era già scomparso. “Locuzioni neogiottesche”, dunque: l’essenzialità della composizione, il suo tono severo, il plasticismo solido delle figure, senza dimenticare un dettaglio particolarmente rivelatore, come suggeriva lo stesso Longhi, ovvero la testa di Cristo, straordinariamente simile (financo nell’acconciatura!) a quella che Masaccio avrebbe dipinto di lì a poco nel Tributo della Cappella Brancacci (anche se, a dire il vero, Longhi e altri importanti storici dell’arte hanno assegnato alla mano di Masolino anche la stessa testa di Cristo del Tributo). Senza contare che il sepolcro, elegantemente scorciato in prospettiva centrale, e i forti contrasti chiaroscurali delle vesti (ma anche del corpo di Gesù: il modellato rappresenta uno dei culmini della modernità di Masolino), come ha scritto Rosanna Caterina Proto Pisani, costituiscono in questo dipinto dei “segni del rinnovamento profondo avvenuto nella pittura fiorentina nei primi due decenni del secolo”.
Ma il Cristo in pietà denota anche altre interessanti suggestioni. Proprio quel modellato così fine che abbiamo modo d’osservare nel corpo di Cristo potrebbe esser legato, secondo alcuni, alla conoscenza dei modelli classici, che Masolino avrebbe potuto approfondire con un viaggio a Roma, di cui parla anche Giorgio Vasari nelle sue Vite: “et andatosene a Roma per studiare, mentre che vi dimorò, fece la sala di casa Orsina Vecchia in Monte Giordano; poi, per un male che l’aria gli faceva alla testa, tornatosi a Fiorenza, fece nel Carmine allato alla cappella del Crocifisso la figura del S. Pietro che vi si vede ancora”. Riguardo alla probabile conoscenza dei testi classici da parte di Masolino, Stefano Borsi ha scritto che “il Cristo, un po’ apollineo e ispirato a modelli antichi, suggerisce che Ghiberti è ancora visto come un’autorità”. Sullo stesso argomento, tuttavia, s’era già espresso Umberto Baldini nel 1958, sottolineando che “la nuova entità morale e fisica del Cristo in Pietà si può spiegare solo e interamente con una pur plausibile dimestichezza con la scultura del Ghiberti”: anche Baldini era concorde nell’individuare in Masaccio il vero punto di riferimento di Masolino.
I protagonisti del Cristo in pietà di Masolino. Ph. Credit Francesco Bini |
San Giovanni Evangelista. Ph. Credit Francesco Bini |
La Vergine e il figlio |
Il volto del Cristo in pietà di Masolino. Ph. Credit Francesco Bini |
Masaccio (e Masolino?), Tributo (1425 circa; affresco, 255 x 598 cm; Firenze, Santa Maria del Carmine, Cappella Brancacci) |
Il volto di Cristo nel Tributo |
I visitatori che transitano per quello che un tempo era il battistero di Empoli, comunque, rimangono colpiti soprattutto dal grande pathos che il Cristo in pietà è in grado di sprigionare. Un pathos che non è spettacolare, ma che è vissuto intimamente dai protagonisti, i cui volti affranti vengono da Masolino resi con sapiente naturalismo. E alla loro espressività s’aggiunge, altrettanto potente, la loro gestualità: s’osservi la mano sinistra della Madonna, che pietosamente cinge la spalla del figlio, o la destra che lo tiene per mano, e si noti anche Giovanni evangelista, che s’inchina in ginocchio, prende il braccio sinistro di Gesù tra le sue mani, avvicina le labbra, lo sfiora.
Un pathos così intenso da non aver lasciato indifferente uno dei più celebrati artisti contemporanei, Bill Viola (New York, 1951), che al Cristo in Pietà di Masolino s’ispirò per creare una delle sue opere più note e apprezzate, Emergence, del 2002. Così l’artista ha descritto il suo stesso capolavoro: “due donne siedono ai lati di una cisterna di marmo in un piccolo cortile. Aspettano in paziente silenzio, riconoscendo solo occasionalmente l’una la presenza dell’altra. Il tempo diventa sospeso e indeterminato, la finalità e la destinazione delle loro azioni sono sconosciute. La loro veglia è all’improvviso interrotta da un presagio. La donna più giovane si gira repentinamente e osserva la cisterna. Guarda, incredula, comparire la testa di un giovane, e quindi il suo corpo si erge, l’acqua fuoriesce da tutti i lati, sulla base e sulla pavimentazione del cortile. L’acqua che cade cattura l’attenzione della donna più anziana, e lei si volta per assistere all’evento miracoloso. Si alza, attirata dalla presenza del giovane. La donna più giovane prende il suo braccio e lo accarezza, come se stesse salutando un amante perduto. Quando il corpo pallido del giovane raggiunge la sua massima estensione, lui barcolla e cade. La donna più anziana lo afferra tra le braccia, e con l’aiuto della donna più giovane, lotta per deporlo gentilmente sul suolo. Lui giace prono e senza vita, e viene coperto da un velo. Cullando la sua testa tra le ginocchia, la donna più anziana alla fine scopia in lacrime mentre la donna più giovane, sopraffatta dall’emozione, abbraccia teneramente il corpo di lui”.
L’opera, commissionata per una serie nota come The Passions (e dal cui catalogo è tratto il testo appena riportato), è pregna di significati complessi cui rimandano i numerosi simboli che Bill Viola adopera: dall’acqua, onnipresente nei suoi capolavori di videoart, allo scorrere del tempo (i video di Viola “inseriscono il tempo nelle immagini”, ha scritto Giorgio Agamben), dal sepolcro di Masolino che in Bill Viola diventa una sorta di pozzo, alla caduta del corpo del giovane sul terreno. Il significato complessivo di Emergence è difficile da riassumere in poche battute: è però interessante soffermarsi brevemente sul suo rapporto con il Cristo in pietà del grande pittore toscano. Bill Viola non è interessato a riproporre mere rivisitazioni delle opere antiche: probabilmente, è stato ispirato dall’opera di Masolino perché vi ha colto una sorta di ambiguità. Cristo è morto, ma non è ancora stato sepolto. È stato deposto dalla croce, che vediamo alle spalle dei protagonisti, a scandire la perfetta simmetria della composizione, ma s’erge ritto sul bordo del sepolcro. Cristo è sospeso tra la vita e la morte, e di lì a poco risorgerà. Emozione e ambiguità: questi sono forse i due tratti dell’opera di Masolino che più affascinano Bill Viola. In Bill Viola, le due donne che sorreggono il corpo del giovane si lasciano andare a un pianto mesto, ma intimo e composto: è lo stesso che accade nell’opera di Masolino alla Vergine e a san Giovanni (di quest’ultimo nel video, a un certo punto, è ripreso in maniera letterale il gesto delle mani). E come in Masolino il Cristo è sospeso tra la vita e la morte, lo stesso si può dire del giovane che emerge dal pozzo nel video dell’artista statunitense: in molti hanno visto, nella sua emersione e nella successiva caduta, un’allegoria della vita.
Bill Viola, Emergence (2002; retroproiezione video a colori ad alta definizione su schermo montato a parete in una stanza buia, 213 x 213 cm, durata 11’40”; interpreti: Weba Garretson, John Hay, Sarah Steben. Courtesy Bill Viola Studio) |
Masolino e Bill Viola a confronto |
Masolino e Bill Viola a confronto nella mostra monografica di Bill Viola del 2017 a Palazzo Strozzi. Courtesy Palazzo Strozzi |
Caposaldo della produzione di Masolino in quanto opera spartiacque nel suo percorso artistico (oltre che uno dei suoi primi lavori noti, malgrado sia stato realizzato dall’artista quando aveva più di quarant’anni), capolavoro fondamentale della storia dell’arte dal momento che si tratta di uno dei primi dipinti che s’indirizzano verso le nuove strade rinascimentali tracciate da Masaccio, affresco realizzato “tecnicamente in modo perfetto”, com’ebbe a scrivere il restauratore Giuseppe Rosi che se ne prese cura negli anni Ottanta, il Cristo in pietà è di sicuro una delle opere più notevoli di tutto il Quattrocento e capace, come s’è visto, di dialogare ancora, forte e moderno com’è, con la contemporaneità. Un’opera in cui l’intensità dei sentimenti muove a stupore e a riflessione chiunque la ammiri, al Museo della Collegiata di Empoli. E, come suggeriva Berenson, la città toscana può vantarsi d’avere due sommi capolavori di Masolino: uno è la Madonna col Bambino nella chiesa di Santo Stefano (“la più bella”), l’altro è il Cristo in pietà (“la più nobile”). Proprio con questa riflessione Berenson concludeva il suo saggio del 1902: “Ainsi, Empoli peut se glorifier de posséder deux peintures de Masolino qui, si elles ne comptent pas parmi les plus importantes, sont, l’une la plus charmante, et l’autre la plus noble des compositions de cet artiste” (“dunque, Empoli può gloriarsi di possedere due dipinti di Masolino che, se proprio non possono essere annoverate tra le più importanti, sono comunque l’una la più bella e l’altra la più nobile delle composizioni di questo artista”).
Bibliografia di riferimento
Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta
Gli articoli firmati Finestre sull'Arte sono scritti a quattro mani da Federico Giannini e Ilaria Baratta. Insieme abbiamo fondato Finestre sull'Arte nel 2009. Clicca qui per scoprire chi siamo