Non fa rumore, il pennello che sfiora la tela. Neppure un leggero fruscio, neppure lo stropiccio più flebile. Le setole distribuiscono il colore accarezzando la superficie della tela senza farsi sentire. I dipinti nascono nel silenzio. Ci s’illude allora d’esser soli, qui, tra le sale della Pinacoteca Albertina di Torino, mentre comincia un lunedì pomeriggio di primo inverno. Giorno e orario ideali per una visita nella più completa calma, certo. Ma non nella più completa solitudine. Un po’ perché tra poco, terminata la pausa pranzo, cominceranno ad arrivare i primi studenti dell’Accademia, che frequentano abitualmente la Pinacoteca. Magari s’aggiungerà anche qualche turista di passaggio. E un po’ perché in realtà non si è da soli, anche se non s’avverte alcun rumore. In quasi tutte le sale della Pinacoteca ci sono gli allievi del corso di pittura per adulti che l’Accademia Albertina di Belle Arti organizza con regolarità, incoraggiando gli aspiranti pittori a lavorare direttamente davanti alle opere. Come s’è sempre fatto nelle accademie.
La Pinacoteca Albertina non ha mai smarrito la propria identità di raccolta d’arte accademica, ci dice il responsabile delle relazioni esterne del museo, Enrico Zanellati, mentre ci accompagna nella visita. Altrove, i musei nati per fornire gallerie di exempla agli studenti d’un’accademia hanno seguito altri destini: alcuni sono diventati autonomi, sono diventati corpi staccati dagl’istituti scolastici assieme ai quali sono nati, altri hanno assunto connotazioni diverse, sono diventati famosi nel mondo per le opere che accolgono, tanto che quasi non viene più percepita la loro iniziale vocazione didattica, malgrado continuino a esser frequentati dagli studenti delle accademie per le quali sono sorti. Qui, all’Albertina, questa inclinazione è invece forte, è sentita, favorita, rivendicata con fierezza. Accade allora di frequente che i visitatori della Pinacoteca incontrino, girando per le sale, i pittori che s’esercitano davanti alle opere della raccolta. Una presenza discreta, silenziosa. Quell’incontro che sta diventando sempre più raro nei musei italiani, qui è invece piuttosto abituale. Un allievo ha appena posizionato il cavalletto davanti al San Luca di Vittorio Amedeo Rapous: deve ancora sistemare la tela, è arrivato da poco. C’è una signora che invece ha quasi finito di riprodurre, con una certa diligenza, uno dei capolavori del museo, il Plenilunio sul mare di Giuseppe Pietro Bagetti. Un’altra ha appena cominciato ad abbozzare un dettaglio di una copia del San Sebastiano di Guido Reni. Una copia al quadrato, insomma. Ecco allora che in queste sale si rinnova quasi ogni giorno quel rito che anima le accademie di belle arti da secoli, da quando son nate. I pittori di oggi fanno quello che facevano i loro colleghi di tre, quattro, cinquecento anni fa. Copiare i grandi. Ma si può andare ancora più indietro nel tempo, si può risalire a prima della metà del Cinquecento, a prima di quando Vasari fondava a Firenze la prima accademia della storia: prima che nascessero le scuole dove si riceveva un’istruzione formale, gli artisti facevano la stessa cosa nelle botteghe dei loro maestri.
Si pensa inevitabilmente a queste continuità storiche quando si varca una cortina e s’entra nel buio della sala che presenta ai visitatori della Pinacoteca i preziosi frutti del lavoro d’una scuola rinascimentale, quella di Gaudenzio Ferrari: la collezione dei cartoni di Gaudenzio e dei suoi allievi, che raccontano grosso modo cent’anni di storia della bottega avviata a Vercelli dal pittore valsesiano e portata avanti dai suoi eredi, capaci di perpetuare le idee del maestro che aveva saputo rinnovare la pittura piemontese guardando a Leonardo da Vinci, alla Milano di Foppa e Zenale, ma anche agli artisti nordici e a quelli d’area umbro-toscana. Sono questi cartoni il tesoro della Pinacoteca. “Un corpus unico al mondo”, lo ha definito la presidente dell’Accademia, Paola Gribaudo: “sono motivo d’orgoglio per la nostra Pinacoteca che li conserva con grande attenzione, opere d’arte straordinarie che ci consentono di entrare nelle botteghe del XVI secolo, scoprendo come avveniva l’educazione artistica nel Rinascimento, prima della nascita delle Accademie di Belle Arti”. Sono in gran parte cartoni eseguiti in preparazione di dipinti poi realizzati da Gaudenzio Ferrari e dagli allievi della sua bottega o dai suoi eredi. Ci sono cartoni suoi, di Girolamo Giovenone, di Bernardino Lanino, di Giuseppe Giovenone il Giovane, di Giovanni Pietro Lomazzo, altri ancora invece più genericamente riferiti alla bottega. Cinquantanove in tutto. Forse nessun altro museo ne possiede così tanti.
Enrico Zanellati si premura di sottolineare l’unicità di questo incredibile nucleo collezionistico. Già non è facile che un cartone del Cinquecento arrivi intatto fino a oggi: all’epoca i cartoni erano considerati oggetti d’uso comune, strumenti di lavoro, attrezzi da usare nella pratica quotidiana. Non si prestava grande attenzione alla loro conservazione. E quindi è rarissimo imbattersi in nuclei così consistenti di cartoni riferibili a un’unica scuola. E poi è rarissimo che ci siano arrivati in condizioni di conservazione tanto buone, considerato l’uso che se ne faceva: i cartoni non servivano solo per trasferire le idee dell’artista sul supporto definitivo, ma venivano non di rado impiegati dagli allievi di bottega per i loro esercizi. È rarissimo che qualcuno li abbia conservati tutti assieme. Ed è rarissimo che l’ultimo proprietario abbia deciso di regalarli in blocco a un museo.
I cartoni gaudenziani fanno parte della collezione della Pinacoteca Albertina dal 1832, quando il re Carlo Alberto decise di donarli all’Accademia affinché gli studenti avessero un’ulteriore base sulla quale esercitarsi. Da allora son sempre stati conservati con cura, e se prima questa meraviglia era esclusivo patrimonio degli studenti, oggi è diventata patrimonio di tutti. L’Accademia ha investito molto per far emergere il valore di questo eccezionale corpus grafico. Quando entriamo nella sala che li conserva, le luci sono spente: il recente riallestimento, del 2019, finanziato dalla Consulta Valorizzazione Beni Artistici e Culturali di Torino, ha introdotto un sistema d’illuminazione basato su sensori che accendono i proiettori ogni volta che viene percepito il passaggio dei visitatori, perché i cartoni sono fragili e non possono stare troppo tempo sotto la luce, che rischierebbe di rovinarli in maniera irreparabile. Non solo: gli ideatori dell’allestimento, ovvero Diego Giachello, Michele Cirone e Alessia Canepari, hanno evidentemente immaginato di rendere evocativa l’esperienza del visitatore, perché la luce è graduale, fa emergere poco a poco i cartoni dalla penombra, e i proiettori sono stati posti in modo da illuminare soltanto i cartoni, quasi come se fluttuassero nel buio. Non c’è nessuna luce ambientale. Sembra di vederli a lume di candela. Alcuni sono stati montati su pannelli che scorrono su guide, soluzione ideata per consentire d’esporre tutti i pezzi della raccolta. Infine, un monitor multimediale al centro della sala offre al visitatore una guida dettagliata, consentendo anche di mettere le opere a confronto e di vedere dettagli che a occhio nudo possono sfuggire.
Giovanni Testori, ch’è stato il massimo esegeta di Gaudenzio Ferrari, ha offerto un’immagine metaforica, poetica, per descrivere questi cartoni: li vedeva “come lenzuola, federe, tovaglie su cui i ricami e le ‘cifre’ fossero opera della madre, ma l’impronta dell’intera famiglia, avendo a capotavola il padre”, aveva la certezza che fossero “come la ‘dote’, la quale, nelle case d’un tempo, si preparava per le figlie, […] pronta, per il giorno in cui se ne andavano spose”. Gli occhi indugiano sul Compianto sul Cristo morto, il più fulgido, illustre esempio della grafica gaudenziana qui conservato: è il cartone preparatorio per l’opera ch’è oggi al Museo di Belle Arti di Budapest, ma che un tempo si trovava in una collezione privata milanese. “La scena”, scrive Alberto Cottino nella guida ufficiale del museo, “è intensa, segnata da un patetismo forte e sentito, in cui il luminoso corpo di Cristo, dalla forte fisicità, viene presentato allo spettatore, tenuto frontalmente dalla Madonna che spalanca la bocca in un grido soffocato, mentre le Marie, un santo in alto a sinistra e san Giovanni Evangelista a destra mostrano i segni della loro devozione”. Le morbidezze sono ancora quelle di Leonardo da Vinci, l’espressività intensa, sofferta, è quella della pittura lombarda che Gaudenzio aveva saputo ammodernare per irrorare di vita gli attori delle sue storie, per trasmettere attraverso gli occhi dei suoi personaggi la storia delle passioni dell’essere umano. È arte che si mischia col teatro, quella di Gaudenzio. Ne aveva dato somma prova al Sacro Monte di Varallo, avrebbe continuato a darne prova nei suoi dipinti. E, ovviamente, anche nei suoi cartoni.
Quando poi non c’era una storia da raccontare, come nel Compianto, Gaudenzio riusciva comunque a proporsi come un artista moderno: il cartone con Sant’Agabio di Novara e san Paolo, preparatorio per il polittico dell’altare maggiore della basilica di San Gaudenzio a Novara, riesce a restituire al riguardante due figure movimentate pur nella loro monumentalità costruita per mezzo d’un forte chiaroscuro. I cartoni sono poi utili per aver contezza del metodo di lavoro di Gaudenzio e della sua bottega: nella figura di sant’Agabio, per esempio, la mano che benedice è disegnata in due posizioni diverse, segno che l’artista stava sperimentando varie soluzioni per la redazione finale. C’è poi spesso nei cartoni una freschezza, una vivacità che non di rado si perde nell’opera finita, dal momento che quando si passava a dipingere Gaudenzio Ferrari ricorreva di frequente agli aiuti di bottega. I cartoni invece sono il frutto più immediato della sua inventiva, della sua fantasia. È sul disegno che si vede l’artista al lavoro. Ed è per questo che il disegno è tanto affascinante.
Monumentale è anche l’angelo reggistemma, monumentali le due Madonne col Bambino, e poi ci sono le opere dei suoi continuatori. Più dolce e misurato Bernardino Lanino, che tocca esiti di sorprendente delicatezza nell’Adorazione dei Magi e trasforma in un’aria d’espressioni e nuvole l’epifania sacra del Cristo con gli strumenti della Passione. In molti cartoni di Lanino affiorano vivi i ricordi leonardeschi: accade, per esempio, nel morbido Sposalizio della Vergine, oppure nella delicata Madonna col Bambino tra santi e devoti, e talvolta la citazione è diretta, dacché si conserva nel nucleo dei cartoni gaudenziani anche la Madonna col Bambino e sant’Anna che riproduce il ben noto originale di Leonardo da Vinci. E poi c’è Girolamo Giovenone: di lui ci sono alcune figure monumentali di santi e Madonne, che riecheggiano i modi di Gaudenzio Ferrari pur apportando qualche interpretazione personale (per la sua Madonna col Bambino, per esempio, si può leggere leggere la volontà di attenuare l’esuberanza dell’espressionismo gaudenziano e, al contempo, il tentativo d’avvicinarsi a un impianto scultoreo che pare di derivazione nordica), e ci sono anche alcune cose del suo entourage che possono essere considerate derivazioni, esercizi, rielaborazioni, come l’affilato cartone dell’Ultima Cena, considerato per qualche tempo modello per l’Ultima Cena del Duomo di Novara, opera di Sperindio Cagnoli eseguita su disegno di Gaudenzio, ma in realtà derivato da questo prototipo.
Non conosciamo nei dettagli la storia di questi cartoni prima della donazione di Carlo Alberto. Si deve peraltro ancora a lui l’aggettivo “Albertina” che da due secoli affianca il nome dell’accademia torinese: l’istituto era stato fondato nel 1678 da Maria Giovanna Battista di Savoia, ma era stato Carlo Alberto a donare all’accademia l’edificio in cui ha tuttora sede. Per gratitudine, la scuola sarebbe stata intitolata al sovrano. I cartoni, prima d’esser donati all’accademia, erano conservati nei Regi Archivi, ma non sappiamo quando entrarono nelle collezioni sabaude. Ci basti sapere che è per effetto di quella donazione che oggi si può godere di questo patrimonio, tanto fragile quanto prezioso, un patrimonio che si rivela nella luce soffusa del nuovo allestimento, alla quale si deve la volontà d’esaltare questa gemma poco nota del patrimonio torinese.
Ma in realtà si potrebbe dire che è un patrimonio di tutta la regione, dacché lo spirito di Gaudenzio e degli eredi della sua scuola presiede tutto un territorio, che va dai monti della Valsesia fino alle piane di Novara e di Vercelli passando, ovviamente, per Torino, e spingendosi oltre, fino alla Lombardia. Le invenzioni che Gaudenzio e i suoi eredi hanno fissato su questi grandi fogli di carta incollati impregnano una terra che per cent’anni e più ha visto nelle loro opere una traduzione per immagini di quel rinnovato senso della fede che partiva dai Sacri Monti sulle montagne attorno al lago Maggiore, si diffondeva nella piana, tra le bonifiche e le risaie, nelle città e nelle campagne, e si manifestava in un “nuovo stile orale”, ha scritto Maurizio Cecchetti, “dove la fede parla, grida, sanguina, piange, ama e gioisce nella celebrazione delle sacre rappresentazioni e delle processioni dove si rivivono i momenti della vita di Cristo fino al Calvario, riprendendo certi moduli del teatro popolare che diventa teatro sacro”. È questo sentimento all’origine d’un linguaggio che la scuola di Gaudenzio Ferrari avrebbe continuato a parlare per più d’un secolo, e forse è anche questo sentimento che ha indotto gli artisti vercellesi a intendere i cartoni come una sorta di strumento adatto a perpetuare una tradizione. Non sappiamo quali idee avessero sui cartoni, ma piace pensare, in virtù della consistenza del nucleo dell’Albertina e in virtù di quel sentimento così forte e persistente, che questa valenza didattica fosse non soltanto avvertita, ma anche sostenuta con orgoglio.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Al suo attivo anche docenze in materia di giornalismo culturale (presso Università di Genova e Ordine dei Giornalisti), inoltre partecipa regolarmente come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).