La quasi totalità della produzione di Carlo Dolci (1616 - 1687), tra i massimi artisti del Seicento fiorentino, è costituita da soggetti sacri, che riflettono pienamente l’indole di questo grande pittore. E l’indole è quella di un uomo pio e devotissimo, oltre che parecchio riservato: non ci sono eventi di particolare rilievo aneddotico nella vita di Carlo Dolci, né trasferimenti importanti. L’unico viaggio che l’artista compì fu nel 1672, a Innsbruck, dove si recò con lo scopo di ritrarre l’allora poco meno che ventenne Claudia Felicita d’Asburgo, figlia di Ferdinando Carlo, arciduca d’Austria. Ma fu un viaggio che Carlo Dolci affrontò mal volentieri: preferiva di gran lunga la sicurezza e la routine quotidiana della sua amatissima Firenze, città da cui, eccezion fatta per il viaggio oltre Brennero, non si spostò mai.
Dicevamo che Carlo Dolci fu artista particolarmente devoto, al punto da considerare la propria arte allo stesso tempo un dono di Dio e un mezzo per onorarlo: abbondano dunque nella sua arte santi, Cristi, Madonne. È un’arte che spesso sfiora il lezioso e lo svenevole, anche perché pose e gesti sono spesso ripetitivi e monotoni, ma è anche un’arte può contare su una tecnica sopraffina, elevatissima, fondata su un’eccezionale precisione, su un’impeccabile capacità nel rifinire le figure e su un’estrema semplificazione delle composizioni, che permetteva all’artista di ridurre al minimo le distrazioni e di concentrarsi pertanto con un’elevata accuratezza sui suoi soggetti: qualità che pochissimi artisti nella storia dell’arte seppero padroneggiare con la sua stessa sicurezza. Tuttavia, Carlo Dolci non mise la sua maestria al servizio esclusivo dell’arte sacra: gli capitava talvolta, benché piuttosto di rado, di eseguire dipinti i cui contenuti esulassero dai temi della religione. Uno di tali casi è quello di una raffinatissima natura morta, oggi conservata agli Uffizi, che Carlo Dolci dipinse nel 1662 e che costituisce un formidabile saggio della sua tecnica, tanto più prezioso se consideriamo che si tratta dell’unica natura morta che, per quanto ne sappiamo, il pittore ha dipinto.
Carlo Dolci, Vaso di fiori e bacile (1662; olio su tela, 70 x 55 cm; Firenze, Galleria degli Uffizi) |
Cristina Acidini, nel descrivere il dipinto nell’ambito della rassegna Dodici mesi d’arte, promossa un paio d’anni fa dal Polo Museale Fiorentino, si domandava se questo quadro di Carlo Dolci non fosse la “più bella natura morta che sia mai stata dipinta a Firenze”, città che si è contraddistinta nei secoli per “l’amore per i fiori e per la loro rappresentazione, artistica e botanica”. Solitamente, quando camminiamo per i corridoi di un museo, gettiamo giusto un’occhiata distratta alle nature morte: i più le ritengono poco significative, poco vitali, poco capaci di trasmettere delle sensazioni a chi le osserva, o di raccontare una storia. Ammirando l’opera di Carlo Dolci, occorre ricredersi, ed è necessario domandarsi se gli inglesi non abbiano ideato un termine più appropriato del nostro, per definire il genere della natura morta: still life, ovvero “vita immobile”. Il dipinto di Carlo Dolci parrebbe infatti essere pervaso da un’anima che rende vivi e palpabili i suoi fiori, eternando sulla tela i simboli stessi della caducità, così effimeri e delicati. Che il dipinto rappresenti un vivo brano di vita quotidiana della corte medicea di metà Seicento, lo notiamo anche dal particolare della bacinella posta a fianco del ricco vaso dorato: ci sono dentro, ancora, alcuni fiori recisi, segno che chi sta realizzando il sontuoso e coloratissimo bouquet non ha ancora finito il lavoro, e magari l’ha interrotto per dar modo al pittore di attendere al dipinto. Ci sono anche dei petali posati sul tavolo, probabilmente scartati perché caduti durante la sistemazione dei fiori, o eliminati perché da sostituire con nuovi arrivi più freschi, oppure semplicemente non ritenuti adatti alla composizione floreale. Questi particolari, uniti al fatto che i fiori sono rappresentati nelle loro vere proporzioni, ci suggeriscono che Carlo Dolci potrebbe aver dipinto dal vivo la sua composizione.
Particolare con i tulipani e il narciso |
E si tratta anche di un caso, non frequente, di composizione che potremmo definire "di stagione": abbiamo infatti un bouquet composto esclusivamente da fiori che sbocciano in primavera. E che sono descritti con precisione da botanico. I protagonisti indiscussi sono i tulipani e gli anemoni, inseriti nel vaso in diverse varietà, ma non mancano anche ranuncoli, violaciocche, fiori d’arancio, un narciso (curiosamente raffigurato da dietro) e alcuni fiorellini di giacinto. Degli anemoni, due sono stradoppi, ovvero hanno gli stami e i pistilli che si sono trasformati in petali. La descrizione del dipinto negli inventari medicei ci aiuta anche a individuare il particolare tulipano che si trova nella bacinella: “Un quadro in tela con un vaso fatto d’oro, cesellato con arme di Sua Altezza Reverendissima, entrovi fiori diversi, una catinella bianca, con un tulipano di 100 foglie, di mano del Dolci, con adornamento di pero tinto di nero e scorniciato a onde”. Il “tulipano di 100 foglie” della descrizione è quello che, appunto, vediamo appogiato nel catino bianco: è un tulipano stradoppio, probabilmente del cultivar Orange Nassau.
Tutti i fiori presenti nel dipinto. Prima fila, da sinistra: tulipano (Tulipa gesneriana), narciso raffigurato da dietro (Narcissus pseudonarcissus), anemone coronaria, anemone coronaria a fiori stradoppi, ranuncolo (Ranunculus asiaticus). Seconda fila, da sinistra: giacinto (Hyacinthus orientalis), anemone coronaria a fiori doppi, violaciocca gialla (Cheiranthus cheiri), boccioli di fiori d’arancio, tulipano stradoppio. |
L’“arme di Sua Altezza Reverendissima” è quella del cardinale Giovan Carlo de’ Medici (1611 - 1663), fratello minore del granduca Ferdinando II, e committente del dipinto. Vediamo lo stemma al centro del vaso dorato: è costituito dallo scudo con le sei palle medicee, sovrastato dal cappello cardinalizio. Anche il vaso ci fornisce una prova della grandissima abilità tecnica di Carlo Dolci: da notare come la luce si riflette sulla superficie lucidissima dell’oro facendo risaltare i particolari in rilievo, come le foglie della decorazione a motivi vegetali, o anche le stesse palle medicee, sulle quali l’artista ha dipinto delle piccole macchiette bianche per rendere i riflessi luminosi. La luce proviene da sinistra e investe non soltanto il vaso e i fiori, ma anche il tavolo coperto da una tovaglia rossa: dobbiamo dunque una fonte luminosa piuttosto forte (una finestra, per esempio) fuori dai bordi del quadro.
Lo stemma di Giovan Carlo de’ Medici sul vaso |
Sappiamo che Giovan Carlo de’ Medici fu un grande appassionato di botanica: nella sua ricca abitazione in via della Scala a Firenze, conosciuta oggi come Palazzo Venturi-Ginori dal nome della famiglia che lo possedette a inizio Novecento, e odierna sede del Lycée International Victor Hugo, il cardinale si era fatto realizzare un giardino che curava personalmente. In questo giardino, Giovan Carlo de’ Medici coltivava anche specie per quei tempi rare ed esotiche, tra le quali nessuno ci vieta di pensare potesse trovarsi anche il “tulipano di 100 foglie” raffigurato nel dipinto. Così come nessuno ci vieta di pensare che il cardinale volesse, da Carlo Dolci, un dipinto che raffigurasse le specie che riteneva le più preziose del suo giardino: ecco dunque come potrebbe spiegarsi la presenza “ingombrante” dei tulipani e degli anemoni.
E il cardinale, per avere il quadro, non badò a spese. Ecco il documento, datato 23 maggio 1662, che attesta il pagamento all’artista: “A spese diverse scudi 60, buoni a Carlo Dolci pittore e sono per valuta di un quadro di fiori al naturale, così dichiarato il prezzo da Sua Altezza Reverendissima padrone, come per attestazione del Signor Marchese Filippo Niccolini... avvertendosi che detto prezzo non deve mai servire per esempio essendo disorbitante e con quest’huomo è stato considerato il tempo che ci ha perso, che è stato lunghissimo, mentre nelle Sue pitture usa diligenza e finezza tale che maggiore non si potrebbe desiderare”. Il cardinale, insomma, era ben conscio di aver speso per quel dipinto una cifra esorbitante, fuori mercato per una natura morta, che era considerato forse come il soggetto meno prestigioso per un quadro. Per avere un termine di paragone, occorre considerare che i piccoli dipinti di Carlo Dolci a carattere devozionale (quindi tra i soggetti considerati di maggior pregio), venivano pagati, come attesta Luigi Lanzi nella sua Storia pittorica dell’Italia, la cifra di cento scudi l’uno. Perché dunque il cardinale fu portato a corrispondere una somma così elevata? È lui stesso a giustificare la spesa: gli sembrava la cifra giusta per un pittore così diligente e scrupoloso, che aveva impiegato molto tempo a finire il quadro. E per raffigurare dei fiori in modo così preciso, scegliere la meticolosità di Carlo Dolci non poteva che essere la scelta più indicata. Il dipinto, ancora per circa un mese, farà bella mostra di sé nell’esposizione Io Carlo Dolci, che si tiene a Firenze, a Palazzo Pitti, fino al 15 novembre: è uno dei pezzi forti della mostra, che valorizza pienamente un dipinto che nella sua collocazione abituale forse passa troppo inosservato.
Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta
Gli articoli firmati Finestre sull'Arte sono scritti a quattro mani da Federico Giannini e Ilaria Baratta. Insieme abbiamo fondato Finestre sull'Arte nel 2009. Clicca qui per scoprire chi siamo