Con la sua pittura, Claudio Olivieri cercava di dar forma all’invisibile. Si potrebbero riassumere così, sicuramente banalizzando ma restituendo un’immagine lampante ed efficace, gran parte delle ricerche del grande artista romano di nascita, mantovano d’adozione, milanese di formazione e cosmopolita per cultura, tra i maggiori esponenti della pittura analitica italiana e non solo, benché l’artista stesso avvertisse come stretta e inadeguata qualunque categorizzazione. È stato ad ogni modo uno degli artisti più coerenti e costanti della seconda metà del Novecento. La gloria dell’invisibile, la luce dell’invisibile, luce inafferrabile, Infinito visibile: sono i titoli di alcune delle mostre di Claudio Olivieri che si son succedute negli ultimi anni. Infinito visibile è la prima rassegna a essersi tenuta dopo la scomparsa dell’artista nel 2019: a Mantova, la città della madre, nelle sale al pian terreno di Palazzo Ducale l’Archivio Claudio Olivieri ha operato una selezione di opere dagli esordî fino alle fasi estreme della sua attività per dar conto del percorso unico, libero, originale d’un artista che, si legge negli apparati d’accompagnamento della mostra, ha trovato termini di confronto in tutti i continenti, aggiornandosi sugli esiti della “Geplante Malerei” tedesca, della “Post-Painterly Abstraction” americana, e financo della “Dansaekhwa”, la pittura monocroma (questo vuol dire il termine) emersa nella Corea del Sud degli anni Settanta, e dell’esperienze del gruppo giapponese Mono-Ha.
Cos’è l’invisibile per Claudio Olivieri? Intanto, è letteralmente ciò che sta oltre il visibile. Può sembrare un paradosso: una pittura che cerca di far vedere ciò che non si può vedere, ciò che sta oltre i sensi. C’è però anche un “vedere senza origine” secondo l’artista, e la pittura è lo strumento che dà corpo a queste visioni che non sono fondate su di una realtà tangibile, benché non trascendano mai del tutto il percepito. L’invisibile è una dimensione che va al di là del fenomenico: dentro all’invisibile c’è la storia, c’è la memoria, c’è il mito, ci sono i ricordi, c’è l’immaginato, c’è il pensiero, c’è in sostanza una realtà che è anche più larga e sorprendente di quella che si può toccare coi sensi. “È con la pittura che le apparenze si mutano in apparizioni: ciò che è mostrato non è la verosimiglianza ma la nascita”, ha spiegato l’artista in uno dei pensieri che Matteo Galbiati ha riunito in un volume, Del resto, contenente un’antologia di scritti di Olivieri e pubblicato nel 2018. Ed è per queste ragioni che i titoli delle opere di Claudio Olivieri assumono titoli così evocativi, legati a visioni, sogni, storie, personaggi, concetti filosofici: Metempsicosi, Hera, Vaneggiare, Estremo, Infine, A rischio, Brucia Bisanzio. Si comprende bene come l’urgenza di Olivieri sia dunque molto concreta, tanto che la pittura è per lui un fatto molto fisico. L’assoluto che cerca con le sue opere è sì “un qualcosa d’inafferrabile, di non codificabile in un’immagine, qualcosa che non può essere fissato su un supporto materiale”, ricordava Silvia Pegoraro in occasione d’una mostra di Claudio Olivieri tenutasi nel 2002 alla Casa del Mantegna di Mantova, ma la sostanza che lo fa emergere è viva. E di conseguenza, Olivieri ha voluto “imprimere il dipinto con l’infinito, accogliendo l’essenza mutevole della luce”, spiegava Matteo Galbiati in un articolo pubblicato su Espoarte pochi mesi dopo la scomparsa dell’artista. Una luce che è sempre viva, palpitante. Fisica e presente. Perché la pittura, spiegava lo stesso Olivieri, “è anche corpo, fisicità, presenza”.
Ecco perché la luce è il mezzo con cui Olivieri dà forma all’infinito, all’invisibile. Una luce delicata che danza con eleganza sulla superficie della tela creando “cortine cromatiche” che, scriveva Giorgio Di Genova nella sua Storia dell’arte italiana del ‘900, “si muovono lievemente come veli al soffio della brezza”: il critico citava Barlume del 1983 come uno dei dipinti più esemplificativi della poetica di Claudio Olivieri. Luce tenue che, in questo dipinto, si rivela quasi con esitazione, luce che piove gentile dall’alto senza investire l’intera superficie, luce che si trattiene creando chiarori che appariscono gradatamente, variazioni di verde, un barlume che prende a diffondersi con timidezza. In altri dipinti di Claudio Olivieri la luce è, al contrario, più ostinata e perentoria, più accesa e invadente, in altri è invece quasi del tutto spenta, talvolta le lame luminose arrivano solitario, talaltra si presentano in coppia, salgono o scendono, quasi sempre in verticale, come accade in Barlume. Le tracce cromatiche impresse dalla luce sono “indici dell’altrove”, come le ha efficacemente definite Giorgio Verzotti.
Questo disvelamento dell’invisibile, frutto di quella “indagine, lucida e sofferta, sull’infinitezza dello spazio e sulla mutevolezza della luce” (così Fabrizio D’Amico nell’introduzione d’una mostra di Claudio Olivieri alla Galerie 21 di Livorno) che sempre ha caratterizzato la sua ricerca, avviene dinnanzi agli occhi del riguardante con una pittura che non è solo evocativa, non solo trasporta chi la guarda in una dimensione lontana e altra, ma è anche estremamente meticolosa. Dopo un inizio di carriera caratterizzato da opere quasi istintive e molto più materiche di quelle che avrebbero poi marcato il prosieguo del suo percorso, dagli anni Settanta in avanti Olivieri ha costruito le sue immagini con calibratissime stratificazioni di colori, steso con l’aerografo (anche se poi non avrebbe comunque rinunciato al pennello o addirittura allo straccio) in campiture omogenee per ottenere velature, fasce luminose, aloni di diversa entità che si dispongono attorno a un punto d’origine, a volte diventando più dense, oppure allontanandosi, creando diversi piani di profondità, apparendo e scomparendo dentro affascinanti movimenti luminosi che registrano le tracce dell’infinito, ne catturano una parte, la mostrano all’osservatore. In Barlume, per esempio, l’invisibile si manifesta per un attimo per poi scomparire di nuovo, tra la luce che digrada verso il buio venendo però alla fine ravvivata da un ultimo bagliore.
Sarà interessante ricordare che alla mostra Infinito visibile, in autunno, nelle mattinate di tempo terso, dai finestroni delle sale di Palazzo Ducale dove son stati creati gli spazî de “LaGalleria”, l’ambiente del museo riservato all’esposizioni d’arte contemporanea, era possibile vedere alcuni raggi di sole filtrare dalle grate e posarsi sui dipinti. Brani d’infinito e di non visibile interagivano in maniera sorprendente e inconsapevole con la pittura di Olivieri, esaltandone la qualità, sottolineando il virtuosismo della sua tecnica. E diventando ulteriori interpreti dei suoi significati.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).