Il Castello Mackenzie di Genova, il fantastico sogno di un appassionato d'antichità e di un grande architetto


Il Castello Mackenzie è uno degli edifici più incredibili di Genova: è la concretizzazione del sogno di Evan Mackenzie, grande appassionato di antichità, e dell'architetto Gino Coppedè.

Aveva appena trent’anni Gino Coppedè (Firenze, 1866 - Roma, 1927) quando s’accingeva a progettare la sua prima opera di rilievo, quella che gli avrebbe poi concesso la fama presso i contemporanei e avrebbe contribuito a lanciare il suo nome. Coppedè, giovane talentuoso ma allora senza esperienza, era stato notato dal ricchissimo assicuratore Evan Mackenzie (Firenze, 1852 - Genova, 1935), prima agente dei Lloyd’s di Londra, e quindi, nel 1898, fondatore di una nuova e moderna compagnia assicurativa, la Alleanza Assicurazioni, tuttora esistente: Mackenzie era nato a Firenze da un nobile avventuriero scozzese, ed era innamoratissimo della sua città natale. Qui, era solito frequentare la bottega dello scultore Pasquale Romanelli (Firenze, 1812 – 1887), la cui figlia, Beatrice, aveva sposato Gino Coppedè: Mackenzie si era da tempo trasferito a Genova e intendeva dar forma a un suo sogno, quello di veder realizzata una sontuosa residenza che gli ricordasse l’amata Toscana. In particolare, Mackenzie amava di Firenze la sua storia: Medioevo, Rinascimento, Cinquecento. Aveva addirittura avviato una collezione di edizioni dantesche. Dunque, anche la residenza avrebbe dovuto dargli l’impressione di vivere nel cuore di Firenze.

Mackenzie, a Genova, aveva comperato un immobile posto nei pressi delle antiche mura seicentesche, sui bastioni di San Bartolomeo. Una posizione di gran pregio: vicino all’attuale piazza Manin, sopra una collina, dalla quale si gode d’un bel panorama sulla città. Il giovane Gino Coppedè gli era stato probabilmente presentato dal suocero, e gli aveva fatto una buona impressione. Acculturato, versatile, fantasioso, preparato, con un ottimo bagaglio di studî alle spalle, dacché aveva studiato dapprima alla Scuola Professionale di Arti Decorative Industriali di Firenze, e quindi presso la locale Accademia di Belle Arti, nonché profondo conoscitore della storia e dell’arte di Firenze, Gino Coppedè sembrava l’architetto ideale per il progetto, malgrado la scarsa esperienza. Si trattava, in buona sostanza, d’una scommessa: una scommessa che Mackenzie avrebbe vinto in maniera trionfale. Anche perché Coppedè non si rivelò un passivo esecutore: fu probabilmente lui a suggerire all’assicuratore scozzese di non restaurare l’edificio che aveva acquistato, ma di costruire quello che il decreto comunale cita come “un altro fabbricato più grandioso”. Il primo progetto, che prevedeva una ristrutturazione dell’edificio preesistente, fu dunque radicalmente rivisitato, così da esser trasformato nel progetto per una totale ricostruzione, in accordo col gusto del committente, che era del resto in linea con le mode che s’erano già da tempo diffuse nella terra d’origine di Mackenzie: i diversi revival dell’era vittoriana (neoromanico, neogotico, neorinascimentale) finirono per fondersi in un eclettismo che aprì a edificî che assommavano elementi decorativi delle epoche storiche più disparate. Alla fine del secolo non si cercava il rigore filologico: a orientare le scelte erano semmai gli accostamenti sorprendenti dettati dai gusti personali.

Fu così anche per l’edificio progettato da Gino Coppedè, che sarebbe diventato poi noto come il Castello Mackenzie. Il giovane architetto lo immaginò come un antico maniero medievale, dotato di un corpo principale a pianta rettangolare cui aggiunse un avancorpo che dà al castello l’apparenza d’esser costituito da due edificî distinti. Per la facciata che dà su via Cabella, Coppedè tenne presente il Palazzo Pubblico di Siena: anche qui abbiamo una facciata leggermente curva, con i rivestimenti dei piani in due materiali diversi (pietra al pianterreno, laterizio al primo piano, poi di nuovo pietra nei piani superiori), gli archi ogivali a incorniciare porte e finestre, i merli guelfi che decorano l’ultimo piano. La facciata che dà sulle mura di San Bartolomeo è invece molto più complessa. La porzione più vicina al mare ha la struttura di diversi palazzi fortificati del medioevo italiano, con una severa facciata in pietra e uno scalone in diagonale addossato alle pareti: si pensi al Palazzo Pretorio di Prato, al Palazzo del Podestà di Castell’Arquato, alla Torre ezzeliniana di Monselice, o anche al cortile del Palazzo del Bargello di Firenze. Lo stesso motivo si ripete, peraltro, sul lato contiguo. La facciata sulle mura di San Bartolomeo prosegue poi con un elemento in laterizio a un piano, decorato con archetti pensili e oltre il quale si scorge il corpo di fabbrica, e con l’ultima porzione del muro di cinta, che termina con una torretta al centro della facciata. Sul lato corto, quello rivolto verso il mare, che smette i panni della fortezza per assumere quelli della dimora signorile, svetta poi la torre più alta del Castello Mackenzie, una sorta di “versione dimagrita” della Torre di Arnolfo a Firenze o della Torre del Mangia a Siena.

Vista principale del Castello Mackenzie
Vista principale del Castello Mackenzie. Ph. Credit Cambi Aste


Vista da via Cabella
Le due torri da via Cabella. Ph. Credit Cambi Aste


Il Castello Mackenzie in una foto d'epoca
Il Castello Mackenzie in una foto d’epoca


Dettaglio della Torre
Dettaglio della Torre. Ph. Credit Cambi Aste


Da sinistra a destra: Prato, Palazzo Pretorio; Castell'Arquato, Palazzo del Podestà; Monselice, Torre Ezzeliniana. Ph. Credit Finestre sull'Arte
Da sinistra a destra: Prato, Palazzo Pretorio; Castell’Arquato, Palazzo del Podestà; Monselice, Torre Ezzeliniana. Ph. Credit Finestre sull’Arte


La Torre di Arnolfo a Firenze e la Torre del Mangia a Siena. Ph. Credit Finestre sull'Arte
La Torre di Arnolfo a Firenze e la Torre del Mangia a Siena. Ph. Credit Finestre sull’Arte


Luigi De Servi, Ritratto di Ewan Mackenzie (1902; olio su tela, 136,5 x 136,5 cm; Genova, Galleria d'Arte Moderna)
Luigi De Servi, Ritratto di Ewan Mackenzie (1902; olio su tela, 136,5 x 136,5 cm; Genova, Galleria d’Arte Moderna)


Gino Coppedè
Gino Coppedè

Il Castello Mackenzie non era il primo edificio del genere “revival” a Genova: qualche anno prima, nel 1892, veniva infatti inaugurato il Castello d’Albertis, dimora dell’esploratore Enrico Alberto d’Albertis (Voltri, 1846 - Genova, 1932), che aveva affidato il progetto della sua dimora a un team d’architetti e ingegneri supervisionati da Alfredo d’Andrade (Lisbona, 1839 - Genova, 1915). Tuttavia, il Castello d’Albertis e il Castello Mackenzie sono separati da profonde differenze. Per il Castello d’Albertis, infatti, i progettisti vollero essere quanto più filologici possibile ideando un edificio ispirato esclusivamente alle dimore del Medioevo genovese, con citazioni dal Palazzo San Giorgio, dalla torre degli Embriaci, dalle case dei Doria, spaziando però anche oltre la regione (per esempio, ci sono elementi ispirati al chiostro di San Colombano a Bobbio) ma senza travalicare l’epoca di riferimento. Il Castello Mackenzie, al contrario, è traversale rispetto agli evi: ci sono elementi medievali, altri rinascimentali, altri ancora neoclassici, senza considerare i tanti elementi decorativi in accordo con le mode del tempo, come le scale a chiocciola in ferro battuto con i motivi geometrizzanti tipici dello stile liberty. Coppedè non guardava alle teorie di John Ruskin, William Morris, Eugène Viollet-le-Duc: non gl’interessava essere filologico. Gli premeva, semmai, essere eclettico, e al contempo moderno. Del resto, lo trovava anche molto più divertente: al termine dei lavori, in un’intervista rilasciata al quotidiano genovese Il Caffaro, avrebbe detto, con quell’ironia tipicamente toscana che lo caratterizzava, “mi ci sono gingillato un po’”. Una battuta che riassumeva bene le idee che avevano portato alla nascita del Castello Mackenzie.

Tuttavia, “gingillarsi” col Castello non significava ritenere che l’impresa fosse un gioco. Anzi: per portare a termine un’opera così impegnativa in tempi rapidi (e si consideri, del resto, che si trattava del progetto di un architetto esordiente, appena trentenne, e che non aveva nel suo curriculum altre realizzazioni precedenti), era necessaria un’organizzazione solida ed efficace. Coppedè diede dunque vita a un’opera corale, che seppe coinvolgere e valorizzare (in accordo, questa volta sì, con le idee di Morris e altri) il lavoro artigianale, garantito da diverse manifatture, tutte impegnate nella buona riuscita del progetto fornendo sculture, mosaici, vetri, elementi in ferro, mobilia e quant’altro. La bottega “capofila” era La Casa Artistica, il laboratorio guidato dal padre di Gino, Mariano Coppedè (Firenze, 1839 - 1920), abile ebanista, che s’occupò di fornire diversi mobili al Castello Mackenzie. Su coordinamento della Casa Artistica si muovevano poi tante altre botteghe, toscane e non solo. Le ceramiche furono fornite dalla manifattura Cantagalli di Firenze, specializzata nella realizzazione di terrecotte ispirate alle sculture robbiane. Delle vetrate si occupò invece la manifattura fiorentina De Matteis, una delle migliori botteghe italiane nella produzione di vetrate artistiche d’ispirazione medievale. Gli elementi in ferro furono commissionati alle Officine Michelucci di Pistoia, alla manifattura Checcucci di San Gimignano, e alle ditte di Giacomo Mantero di Genova e di Federico Pinasco di Recco. La stessa arenaria con la quale furono rivestiti i muri proveniva dalla Toscana. Infine, i mosaici furono richiesti alla società Musiva di Venezia.

Il loggiato del Castello
Il loggiato del Castello. Ph. Credit Cambi Aste


Camino in legno
Camino in legno. Ph. Credit Cambi Aste


Vetrate artistiche neogotiche
Vetrate artistiche neogotiche. Ph. Credit Cambi Aste


I mosaici
I mosaici. Ph. Credit Cambi Aste


Il pozzo
Il pozzo. Ph. Credit Cambi Aste

Così, anche per le decorazioni interne, Coppedè assecondò il gusto di Mackenzie (oltre che il suo) rifacendosi alla grande tradizione toscana, che l’architetto sentiva propria e verso la quale nutriva una passione profonda. Citazioni, riproduzioni, libere reinterpretazioni, accostamenti sorprendenti di elementi anche lontani tra loro nel tempo stupiscono chi si trova a percorrere le sale del Castello, ma al contempo convivono armoniosamente con le specifiche d’una residenza moderna in grado d’offrire ogni tipo di comodità a chi vi abitasse: tutto il castello era fin da principio dotato di rete elettrica in grado di raggiungere tutti gli ambienti, e lo stesso dicasi per l’impianto di riscaldamento centralizzato, e addirittura erano presenti un grande ascensore che collegava i piani interrati al secondo livello dell’edificio, e una piscina coperta riscaldata, con tanto di sauna. Un’architettura ispirata al passato doveva comunque, secondo le teorie più recenti, non far mancare alcuna moderna comodità al residente. Comodità, tuttavia, ben celate dalla vivacità degli elementi decorativi. Ha scritto Rossana Bossaglia, autrice assieme a Mauro Cozzi di un’importante monografia sui Coppedè, fondamentale per la loro ricollocazione storica: “Con un’esuberante ed eclettica commistione di stili — si veda il carattere «ravennate» dei mosaici, l’impostazione fiorentino-trecentesca e rinascimentale della costruzione e degli arredi, l’impronta senese della svettante torre, che ricupera le forme della Torre del Mangia, il tono altomedievale di molti motivi ad intreccio, il pervicace ed insistente gusto per il frammento antico, vero o falso, e per la composizione di pezzi di natura stilistica differente, romani, etruschi, quattrocenteschi, medievali — Coppedè qualifica l’edificio e soddisfa le esigenze del suo ricco ed intellettuale proprietario”.

Percorrere le sale del Castello Mackenzie significa quasi intraprendere un viaggio nella storia dell’arte: un viaggio che mescola assieme pezzi autentici, come antichi reperti archeologici romani incastonati nelle pareti, e pezzi imitati con perizia (la produzione di imitazioni, che talvolta peraltro servivano anche per orchestrare truffe ai danni dei ricchi collezionisti stranieri, benché non sia ovviamente il caso del Castello Mackenzie, era particolarmente fiorente all’epoca) disseminati lungo tutto il Castello e combinati per rievocare un insieme di sensazioni, un’atmosfera cara al committente, per dar corpo all’idea che vede nella pratica artigianale il più importante presidio della tradizione artistica toscana. Le commistioni cominciano già nell’atrio, coperto da volte a crociera sorrette da possenti colonne in marmo, decorate sulla sommità da capitelli con animali e motivi fitomorfi che ricordano quelli delle cattedrali romaniche, e alla base da leoni e grifoni che poggiano sui plinti. Accanto, la statua di una Venere neoclassica introduce il visitatore allo scalone monumentale, chiuso da balaustrine rinascimentali, che lo accompagna nel resto del viaggio. L’itinerario può dunque proseguire nella cappella neogotica, dove si trovano gli splendidi stalli lignei intarsiati, d’ispirazione trecentesca, fabbricati da La Casa Artistica a imitazione dei cori delle chiese toscane, e il grande organo a canne, oppure nei loggiati esterni, sulle cui pareti sono state apposte le terrecotte invetriate d’imitazione robbiana prodotte dalla ditta Cantagalli, e ancora nelle scenografiche grotte del Castello (con vere stalattiti in arrivo forse da Postumia, e rinforzate con cemento), dove con somma meraviglia si può ammirare una riproduzione della Venere di Milo.

Gli ambienti del castello, a cominciare dai saloni e dai vestiboli, abbondano inoltre di sontuose opere d’arte, che costituiscono uno degli elementi di spicco della decorazione del Castello Mackenzie, e concorrono a far emergere le ambizioni di Evan Mackenzie. L’opera più nota è probabilmente il dipinto murale che raffigura la costruzione della Torre del Castello: d’ispirazione rinascimentale (i personaggi paiono usciti da un dipinto del Ghirlandaio, mentre l’atmosfera e il cielo assumono un’aria veneteggiante), fu realizzato dal giovane Carlo Coppedè (Firenze, 1868 - 1952), fratello di Gino, che nella parte bassa dell’opera volle immortalare il committente, Evan Mackenzie che, vestito in blu secondo la moda del Quattrocento, arriva al tavolo dei progettisti per verificare l’avanzamento dei lavori, e il fratello Gino, che vediamo con la lunga barba nera mentre mostra il disegno della Torre al suo facoltoso cliente. Il tutto mentre dietro, sullo sfondo del mar Ligure, fervono i lavori, con gli operai che s’arrampicano sui ponteggi, altri che segano i materiali da costruzione, altri ancora che trasportano pietre e mattoni. L’atrio è invece decorato con un dipinto murale che raffigura un corteo di soldati in una Genova medievale: l’opera è pesantemente rovinata e non si legge bene, ma probabilmente era nelle intenzioni di autore e committente utilizzare materiali facilmente deperibili per rendere più realistico l’effetto del tempo che ha agito sull’immagine. Nella cappella è poi possibile trovare una splendida Annunciazione ch’è lei stessa commistione di elementi tratti da pittori diversi: le figure e la composizione rimandano al Beato Angelico, il vaso tra l’arcangelo Gabriele e la Vergine è tratto dall’Annunciazione di Simone Martini oggi agli Uffizi, gli alberi quasi stilizzati che si stagliano dietro il loggiato ricordano le opere di Alesso Baldovinetti. Importante, poi, l’insieme delle sculture: s’è già detto della riproduzione della Venere di Milo e della Venere neoclassica, ma passeggiando per il castello è possibile incontrare molte altre opere in marmo, tra cui un san Giorgio che imita la celeberrima statua di Donatello eseguita per Orsanmichele su incarico dell’Arte dei Corazzai, e un rilievo raffigurante Il viandante e la fonte, con una bellissima giovane fasciata da svolazzanti veli liberty che spreme un grappolo d’uva in una coppa che le viene presentata dal cavaliere: è opera, datata 1901, dello scultore Edoardo de Albertis (Genova, 1874 - 1950), tra i principali artisti della scena genovese del tempo.

L'atrio del Castello Mackenzie
L’atrio del Castello Mackenzie. Ph. Credit Cambi Aste


Dettaglio dei marmi dell'atrio
Dettaglio dei marmi dell’atrio. Ph. Credit Cambi Aste


Dettaglio di un capitello
Dettaglio di un capitello. Ph. Credit Cambi Aste


Gli stalli lignei della cappella
Gli stalli lignei della cappella. Ph. Credit Cambi Aste


L'Annunciazione della cappella
L’Annunciazione della cappella. Ph. Credit Cambi Aste


Carlo Coppedè, La costruzione della torre del Castello Mackenzie (1900-1902 circa; dipinto murale; Genova, Castello Mackenzie)
Carlo Coppedè, La costruzione della torre del Castello Mackenzie (1900-1902 circa; dipinto murale; Genova, Castello Mackenzie). Ph. Credit Cambi Aste


Dettaglio del dipinto della costruzione della torre del castello con Gino Coppedè che illustra il progetto a Evan Mackenzie
Dettaglio del dipinto della costruzione della torre del castello con Gino Coppedè che illustra il progetto a Evan Mackenzie. Ph. Credit Cambi Aste


Le grotte del castello con la Venere di Milo
Le grotte del castello con la Venere di Milo. Ph. Credit Cambi Aste


Il san Giorgio
Il san Giorgio. Ph. Credit Cambi Aste


Edoardo de Albertis, Il viandante e la fonte (1901; marmo; Genova, Castello Mackenzie)
Edoardo de Albertis, Il viandante e la fonte (1901; marmo; Genova, Castello Mackenzie). Ph. Credit Cambi Aste

Per Gino Coppedè, il Castello Mackenzie, che fu terminato nello spazio di pochi anni (assunse infatti l’aspetto definitivo già nel 1902, benché fosse stato inaugurato più tardi), rappresentò un autentico trionfo e l’inizio promettente d’una lunga carriera, che lo avrebbe consacrato come uno dei maggiori architetti italiani del primo Novecento. I giornali, soprattutto quelli locali, lodarono a gran voce la sua opera, lo intervistarono, s’interessarono al suo lavoro. In un suo saggio, la studiosa Micaela Giumelli riporta il giudizio di un quotidiano che apprezzò il Castello Mackenzie soprattutto per la Torre, che veniva definita “meritevole di speciale menzione”, una costruzione “dalla cui sommità si scoprono le circostanti terre e l’incantevole golfo per molte centinaia di chilometri”, un altro giornale rivolse un elogio alla “torre magnifica dalle linee arditissime”, che “signoreggia la città e le valli, salutata dal mare lontano e dai monti”. Altri ancora scrissero che “negli ornati dei capitelli nelle balaustre delle balconate si direbbe di poter ripensare un Bernini modernizzato, un Bernini del nostro tempo, che preferisce a coronare il Corinzio alcune belle faccie di femmina al posto delle classiche foglie di lauro e di quercia”. Per la stampa Coppedè era, in sostanza, un nuovo Bernini, e il Castello Mackenzie era un “oggetto straordinario e per magnificenza e per paradossalità” oppure, per utilizzare una definizione data da un altro quotidiano dell’epoca e poi ripresa da molti di quanti hanno descritto le meraviglie di questo incredibile edificio, un “capriccio di re”.

Il Castello Mackenzie aveva di fatto sancito la nascita del cosiddetto stile Coppedè: uno stile tuttavia difficilmente inquadrabile, come ha ben specificato Emanuela Brignone Cattaneo. “Non è il neogotico né il Rinascimento, non è il liberty ornamentale, ma di tutti si trova un accenno, una ripresa in chiave molto personale. Uno stile eclettico usato sfrenatamente, che si adattò in pieno al gusto del committente”. Un linguaggio particolarmente adatto alla ricca borghesia che, in Italia e in Europa, stava acquisendo un peso sociale sempre maggiore e cercava una propria identità culturale, in linea con lo status che aveva raggiunto: un’operazione nell’ambito della quale il recupero del passato giocava, almeno in Italia (uno stato giovane, che s’era formato da pochi decennî) un ruolo fondamentale. Coppedè inventò uno stile che gli procurò così diversi committenti, ma il suo porsi lontano tanto dall’Accademia quanto dalle avanguardie fu anche alla base delle pesanti critiche che si sarebbe attirato in seguito, tanto che, per molto tempo, l’espressione “stile Coppedè” assunse un’accezione negativa: tuttavia gli studî più recenti, come quello, citato sopra, di Rossana Bossaglia, hanno contribuito a ricollocare in una posizione più appropriata l’arte del grande architetto fiorentino. La sua arte, peraltro, gli garantì grande successo: dopo aver terminato il Castello Mackenzie, Coppedè ricevette molti altri incarichi, riuscendo a costruirsi un giro di danarosi clienti e arrivando fino a costruire a Roma un complesso di edifici ancor oggi noto come “Quartiere Coppedè”.

Quanto a Evan Mackenzie, continuò a risiedere nel Castello, assieme alla sua famiglia, fino alla scomparsa, occorsa nel 1935. Quattro anni più tardi, sua figlia Isa lo cedette a un’agenzia immobiliare. Occupato poi durante la seconda guerra mondiale, prima dai tedeschi e quindi dagli alleati, nel dopoguerra divenne sede di un locale comando dei Carabinieri, e negli anni Sessanta e Settanta fu sede della Società Ginnastica Rubattino, che lo utilizzò come palestra. Nel 1986 fu acquistato dal collezionista statunitense Mitchell Wolfson Jr., che lo restaurò a partire dal 1991 (negli anni in cui fu adibito a palestra, infatti, il Castello Mackenzie conobbe un notevole degrado), per poi, nel 2002, venderlo alla Casa d’Aste Cambi, della quale è ancor oggi la sede. Dunque, un luogo in cui ancor oggi l’arte è viva e che, esattamente come al tempo in cui fu costruito, non smette mai di stupire coloro che lo visitano.

Bibliografia di riferimento

  • Francesca Mazzino (a cura di), Giardini storici della Liguria: conoscenza, riqualificazione, restauro, San Giorgio, 2006
  • Giorgio Croatto (a cura di), Castelli in terra, in acqua e... in aria, atti del convegno internazionale (Pisa, maggio 2001), Università di Pisa, 2002
  • Emanuela Brignone Cattaneo, Genova: edifici storici e grandi dimore, Allemandi, 1992
  • Annalisa Maniglio Calcagno, Giardini, parchi e paesaggio nella Genova dell’Ottocento, Sagep, 1984
  • Rossana Bossaglia, Mauro Cozzi, I Coppedè, Sagep, 1982


Se ti è piaciuto questo articolo abbonati a Finestre sull'Arte.
al prezzo di 12,00 euro all'anno avrai accesso illimitato agli articoli pubblicati sul sito di Finestre sull'Arte e ci aiuterai a crescere e a mantenere la nostra informazione libera e indipendente.
ABBONATI A
FINESTRE SULL'ARTE

Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta

Gli articoli firmati Finestre sull'Arte sono scritti a quattro mani da Federico Giannini e Ilaria Baratta. Insieme abbiamo fondato Finestre sull'Arte nel 2009. Clicca qui per scoprire chi siamo





Commenta l'articolo che hai appena letto



Commenta come:      
Spunta questa casella se vuoi essere avvisato via mail di nuovi commenti





Torna indietro



MAGAZINE
primo numero
NUMERO 1

SFOGLIA ONLINE

MAR-APR-MAG 2019
secondo numero
NUMERO 2

SFOGLIA ONLINE

GIU-LUG-AGO 2019
terzo numero
NUMERO 3

SFOGLIA ONLINE

SET-OTT-NOV 2019
quarto numero
NUMERO 4

SFOGLIA ONLINE

DIC-GEN-FEB 2019/2020
Finestre sull'Arte