Può suonar strano, ma per comprendere al meglio lo sviluppo dell’arte di Carlo Portelli (primi anni del ’500 - 1574), artista mai stato a Roma a quanto ne sappiamo, occorre partire proprio da Roma: nel 1539 dall’Urbe tornava Francesco de’ Rossi, oggi noto come il Salviati dal cognome del potente cardinale che fu suo mecenate durante il lungo soggiorno romano, durato ben otto anni. Salviati tornava da Roma con tutto il bagaglio d’esperienze artistiche e culturali accumulate in quegli anni, e per Firenze il ritorno del pittore fu probabilmente una delle prime occasioni di confronto con i risultati del manierismo romano, che il Salviati iniziò a render manifesti in certi suoi dipinti prodotti negli anni Quaranta del Cinquecento: tra questi, il principale è forse la Carità conservata alla Galleria degli Uffizi. Non deve stupire la relativamente grande quantità di dipinti dedicati al tema della Carità che troviamo anche nella produzione di Carlo Portelli: oltre a essere un tema a cui, con tutta evidenza, l’artista teneva molto, si trattava di uno dei soggetti più in voga nella Firenze dell’epoca. Tutti i dipinti di Portelli che affrontano questo tema sono esposti alla mostra Carlo Portelli. Pittore eccentrico tra Rosso Fiorentino e Vasari, in svolgimento alla Galleria dell’Accademia di Firenze fino al 30 aprile 2016.
Dipinti alla mostra su Carlo Portelli |
Tornando per un attimo a soffermarci sulla Carità del Salviati, dicevamo che si tratta di un’opera pregna di manierismo romano: l’impostazione piramidale tipica delle Madonne di Raffaello, il senso di solenne classicità anch’esso di matrice raffaellesca, il vigore michelangiolesco, la luce forte che rende lucidi i particolari, il colorismo dalle tonalità accese e vivacissime. L’artista esercitò un fascino notevole su Portelli, che fece sue alcune delle novità del Salviati per arricchire il suo originalissimo stile, frutto di una mescolanza d’ispirazioni e di estro personale che, probabilmente, non ha eguali in tutto il manierismo fiorentino e che brilla per un’insospettabile quanto sorprendente modernità.
Francesco Salviati, Carità (1543-1545 circa; olio su tavola, 156 x 122 cm; Firenze, Uffizi) |
La Carità di Casa Vasari ad Arezzo, realizzata attorno al 1545, è il primo dipinto di Carlo Portelli sul tema. La donna mostra le caratteristiche tipiche dell’allegoria di questa virtù, che sarebbero stilate con precisione, nel 1593, da Cesare Ripa nella sua fondamentale Iconologia, il trattato che avrebbe costituito una preziosissima fonte per le composizioni di moltissimi pittori provenienti da ogni angolo del globo. La Carità è dunque una “donna vestita di abito rosso, che nella destra mano tenga un cuore ardente, e con la sinistra abbracci un fanciullo”: l’abito rosso, il colore del sangue, simboleggia il sacrificio che può comportare la “vera Carità”, mentre il cuore ardente e il bambino sottolineano “che la Carità è un puro affetto e ardente nell’animo verso le creature”. Spesso la donna viene raffigurata a seno scoperto, mentre allatta uno dei bambini: perché non c’è gesto più caritatevole del nutrire un’altra creatura. Sono tutti tratti che ritroviamo nel dipinto di Portelli (che comunque, in accordo con le raffigurazioni più congeniali al gusto del suo tempo, dipingeva piccoli bracieri ardenti invece del cuore in fiamme).
Portelli era solito alternare dipinti che raggiungevano altissimi livelli qualitativi, con rifiniture meticolose e precise, a opere il cui esito non era granché felice in termini di mera qualità pittorica: la Carità di Casa Vasari rientra nella seconda casistica. Ciò non significa che il dipinto sia privo d’interesse, perché malgrado si tratti di un’opera cronologicamente vicinissima all’esempio salviatesco, sono molti gli elementi che Carlo Portelli inserisce seguendo le proprie inclinazioni. A cominciare dai putti: a differenza di ciò che accadeva in Salviati (e in moltissimi altri artisti contemporanei, anche tra i più grandi), Portelli decide di caratterizzarli individualmente, senza badar troppo al fatto che i putti, più che a creature angeliche, potrebbero somigliare a bambini neanche troppo graziosi (anzi: tutt’altro). Del resto, obiettivo di Carlo Portelli non era la ricerca del bello: era la ricerca dell’artificio. In questa chiave va letto anche l’allungamento delle figure e il loro disporsi vorticoso, quasi a creare una spirale: sono espedienti mutuati dall’arte del Rosso Fiorentino (1495 - 1540), il più costante (e forse il più autentico) punto di riferimento di Carlo Portelli per tutto l’arco della sua carriera.
Carlo Portelli, Carità (1545 circa; olio su tavola, 110 x 82 cm; Arezzo, Casa Vasari) |
Con esiti pienamente rosseschi (benché con la composizione ancora debitrice nei confronti del Salviati) si presenta infatti la Carità conservata a Madrid, al Prado: è un dipinto degli anni Cinquanta la cui vicenda attributiva è stata tutt’altro che lineare, dacché per tradizione è sempre stata assegnata a Giorgio Vasari finché, nel 1913, Hermann Voss non propose per la prima volta il nome di Carlo Portelli, accettato da quasi tutta la critica (Roberto Longhi fu tra coloro che manifestarono contrarietà). Rispetto alla Carità di Casa Vasari, siamo di fronte a un dipinto di ben altra qualità, che raggiunge vette di raffinatezza tali da permetterci di collocare l’opera tra le meglio riuscite di Portelli. E la critica lo ha sempre riconosciuto: anche alla mostra di Firenze è stata presentata come l’esempio di Carità più elevato nella produzione del pittore valdarnese.
Gli incarnati, sull’esempio dell’arte del Rosso Fiorentino, diventano più pallidi, e le espressioni dei personaggi, in linea con la ricercatezza e anche con il gusto del bizzarro che connotava il manierismo fiorentino, si fanno quasi grottesche: è il caso del putto che spunta dietro la spalla sinistra della Carità, che ci offre una smorfia indecifrabile, a metà tra il pianto e il riso. Un piccolo capolavoro di bizzarra affettazione. E, rispetto alla Carità di Casa Vasari, le proporzioni si fanno ancora più allungate: basti vedere il putto che dorme occupando tutto il bordo inferiore della composizione. L’eleganza formale del dipinto si evince anche dallo schema con cui Portelli dispone le figure: i putti, in particolare, si dispongono attorno alla Carità a chiasmo, ovvero come se fossero i bracci d’una immaginaria X. Inoltre, Portelli non risparmia la propria abilità e la propria cura in certi dettagli eseguiti con altissima precisione: è il caso dei gioielli di cui s’adorna la Carità, o della semplice ma raffinata decorazione a rilievo dell’urna in fiamme abbracciata dal putto in alto a sinistra.
Carlo Portelli, Carità (1550-1560 circa; olio su tavola, 151 x 115 cm; Madrid, Museo del Prado) |
Gian Jacopo Caraglio, Ariadne, su disegno del Rosso Fiorentino (1530; incisione su carta, 21,2 x 10,8 cm; Londra, British Museum) |
Come abbiamo anticipato, in Olanda l’opera, datata alla fine degli anni Cinquanta, è stata accostata alla scuola francese del tempo: il riferimento è alla scuola di Fontainebleau, la località dove il Rosso Fiorentino si trasferì nel 1530, diventando pittore di corte di Francesco I. La presenza del Rosso a Fontainebleau esercitò un’influenza notevolissima sui pittori francesi, che lo presero immediatamente a esempio per la forte carica di novità che l’artista aveva portato con sé in Francia. E lui, a sua volta, rinnovò il proprio stile: ai forti squilibri e al disorientamento delle sue opere fiorentine iniziò a sostituirsi un maggior preziosismo unito a una certa monumentalità e a una più studiata ricerca di soluzioni sofisticate (evidente specialmente nell’utilizzo di luci fredde), benché la carica anticonformista di base non venisse in alcun modo alterata. Sono elementi che iniziano a manifestarsi nell’arte di Rosso già verso la fine degli anni Venti, durante e dopo il suo soggiorno romano, nel quale l’artista fiorentino aveva avuto modo di entrare a contatto diretto con l’arte romana. Carlo Portelli era riuscito in qualche modo a entrare in contatto con queste novità: l’ipotesi più plausibile è che abbia visto le incisioni di Gian Jacopo Caraglio, tratte da diversi disegni del Rosso. La figura della Carità rimanderebbe in particolare a quelle che compaiono nel ciclo degli Dèi nelle nicchie: la Carità di Portelli conserva l’imponenza statuaria e le forme allungatissime, tipiche delle invenzioni rossesche. E inoltre, Portelli aggiorna tali invenzioni con i coloriti diafani e il colorismo freddo dell’ultimo Rosso, unendo queste caratteristiche a un forte chiaroscuro: colpiscono i netti contrasti tra le zone in luce e quelle in ombra. Il tutto contribuisce a conferire al dipinto un’aria da dipinto quasi astratto, da art déco ante litteram.
Carlo Portelli, Carità (1555-1560 circa; olio su tavola, 126 x 78 cm; Maastricht, Bonnefantenmuseum) |
Non si distingue per la stessa carica d’innovazione, e neppure per lo stesso livello qualitativo, una Carità tarda, per la quale è stata proposta una datazione all’incirca tra il 1565 e il 1570: tuttavia il pittore, giunto quasi alla fine della sua carriera, ha ancora qualcosa da dire e qualche invenzione originale da proporre. Il dipinto fa parte della raccolta del piccolo Museo del Bigallo di Firenze, che raccoglie l’eredità della Compagnia del Bigallo, un’istituzione che, nella Firenze del tempo, forniva assistenza ai poveri e ai bisognosi. Il tema della Carità si addiceva dunque a un dipinto da donare, probabilmente come ex voto, alla Compagnia: è stata probabilmente questa la genesi dell’opera di Carlo Portelli.
Un’opera in cui rivediamo la veste rossa della Carità e il braciere ardente: un ritorno alla tradizione, insomma. La gamma cromatica fredda del dipinto di Maastricht viene anch’essa abbandonata in favore di soluzioni coloristiche già ampiamente sperimentate. Tuttavia, completamente nuovo è lo slancio affettivo della Carità, che si distende per abbracciare e baciare affettuosamente uno dei putti che la accompagnano. Portelli però, in linea con il proprio gusto, evita di presentarci una scena pregna d’intimismo, anzi: la ricercatezza della composizione costituisce ancora, e forse ancor più che mai, un tratto peculiare del suo stile. Perché qui Carlo Portelli sperimenta una struttura inedita: dispone, cioè, le figure sui lati d’un immaginario triangolo rettangolo, con l’angolo retto in fondo a destra, in corrispondenza del bambino che gioca con l’urna infiammata e si dispone lungo quasi tutto il bordo inferiore del quadro andando a completare, col piede della madre, uno dei lati del triangolo. L’altro è costituito da una linea verticale su cui Portelli dispone tutti i volti dei putti, e il triangolo viene chiuso dal corpo della madre in diagonale. E anche se i personaggi devono assumere pose innaturali e artificiose per permettere a Carlo Portelli di disegnare la propria figura geometrica, pazienza: lo scopo della sua arte non è la ricerca della naturalezza. Il ragazzino che compare sulla sinistra, che par quasi inserito col solo fine di riempire il vuoto che doveva per forza crearsi, è vestito con abiti da popolano: si tratta probabilmente di un giovane che ha ricevuto assistenza dalla Compagnia del Bigallo.
Carlo Portelli, Carità (1560-1570 circa; olio su tela, 103,5 x 78 cm; Firenze, Museo del Bigallo) |
Il percorso artistico di Carlo Portelli ovviamente non si esaurisce con questi dipinti, che consentono comunque di familiarizzare con alcune delle caratteristiche salienti del suo stile. Avere la possibilità di vedere tutti questi quadri, assieme, in un’unica mostra e sulla stessa parete, è un’ottima occasione per conoscere meglio questo straordinario e originale interprete del manierismo fiorentino: agli amanti dell’arte del Cinquecento, e in generale a chi si lascia affascinare da un’arte intellettuale e sofisticata, basterà recarsi alla Galleria dell’Accademia di Firenze fino al 30 aprile 2016 per vedere non solo i dipinti di Carlo Portelli di cui abbiamo parlato in questo articolo, ma la sua quasi completa produzione, radunata proprio per l’esposizione fiorentina.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).