Collezione [col·le·zió·ne] s. f. [dal lat. collectio -onis, der. di colligĕre «raccogliere»]. – 1. Raccolta ordinata di oggetti della stessa specie che abbiano valore o per loro pregio intrinseco o per loro interesse storico o artistico o scientifico o semplicemente per curiosità o piacere personale: fare c. di francobolli, di monete, di medaglie; una c. di quadri, di statue, di cammei.
La prima delle sei accezioni con cui tale sostantivo è definito nel dizionario Treccani ben specifica la raffinata arte del collezionismo che, a differenza di quanto si possa ritenere, è pratica assai ben “radicata” nel cotidie vivimus del genere umano. Senza addentrarsi in ragionamenti antropologici che, se pur necessarî, esulano dalla centralità di tale contributo, risulta opportuno rimarcare come il “collezionismo” possa considerarsi un’attitudine insita nell’homo sapiens che, desideroso di comprendere la natura e le sue molteplici manifestazioni, ha sempre cercato in ogni modo di possederla ed eternarla nel tempo. Luogo in cui questo tentativo di fissare in maniera imperitura le varie sfumature del creato – naturale e antropico – viene messo in pratica, diviene, senza dubbio alcuno, la casa: “scrigno” in cui si ricrea un microcosmo domestico.
Preziose testimonianze relative all’arte di costruire spazi per l’esposizione delle ricchezze ci giungono direttamente dalla Naturalis Historia di Plinio il Vecchio che, nel suo trattato enciclopedico, descrivendo le scienze naturali, si sofferma sul sapere scientifico conservato nelle dimore, per cui adotta termini quali cubiculum e pinacotheca (Naturalis Historia, XXXV, V, vv, 296-297). La presenza di tali spazi, inoltre, era già stata menzionata da Vitruvio nel suo De Architectura (35-25 a.C.) dove, tratteggiando le dimore dei facoltosi cittadini, oltre a vestibula, regalia e perystilia amplissima, riferisce di bibliothecas e pinacothecas (De Architectura, 6, 5, 2).
Tali aspetti, dunque, ben evidenziano come già nell’antichità questo insito desiderio umano di collezionare fosse pratica comune anche se, in riferimento a tali anni, appare decisamente più appropriato utilizzare il termine “raccolta”: la consapevole attività di collezionista, infatti, comparirà con la dovuta accezione a partire dal XV secolo. Indipendentemente dalle sfumature lessicali, il fil rouge che accomuna il plurisecolare costume del raccogliere lo si ritrova nella materialità degli oggetti tesaurizzati che, per la loro varietà, vennero suddivisi nelle due macrocategorie rispondenti al nome di artificialia e naturalia.
Le “cose” naturali, in particolar modo, a partire dal Medioevo trovarono spazio all’interno delle chiese dove, parallelamente a reliquie, ex voto e spolia, vennero a costituire delle vere e proprie raccolte “zoomorfe”, utili, attraverso la loro valenza simbolica, a supportare il verbo cristiano. A testimonianza di ciò, particolarmente esemplificativo risulta il caso mantovano dell’Abbazia di Santa Maria delle Grazie in cui il celebre crocodilus niloticus, pendente dalla navata e vero e proprio naturalia, simboleggia la vittoria del bene sul male: il trionfo della fede cattolica. Tra gli altri oggetti afferenti al mondo naturale che, forti proprio della loro aura simbolica, iniziarono ad essere raccolti all’interno delle chiese, figura anche l’uovo di struzzo la cui valenza, connessa all’Immacolata Concezione, è ben ricordata dall’iconica Pala di Brera o dalla mantegnesca Pala di San Zeno.
Non è di certo un caso se uno dei primi collezionisti ante litteram, in grado di allestire un ambiente suggestivo e meraviglioso, sia stato il benedettino Sugerio di Saint-Denis (Chennevières-lès-Louvres, 1080 circa – Saint-Denis, 1151). L’abate dell’omonima chiesa, infatti, in aperto contrasto con il pauperismo professato da san Bernardo da Chiaravalle, seguendo quanto descritto nella Teologia mistica da Pseudo Dionigi, secondo cui Dio si manifesta all’uomo attraverso una dorata cascata di luce, dotò l’abbazia di Saint Denis di ricchi manufatti – sculture, vetrate, vasellami, pietre preziose, gemme e smalti. Molti di questi oggetti del Tesoro di Saint Denis, raccolti per favorire ancor più i vari pellegrinaggi, vennero inoltre “aggiornati” da Sugerio in chiave cristiana, come ben testimoniato dalla Aquila di Sugerio, un vaso in porfido che lo stesso religioso arricchì dotandolo di una montatura d’argento dorato, decisamente più consona con l’ambiente abbaziale.
Sempre in Francia, nel corso della seconda metà del Trecento, un’altra illustre figura, Jean de Valois (Vincennes, 1340 – Parigi, 1406), duca di Berry, costituì quella che, senza ombra di dubbio, può ritenersi a pieno titolo una delle prime collezioni del tempo. L’inventario della raccolta del terzogenito di Giovanni II il Buono, re di Francia, redatto nel 1416, dà infatti conto di ben 1317 oggetti – ripartiti tra arazzi, dipinti, oreficeria – tra cui si evince come parte preponderante della collezione risultassero essere i manoscritti che, data la raffinata cultura del Duca, vennero miniati dai principali artisti del tempo.
Non è forse un caso che all’illustre bibliofilo francese si deve la realizzazione delle Très Riches Heures, il celebre libro di preghiere miniato dai fratelli Limbourg tra il 1411 e il 1412 che – completato, a causa della morte del sovrano, soltanto nel corso degli anni Quaranta del Quattrocento da Barthélemy d’Eyck – doveva rappresentare un pezzo di grande valore nel già ricco scacchiere collezionistico di Jean. La collezione del Duca oltre a numerosi altri curiosa – tra cui spiccano ben quattro denti di narvalo – era ancor più arricchita da uno dei più famosi cammei dell’antichità quale la Gemma Augusti.
Agli albori del Quattrocento, dunque, la pratica collezionistica e il conseguente allestimento di ambienti creati ad hoc iniziò a prendere notevolmente campo, supportata anche dalla nascente cultura antiquariale – l’Umanesimo. In Italia tale concezione “espositiva” iniziò a svilupparsi con l’istituzione dei cosiddetti Studioli rinascimentali di cui il primo e più eclatante esempio è da ritrovarsi nello studiolo di Piero il Gottoso de’ Medici, mantenuto e in seguito arricchito dal figlio Lorenzo il Magnifico. Sebbene oggi tale ambiente, realizzato al primo piano di Palazzo Medici sito in via Larga, non sia più visibile, poiché distrutto dagli ammodernamenti eseguiti a Palazzo alla metà del Seicento, sono ancora una volta gli inventari (1456, 1492) ad informarci sulla ricchezza del piccolo vano. Lo studiolo, infatti, vero e proprio scrigno ove conservare, studiare e, soprattutto, mostrare le preziosità raccolte, ospitava collezioni di monete, gemme, pietre dure, vasi, il tutto circondato da una decorazione pavimentale e parietale animata dalle terrecotte invetriate di Luca della Robbia, di cui i dodici tondi del Ciclo dei Mesi rappresentavano un vero unicum.
Un altro grande protagonista di questa ammaliante pratica artistica fu Federico da Montefeltro che, tra il 1476 e il 1482, realizzò due studioli degni della sua caratura culturale. Al piano nobile del Palazzo Ducale di Urbino, Federico crea un vero e proprio locus amoenus che, cinto da un pregevole soffitto a lacunari, venne adornato nel registro superiore della parete da ventotto Ritratti di Uomini Illustri mentre nell’inferiore raffinatissime tarsie lignee, opere dei Da Maiano, scandivano lo spazio. Proprio queste, animate da illusionistiche rappresentazioni di armadi semi-aperti e contenenti i più svariati oggetti, rappresentano forse meglio di ogni cosa l’intima rarità dell’ambiente. Le stesse dinamiche si ritrovano anche nello Studiolo di Gubbio che – ahinoi, oggi custodito nella sua interezza al Metropolitan di New York – testimonia come tali luoghi ove poter riflettere sulle arti e sulle scienze, raccolti in se stessi, fossero aspetto particolarmente apprezzato dai grandi umanisti del tempo.
Altrettanto affascinante appare quanto realizzato da Isabella d’Este (Ferrara, 1474 – Mantova, 1539) che, alla morte del marito Francesco II Gonzaga, nel 1519 decise di trasferire il proprio appartamento vedovile al piano terra della Corte Vecchia di Mantova. Qui ideò due ambienti più intimi e privati, lo Studiolo e la Grotta, atti a conservare ed esporre la propria collezione di opere che, costituita da curiosità naturali e reperti archeologici, vantava pezzi rari quale il Cammeo tolemaico e, soprattutto, celebri tele commissionate ai più noti pittori del tempo come il Parnaso e la Minerva scaccia i vizî di Andrea Mantegna.
Nel corso del XVI secolo numerose divennero le personalità delle grandi corti italiane che decisero di creare ed adibire singoli ambienti per l’esposizione dei propri tesori (naturalia, artificialia, curiosa, exotica… ), tanto che di estrema rilevanza risulta lo scritto pubblicato nel 1554 da Sabba da Castiglione. Nei suoi Ricordi ovvero ammaestramenti, il religioso e umanista italiano dà contezza dell’arredamento delle case private del tempo, sottolineando come molti adornino le proprie dimore «di antichità, come di teste, di tronchi, di busti, di statue antiche, di marmo, di bronzo […] di carte impresse in rame […] di panno di razza e di celoni venuti da Fiandra […] di cose fantastiche et bizzarre […] di molte cose belle et artificiose». Lo scritto istruisce sui preziosi scrigni che le illustri (e colte) personalità del tempo costituirono, risultando altresì un’utile chiave di lettura per la comprensione di tutti quegli spazî ancora in fieri. Le descrizioni di fra’ Sabba, infatti, appare pienamente utile per la lettura della Tribuna realizzata da Bernardo Buontalenti tra il 1581 e il 1583 su commissione di Francesco I de’ Medici (Firenze, 1541 – Poggio a Caiano, 1587). L’ambiente, concepito per «tenere le più preziose gioie ed altre delizie onorate e belle che abbi il Granduca», rappresenta al meglio una summa di tutti gli aspetti finora descritti e, cosa più importante, può coerentemente definirsi come la prima vera Wunderkammer italiana. Un’assoluta Camera delle Meraviglie resa ancor più sontuosa attraverso la ricca esaltazione dei quattro elementi naturali così ripartiti: la Terra, impressa sul pavimento attraverso la riproduzione di una raggiera simil fiore intarsiata in raffinati marmi policromi; l’Acqua, palesata mediante l’utilizzo di 5.780 conchiglie di madreperla per la decorazione del soffitto a fondo dorato; il Fuoco, esaltato dalle pregiate pareti in velluto rosso; l’Aria, “personificata” dalla lanterna che, posta all’apice dell’ambiente ottagonale, grazie alle sue otto vetrate forniva un’illuminazione quasi divina.
A partire dalla metà del XVI secolo, le Wunderkammer iniziarono a diffondersi presso le principali corti europee, specialmente nei territori d’Oltralpe, ove la più “rigida” cultura artistica rinascimentale lasciava spazio ad una concezione decisamente più “gotica”. È questo il caso delle celebre Camera delle Meraviglie del duca del Tirolo, nonché arciduca d’Austria, Ferdinando II (Linz, 1529 – Innsbruck, 1595). Il sovrano, a partire dal 1570 presso il noto Castello di Ambras a Innsbruck, iniziò i lavori per la costruzione del cosiddetto Unterschloss, il “castello inferiore”, il cui scopo sarebbe stato quello di ospitare le ricchezze del Duca. La collezione di quest’ultimo, infatti, era una delle più articolate e varie del periodo, tanto che annoverava più di 120 armature, disparate rarità e una nutrita quadreria. L’Armeria Reale, la Wunderkammer e la Sala degli Spagnoli, non a caso, costituiscono ancora oggi l’ossatura centrale del percorso museale. Sebbene le rare armature del XV-XVI secolo e l’illustre quadreria – che consta di pregevoli testimonianze pittoriche quali Tiziano, Van Dyck, Velazquez – testimonino l’importanza culturale della collezione e del suo artefice, ciò che colpisce più di ogni altra cosa sono gli oggetti “extraordinari” raccolti da Ferdinando. Cristalli, sculture in bronzo, oreficeria, armi, naturalia, tutte queste rarità formavano una Wunderkammer senza precedenti la cui pregevolezza può essere ben esplicitata dal Korallenkabinett, un cabinet ligneo rivestito internamente da velluto nero, scandito da raffinate specchiere con bordatura dorata e ornato con figure mitologiche realizzate con uno dei materiali più rari, costosi e unici dell’intero globo: il corallo (rosa, rosso e saltellano).
Restando sempre nel nord Europa, notevole analogie possono riscontrarsi con l’altrettanto celebre collezione di Rodolfo II d’Asburgo (Vienna 1552 – Praga, 1612), personaggio controverso, estremamente affascinato dal modo naturale, alchemico, scientifico, e che costituì negli anni Ottanta del XVI secolo una delle più ricche collezioni del tempo. Diede origine ad una tra le più celebri Wunderkammer che, poi smembrata in direzione Vienna a causa della Guerra dei Trent’anni, oltre al noto ritratto Vertumno (dell’Arcimboldo), era costituita da assolute rarità ben esemplificabili nel corno di narvalo oggi conservato presso il Kunsthistorisches di Vienna.
Scavallando nel XVII secolo e valicando le Alpi per rientrare in Italia, di notevole interesse appare quanto allestito a Roma, e più nello specifico nel Collegio Romano, da Athanasius Kircher (1602-1680). Eccelso studioso di matematica, fisica, alchimia, astrologia, egittologia, proprio presso la sede romana, il gesuita iniziò una raccolta dei più disparati oggetti che lo portarono a realizzare una Wunderkammer incentrata, principalmente, sull’esposizione di oggetti scientifici che aiutassero nella comprensione del cosmo.
A partire dal 1727, grazie al fondamentale scritto di Caspar Friedrich Neickel, Museographia, le Wunderkammer trovarono una loro definizione e un loro compiuto “regolamento” espositivo, ponendo le basi per la formazione di quel “Tempio delle Muse” che oggi, sempre con la medesima e immutata fascinazione, chiamiamo “Museo”.
Questo contributo è stato pubblicato originariamente sul n. 17 della nostra rivista cartacea Finestre sull’Arte on paper. Clicca qui per abbonarti.
L'autore di questo articolo: Giorgio Dellacasa
Storico dell'Arte e divulgatore scientifico. Ho 25 anni, sono nato a Genova e qui ho compiuto tutto il mio percorso di studio universitario, conseguendo la Laurea triennale in Conservazione dei Beni Culturali e la Laurea magistrale in Storia dell'Arte e Valorizzazione del patrimonio storico artistico. Attualmente ho conseguito l'accesso alla Scuola di Specializzazione in Beni Storico-Artistici di Genova.