Pubblichiamo di seguito, come anticipato nell’articolo di Bruno Zanardi dello scorso 18 maggio, l’articolo scritto da Francis Haskell nel libro che Guanda pubblicò nel 1990 in occasione del restauro degli affreschi del Correggio nella cupola di San Giovanni a Parma. Seguirà nella prossima settimana l’altro contributo, quello di Alberto Arbasino.
Correggio fu probabilmente il pittore più amato - sebbene Raffaello fosse senz’altro il più stimato - da tutte le persone di gusto nel diciottesimo secolo e agli inizi del diciannovesimo. Questa dev’essere la ragione per cui si trova quasi sempre una nota di scusa nelle parole di chi osava rivelare le proprie reali preferenze (e quindi, di regola, soltanto nelle corrispondenze private) in occasione dei confronti che venivano fatti costantemente tra i due artisti. Il caso di Francesco Algarotti, che scriveva nel 1759 al suo collega-conoscitore Anton Maria Zanetti a proposito della Madonna col Bambino, santi e angeli di Parma conosciuta come Il Giorno, è abbastanza tipico di un modo di pensare che era stato espresso quasi due secoli prima in termini molto simili: “Mi perdoni il divino ingegno di Raffaello, se guardando a quel dipinto, io gli ho rotto fede, e sono stato tentato di dire in secreto al Correggio, ‘Tu solo mi piaci’”. Infatti, pur con la debita cautela, sembra legittimo affermare che nelle opere contrastanti di questi due artisti – “due angeli discesi dal cielo e che vi hanno fatto ritorno”, secondo le parole di Charles de Brosses nel 1740 – si vedevano rappresentati due tra i più importanti elementi che coesistevano, non sempre con facilità, nella sensibilità del secolo diciottesimo: il richiamo alla ragione, da una parte, e il richiamo al sentimento, dall’altra. Correggio era il pittore della grazia, del colore, della tenerezza, della dolcezza, del fascino, della facilità, della morbidezza. Erano tutte, sicuramente, qualità ammirabili, tutte senza eccezioni – ma non si pensava che costituissero gli obiettivi più alti ai quali un artista può aspirare: perdipiù, qualche acuto commentatore si accorgeva che c’era in esse un elemento potenzialmente sovversivo. Così Winckelmann faceva presente che un amore eccessivo per Correggio poteva portare a una vera e propria denigrazione di Raffaello e all’accusa di essere rigido e tagliente, mentre un quarto di secolo dopo Sir Joshua Reynolds insisteva severamente sul fatto che una verità ancora più profonda può sfuggire a chi riserva troppa attenzione alle “piccole eleganze dell’arte”. Una volta confrontati alla sublimità di Michelangelo, non soltanto “la grazia squisita di Correggio e Parmigianino”, ma perfino “il giudizio corretto, la purezza di gusto che caratterizza Raffaello” si dissolvono del tutto.
Così, capire il posto altissimo che fu tenuto da Correggio nell’immaginazione settecentesca non è importante soltanto per gettar luce su un gusto artistico radicalmente diverso da quello attuale; ci offre anche degli elementi significativi per esplorare i cambiamenti sopravvenuti nella considerazione dei valori morali.
Sarebbe certamente fantasioso affermare che la feroce mutilazione della Leda di Correggio (ora a Berlino) ci possa dire molto tanto su simili valori morali quanto sull’instabilità mentale di Luigi, duca d’Orléans, che negli anni ‘20 del Settecento si lanciò sul quadro con un coltello. Cionondimeno, questo incidente è rivelatore perché ci fa ricordare quanto debba essere stato forte l’effetto prodotto sugli spettatori dall’erotismo che si può ritrovare in tanti quadri di Correggio – di soggetto sacro come di tema più esplicitamente pagano – e che veniva riconosciuto soltanto in maniera indiretta usando, nella descrizione della sua arte, parole come “grazia”, “morbidezza” e altre già menzionate. E inoltre questo atto di vandalismo è interessante per un’altra ragione. Fu commesso a Parigi su un quadro che, precedentemente, era stato già visto a Mantova, Madrid, Praga, Stoccolma e Roma.
In verità, la dispersione per tutta Europa delle opere di questo pittore di provincia sembra essere cominciata già durante la sua vita, quando Federico Gonzaga di Mantova regalò i quattro Amori di Giove – tra i quali la Leda – (ora divisi tra Roma, Berlino e Vienna) all’imperatore Carlo V, che li portò in Spagna. Nel diciassettesimo secolo l’acquisizione della collezione Gonzaga da parte di Carlo I d’Inghilterra portò a Londra dei magnifici Correggio, che pochi anni dopo, con la dispersione dei quadri di Carlo I, trovarono la loro strada tra Parigi e Madrid. Nel 1745-1746 la vendita di un centinaio di dipinti, provenienti dalla collezione del duca di Modena, ad Augusto III, elettore di Sassonia, era destinata a fare di Dresda uno dei grandi centri del culto di Correggio, dal momento che tra i quadri venduti era compreso il suo lavoro più famoso - la Natività (conosciuta come La Notte). A parte gli affreschi, a Parma rimasero alcuni dipinti molto importanti, o nelle chiese per le quali erano stati realizzati o in collezioni semipubbliche. Sebbene la Rivoluzione e le guerre napoleoniche dovessero finire col rimuovere molti di questi quadri, negli anni immediatamente successivi a Waterloo quasi tutti i capolavori di Correggio trovarono le loro sedi permanenti (è da sottolineare quanto poco invece il pittore sia rappresentato negli Stati Uniti). Tuttavia dalla metà del diciottesimo secolo – ma, per la maggior parte, molto prima – erano entrate in circolazione delle stampe che riproducevano la grande maggioranza dei quadri più importanti di Correggio, ed erano ricordate anche molte copie a olio. È appena necessario aggiungere che molti dipinti furono falsificati e che altri furono attribuiti a Correggio con la giustificazione che sembravano includere almeno alcune delle qualità ritrovabili nelle sue opere autentiche.
In questo modo gli amanti dell’arte sarebbero stati in grado di formarsi in quasi tutta Europa una certa idea delle caratteristiche dello stile di Correggio anche senza viaggiare in Italia. In Inghilterra, ad esempio, dove nel Settecento c’erano sicuramente meno lavori significativi di Correggio rispetto a qualunque altra nazione guida, era perfettamente possibile a un conoscitore fare un riferimento scherzoso alla “correggiosità di Correggio”, dal momento che questa allusione a quella forma di religiosità in qualche modo untuosa che si trova nei suoi quadri sarebbe stata facilmente capita.
Tuttavia erano i Correggio in Italia che, almeno fino al diciannovesimo secolo, richiamavano l’attenzione maggiore, ed è sulla base delle reazioni sollevate che possiamo misurare il richiamo che esercitavano. Questi Correggio si trovavano a Modena fino al trasferimento a Dresda dei migliori quadri della collezione ducale, e a Parma.
Si potrebbe scrivere un saggio interessante a proposito degli effetti prodotti sulla notorietà e sull’economia di certe città italiane dalla presenza anche di pochissime opere importanti che appartengano a uno degli artisti più ammirati. Oggi ci si stupisce, ad esempio, di quanto gli alberghi, i ristoranti e i negozi di cartoline a Borgo San Sepolcro e a Reggio Calabria debbano essere riconoscenti rispettivamente a Piero della Francesca e all’autore dei bronzi di Riace. Nel diciottesimo secolo Correggio svolse un ruolo analogo per gli abitanti di Parma, dove (secondo le parole dell’autorevolissimo Cochin) “ciò che è più degno di attenzione da parte degli amatori e degli artisti è senza dubbio il numero delle opere di Correggio che vi si può ancora vedere”. I visitatori più coscienziosi potevano andare in cerca delle altre glorie di quella bella città (tra le quali, naturalmente, i lavori di Parmigianino), ma la ragione principale per la quale erano venuti era l’opportunità di vedere Correggio.
Il quadro che richiamava più spontaneamente la loro ammirazione era Il Giorno, ma molto entusiasmo andava anche alla Sacra Famiglia, conosciuta come la Madonna della scodella. Infatti per molti visitatori restava ben poco altro da vedere, dal momento che dovevano trovarsi d’accordo con l’abate de Saint-Non, venuto a Parma in compagnia di Fragonard, sul fatto che “per quanto riguarda le famose cupole di quel grande maestro, che si trovano o alla cattedrale o alla chiesa di San Giovanni, sono talmente rovinate che non vi si riconosce più nulla”. Gli affreschi nella Camera di San Paolo non erano accessibili e praticamente non erano segnalati. Ciononostante, alcuni conoscitori fecero seri tentativi per esaminare la grande cupola in Duomo, e – soprattutto – quella a San Giovanni Evangelista la quale (secondo la comune opinione) era molto meglio conservata, nonostante l’illuminazione fosse deplorevole. E quello che vedevano in qualche misura li sconcertava. Erano venuti per trovare dolcezza e grazia, e al loro posto trovavano una grandezza monumentale: secondo Cochin le “figure sono colossali. Sarebbe difficile trovare una ragione convincente”, e Gibbon, che si richiamava a questa stessa opinione, pensava che “la grandezza delle membra e la forza dei muscoli danno loro un’aria un po’ troppo atletica”.
Fu il pittore tedesco Anton Raphael Mengs che per primo risolse questa apparente dicotomia in una serie di studi dedicati a Correggio (sulle cui opere tornò più di una volta) che sono tra gli esempi più belli e importanti di critica d’arte che siano stati scritti nel diciottesimo secolo. Come si conveniva a un artista che era stato chiamato con i nomi di Correggio e Raffaello, Mengs seguiva il principio ormai stabilito di confrontare i risultati dei due artisti (e anche di Tiziano) e finiva per allinearsi alla conclusione più diffusa, e cioè che Raffaello dovesse, in ultima analisi, essere considerato il più grande. Mengs riconosceva, d’altra parte, che Correggio era soprattutto il pittore della “grazia”. Ma trasformava totalmente il carattere della discussione insistendo sul fatto che la “grazia” non era, come si era convenuto fino ad allora, un dono di natura estremamente invidiabile (ma fondamentalmente secondario), acquisito con tutta facilità da quel genio provinciale appena istruito che era stato Correggio. Al contrario, pensava Mengs, Correggio doveva certamente aver visto ed essere riuscito a comprendere i lavori di Raffaello e Michelangelo a Roma, perché soltanto questa comprensione avrebbe potuto rendere ragione della grandiosità degli affreschi a San Giovanni Evangelista. Correggio poteva sì avere dipinto soprattutto con l’intento di dare piacere; ma questo piacere era di un ordine ben più alto di quanto si fosse sospettato fino ad allora: “fu il primo, che dipinse col fine di dilettar la vista e l’animo degli Spettatori, e diresse tutte le parti della Pittura a questo fine” – ed è la parola “animo” che è cruciale in questa frase.
Infatti, sebbene non sia giusto affermare che Mengs abbia esplicitamente riconosciuto gli affreschi di Correggio a Parma come la sua opera più importante, certo spetta a lui di aver reso assolutamente chiaro (per la prima volta) che la natura dell’arte di Correggio non può dirsi realmente intesa finché quegli affreschi siano ignorati o guardati soltanto con doveroso rispetto come se si trattasse di aggiunte eccezionali (e leggermente sgraziate) alla dolcezza dei dipinti da cavalletto. Mengs conosceva senz’altro molto bene quei dipinti da cavalletto; nessun conoscitore prima di lui li aveva visti in così gran numero, e neppure li aveva guardati con tanta attenzione (o, in certi casi, quando gli originali erano inaccessibili, aveva guardato le loro copie). Anche Mengs li amava profondamente per tutte le ragioni che avevano attratto altri appassionati e si compiaceva del fatto che fossero, per esempio, “di grande morbidezza, d’impasto eccellente, e gustosissimi in tutto”; ma tutto questo non gli impediva, come era successo ad altri appassionati, di capire che il suo “Disegno è d’un carattere grandioso”, e che d’altra parte gli apostoli nudi nella cupola di San Giovanni Evangelista non erano, come pensavano Cochin e altri, inesplicabilmente colossali e troppo simili ad atleti, ma piuttosto “in uno stile sì grandioso, che sorpassa ogni immaginazione”. Mengs arrivava anzi al punto di dire che “niuno, se non Michelangelo, seppe al pari di Correggio la scienza delle forme, e la costruzione della figura umana”. Per Mengs infatti la qualità suprema di Correggio era la sua maestria nel chiaroscuro (in cui era superiore a Raffaello) piuttosto che nel colore, e, soprattutto, Correggio era un pittore di grande serietà e cultura, perfettamente informato sulla scultura dell’antichità e sui lavori dei suoi più grandi contemporanei. Il suo stile e la sua tecnica meritavano di essere studiati con attenzione, come, d’altra parte, avevano fatto (con grande vantaggio) i Carracci e altri artisti.
Così gli amanti di Correggio che erano a conoscenza della valutazione datane da Mengs, avrebbero potuto ora per la prima volta avvicinarsi ai loro quadri preferiti senza quel leggero senso di diffidenza proprio di chi pensava che le qualità spontanee di Correggio non dovessero meritare tanta ammirazione incondizionata. Dopotutto, era stato dimostrato che Correggio era un pittore tanto importante quanto delizioso.
Echi di Mengs si possono trovare in molta della letteratura critica su Correggio della fine del Settecento e dell’inizio dell’Ottocento, sebbene nel caso di Stendhal sia probabilmente più giusto parlare di plagio che di echi. Non ci deve sorprendere, naturalmente, che Stendhal, che attribuiva valori tanto trascendentali alla ricerca del piacere, abbia fatto riferimento al “divino Correggio” più e più volte tanto nelle sue opere pubblicate in vita quanto in quelle apparse solo dopo la sua morte, sebbene sia piuttosto curioso il fatto che abbia dichiarato che “ancora oggi Correggio è quasi sconosciuto”. Stendhal viaggiò attraverso buona parte dell’Europa – per esempio, fu sopraffatto dai Correggio che vide a Dresda nel 1813, non molto dopo la ritirata da Mosca – ma dal momento che l’esercito francese aveva sottratto da Parma i dipinti più belli dell’artista, poté ammirarne i lavori con tutta comodità proprio a Parigi. L’entusiasmo di Stendhal per Correggio era illimitato, ma le sue osservazioni dirette tendono a essere più stimolanti in generale che acute nei singoli particolari. Ciò che risulta, d’altra parte, di estremo interesse nel contesto del nostro saggio è il fatto che parlando del suo capolavoro, La certosa di Parma, in una famosa lettera a Balzac, Stendhal spiegasse che “tutto il personaggio della duchessa Sanseverina è copiato dal Correggio (cioè produce sulla mia anima lo stesso effetto di Correggio)”; e anche che i capolavori a Dresda gli possano avere suggerito di fare due osservazioni che si sono rivelate tra le più fortunate dell’intero diciannovesimo secolo. Stendhal arrivava a dire che questi quadri “visti da lontano [...] danno piacere indipendentemente dal soggetto che rappresentano, avvincono l’occhio per una sorta di istinto” – un concetto che fu ripreso, in una forma leggermente variata, da Baudelaire nel suo apprezzamento di Delacroix e dalle generazioni dei conoscitori successivi, impazienti di sottolineare le qualità “formali” nell’arte. E osservando subito dopo che “Correggio ha avvicinato la pittura alla musica” Stendhal andava anche oltre nella direzione della pittura non rappresentativa e, soprattutto, gettava le basi per un’analogia tra queste due arti che in futuro avrebbe goduto della stessa considerazione toccata alla nozione tradizionale, già allora caduta in discredito, secondo la quale le due arti sorelle erano pittura e poesia.
Nessun personaggio di simile importanza avrebbero parlato di nuovo di Correggio con un tale sfrenato entusiasmo, ma il pittore continuò a essere molto apprezzato per un’altra generazione almeno. Naturalmente la presenza della Notte e di altri suoi dipinti a Dresda aveva reso la sua fama particolarmente illustre in Germania, e abbiamo visto che fu un nativo di Dresda, Anton Raphael Mengs, a scrivere con maggiore perspicacia su di lui. Nel curioso romanzo di Wilhelm Heinse, Ardinghello, del 1787, gli affreschi in San Giovanni Evangelista sono descritti in termini entusiastici; e una volta a Parigi tra il 1802 e il 1804, Friedrich von Schlegel (il cui fratello August Wilhelm scrisse una poesia sull’artista) si dimostrò un ammiratore sottile, sebbene riluttante, di Correggio. Ma ormai la situazione in qualche modo era cambiata. Schlegel rifiutava i Carracci, Guido Reni e gli altri pittori del Seicento che erano stati sempre considerati come illustri eredi di Correggio, e riconosceva che gli ci era voluto “un lungo e serissimo studio per comprendere” Correggio. Come Stendhal (che probabilmente aveva derivato l’idea da lui) Schlegel confrontava i dipinti di Correggio con la musica, ma riconosceva loro anche una solennità maestosa che Stendhal avrebbe trovato sicuramente fuori posto. Per Schlegel tutti i dipinti erano allegorie, “il cui compito è di rappresentare la lotta e il conflitto tra i principi del bene e del male” così che, ad esempio, nella Notte la bellezza del Cristo appena nato contrasta con la “colpevolezza e l’oscurità di questo mondo terreno in decadenza e rovina”, esemplificate – piuttosto sorprendentemente – dall’“orrendo vecchio” e dall’anziano pastore ai lati del quadro. D’altra parte Schlegel era consapevole che la corrente stava mutando, e che “molti artisti intelligenti, educati a Roma [...] rimproverano non poco questo maestro, perché le sue composizioni non si armonizzano con le loro idee sulla correttezza del disegno né con le loro forme ideali”.
Correggio, che una volta aveva dispensato tanto piacere terreno – come era successo ancora con Stendhal – , ora andava difeso come un pittore di fede, sincerità e purezza. Hegel lo includeva tra gli artisti “all’apogeo della pittura cristiana” e diceva al pubblico delle sue lezioni che “non vi è nulla di più amabile che l’ingenuità di Correggio, la quale è di una grazia non naturale, ma religiosa e spirituale; e niente vi è di più dolce della sua bellezza ed innocenza sorridente e inconsapevole”. Ma questo tipo di approccio non poteva durare a lungo. Il culto del “primitivo” era destinato a segnare l’inizio della fine del richiamo di Correggio: questi infatti non poteva, come succedeva a Raffaello, essere rispettato per essersi affrancato a poco a poco dallo studio di Giotto, di Masaccio, di Perugino e per avere – almeno nella sua giovinezza – mantenuto qualcosa della virtù e dell’innocenza che venivano riconosciute a quegli artisti. Correggio era nato col peccato originale (nessuno sapeva con sicurezza chi fosse stato il suo maestro), e questo era fin troppo ovvio. “Noi non pittori”, scriveva nel 1849 il preraffaellita anglo-italiano Dante Gabriel Rossetti, deridendo il famoso “anch’io sono pittore” che per più di due secoli era stato attribuito a Correggio. Il commento di Rossetti fu espresso in un sonetto “dopo un attento esame delle Tele di Rubens, Correggio, et hoc genus omne” al Louvre, e continuava: “Per Dio, o loro o noi!”.
Quando Jacob Burckhardt scriveva su Correggio nel suo Cicerone del 1855, riconosceva che “Vi è chi da lui si sente assolutamente respinto e chi ha ogni diritto di detestarlo”. Ma pensava che valesse la pena di andare a Parma “possibilmente col bel tempo, non fosse altro che per vedere le altre opere d’arte che vi si trovano, e conoscere gli abitanti, i quali con la loro gentilezza e cortesia riescono a far dimenticare il selciato più brutto d’Italia”. Quanto si sarebbero stupite le generazioni precedenti a leggere queste parole! Visitare Parma “per le altre opere d’arte” e per le buone maniere dei suoi abitanti! Ma Burchkardt, naturalmente, non ignorava Correggio. Apprezzava le sue splendide qualità come pittore e come realista ma, insisteva Burchkardt, qualità simili non erano sufficienti, dal momento che Correggio mancava di tutto quanto ci può innalzare da un punto di vista morale così che, ad esempio, non si era avveduto che mostrando tutte le figure sulla cupola di San Giovanni Evangelista in una prospettiva realistica piuttosto che ideale, avrebbe finito col far assomigliare Cristo a una rana.
È vero anche che alcuni anni dopo Burckhardt cambiò il suo parere su questi affreschi, e che nel 1878 si rivelò perfettamente consapevole della loro grandiosità schiacciante che confrontava a quella di Prometeo e dei Titani, ma la sua cauta reazione del 1855 è molto più in armonia con un modo di pensare che era molto diffuso tra chi allora rifiutava in blocco l’arte di Correggio.
Eppure non si può citare la reputazione di Correggio esclusivamente come un esempio di ciò che è successo ad alcuni artisti (come Guido Reni) la cui fama un tempo incontestata fu eclissata alla metà dell’Ottocento e ha riacquistato vigore alla metà del nostro secolo. La ragione non è soltanto (come è stato fatto notare in passato) che i suoi dipinti sono stati in gran parte protetti dai capricci del mercato. Più interessante – e più importante per una comprensione della cultura europea – è il fatto che la sua fama, sebbene grande, era sempre in qualche modo problematica. Fu l’incertezza circa le sue vicende biografiche che condizionò direttamente le opinioni sulla sua arte: per esempio, non è davvero mai stato a Roma, come sembra implicito in Vasari? E in questo caso come ha potuto raggiungere una punta di creatività artistica che era pressoché senza pari? Questi quesiti, da soli, hanno scatenato un fervore di ricerche antiquarie che non fu accordato ad alcun altro pittore, nemmeno a Raffaello: cominciò all’inizio del Settecento e culminò nei tre inestimabili e intollerabili volumi dell’abate Luigi Pungileoni pubblicati a Parma tra il 1817 e il 1821. Sicuramente la vita di Correggio dovette sembrare ben diversa da quella degli altri artisti: tra tutti quei quadri molto famosi dipinti nell’Ottocento per illustrare la carriera degli artisti del Rinascimento, risulta che solo quelli dedicati a Correggio sulla base dell’esiguo resoconto del Vasari tendevano a rappresentarlo povero, infelice e affamato anziché ricco, stimato e corteggiato dai sovrani”.
Da un certo punto di vista, Correggio fu sicuramente impoverito nel corso dell’Ottocento. Tra i quadri più ammirati che gli fossero attribuiti nella galleria di Dresda, c’era una piccola Maria Maddalena (dipinta su rame), sdraiata in un paesaggio e nell’atto di leggere un libro. Sarebbe difficile esagerare le estasi provocate da quest’opera, e fu probabilmente questo stesso entusiasmo che incoraggiò Giovanni Morelli, grande ma in alcuni casi perverso conoscitore, e amante della tattica di “épater le bourgeois”, a deprezzare questa “brillante e in qualche modo civettuola Maddalena” come il lavoro di qualche artista fiammingo della fine del diciassettesimo o dell’inizio del diciottesimo secolo, probabilmente Adriaen van der Werff. Mai un quadro di un artista dello stesso peso – Raffaello o Tiziano, per esempio – fu tanto ammirato per essere poi radiato dal suo catalogo durante gli spietati (e in genere necessari) processi di epurazione introdotti dai nuovi conoscitori; e l’effetto fu chiaramente devastante. Morelli da parte sua si assicurò che fosse il più rovinoso possibile collocando la sua scomunica della Maddalena nel contesto di una di quelle scene comiche che gli piaceva tanto inventare: la difesa del quadro è affidata a un “signore tarchiato, dalle guance rubiconde” e alla sua figliola debole di vista, che avvicina agli occhi la sua lorgnette d’oro dichiarando che “non c’è nessun altro quadro al mondo così stupendo, così profondamente sentito... Debbo confessare, babbo, che preferisco questa bella peccatrice del Correggio a tutte le Madonne di Raffaello e di Holbein”. Entrambi sono prevedibilmente indignati quando Morelli cerca di dimostrare con un esame ravvicinato del quadro che i passati entusiasmi di un Mengs o di un Wilhelm von Schlegel sono del tutto irrilevanti: il loro gusto era, dopotutto, soltanto il gusto del loro tempo... Ma Morelli dimentica di notare che anche il suo gusto è soltanto il gusto del suo tempo, e chi è irritato dalla sua tronfia spavalderia – pur essendo tenuto a riconoscere le sue reali capacità di osservazione e la sua grande predisposizione per la commedia – può derivare una certa soddisfazione dal fatto che successivamente alcuni conoscitori sono giunti a concludere che il quadro (che si perse durante la guerra) fosse stato, in ultima analisi, dipinto da Correggio”.
È che Morelli, come tanti altri scrittori, trovò molto più difficile arrivare a conclusioni soddisfacenti sui dati essenziali dell’arte di Correggio che su qualunque altro maestro: la sua natura era “semplice, ingenua e delicata, ma in qualche modo anche morbosamente eccitata”; i suoi quadri più tardi per le chiese erano convenzionali e mancavano di freschezza; Correggio era nel suo vero elemento nelle mitologie greche. E – in un ingegnoso tentativo di risolvere tutti i possibili paradossi – Morelli dichiarava che “nessuno ci ha mai rappresentato la sensualità così spiritualizzata, così ingenua e così pura, come Correggio”. Alla luce di tanta critica ottocentesca, possiamo vedere che anche Morelli cerca di guadagnare il pittore alla causa della purezza, ma senza apprezzare certi aspetti della sua arte che potevano essere più autentici per lui e per i suoi ammiratori settecenteschi.
I costanti cambiamenti di tono che troviamo nelle discussioni sull’arte di Correggio nel Sette e nell’Ottocento possono essere illustrati da una serie di quesiti il cui numero potrebbe essere ulteriormente aumentato: la sua formazione avvenne in provincia o in una grande città? Correggio era facilone e superficiale o colto e raffinato? Era voluttuoso o puro di spirito? La sua ispirazione fu essenzialmente pagana o cristiana? Era ingenuo o consapevole dei propri mezzi? Fu realmente un artista del Rinascimento o, per natura, un pittore barocco nato fuori stagione? Tutte queste domande, che non potranno mai avere risposta, erano ripetitive e diventano noiose. Ma non sono insignificanti. Le ambiguità che sono al centro dei dipinti di Correggio rappresentano una sfida alla nostra idea di ciò che ci aspettiamo dall’arte in generale; ci impongono di considerare, come capita con le opere di pochissimi altri pittori, ciò che intendiamo realmente quando parliamo di piacere estetico. Sono domande, quindi, davvero importanti e non soltanto pedanti. Pure, quando discutiamo dell’importanza di un artista, pensiamo in genere all’importanza che ha avuto per gli altri artisti – non soltanto per quelli che guardano direttamente ai suoi risultati. In questo senso anche il posto di Correggio nella storia dell’arte è un posto dominante, e se questo saggio avesse dovuto trattare della sua eredità nel Cinque e nel Seicento, questo posto avrebbe dovuto essere discusso a lungo. Perché il debito verso Correggio da parte di artisti di prim’ordine come Federico Barocci, Annibale Carracci, Giovanni Lanfranco e Gian Lorenzo Bernini (per citarne solo alcuni) è talmente grande che siamo in diritto di dichiarare che Correggio ha cambiato l’intero corso della storia dell’arte. Quando veniamo, però, al Sette e all’Ottocento, la situazione è in qualche modo differente. Non, naturalmente, che la presenza di Correggio non si faccia più sentire: anzi, durante il diciottesimo secolo si possono trovare quasi dovunque tracce della sua influenza, in Francia in particolare. Ma si sente che Correggio non sta più ispirando risultati artistici nuovi e arditi, come era successo con le generazioni precedenti. Correggio era stato assorbito troppo facilmente nel sangue di pittori come François Boucher e non portava più con sé una presenza distinta; al contrario, fu quando l’influenza di Boucher cominciò a declinare e la nuova severità introdotta da David sembrò affermarsi incontrastata, che l’impatto con Correggio tornò ad avere un significato originale e proficuo. Fu il bravo (e stranamente dimenticato) Pierre-Paul Prud’hon che si volse a Correggio per una forma d’ispirazione più originale e più feconda rispetto al modo in cui lo stesso Correggio era piaciuto ai pittori rococò, e fu Prud’hon che portò l’eredità di Correggio nel campo dell’arte ottocentesca, dove fu avidamente raccolta in primo luogo da Diaz e successivamente da Henner. Sono nomi molto piccoli se confrontati a quelli di Annibale Carracci e Bernini, ma diventa interessante riunirli tutti, i grandi come i piccoli. Correggio è sicuramente uno dei pochi grandi artisti la cui influenza sia sempre stata benefica. La storia dell’arte è costellata dei nomi delle vittime di Raffaello e di Michelangelo, ma Diaz e Henner sono sicuramente artisti molto migliori di quanto sarebbero stati se non avessero scoperto Correggio.
Fortunatamente, tuttavia, il restauro degli affreschi in San Giovanni Evangelista renderà presto chiaro che la sua importanza richiede molto di più alla nostra attenzione e che, alzando gli occhi verso di essi, ci troveremo (secondo le parole di Mengs) alla presenza di uno “stile sì grandioso che sorpassa ogni immaginazione”.