È soprattutto allo storico dell’arte Andrea Emiliani (Predappio, 1931 - Bologna, 2019) che dobbiamo la riscoperta d’un genio dell’arte ferrarese del Seicento, quel Carlo Bononi (Ferrara, 1580 circa - 1632) che nel 1962, lamentava Giacomo Bargellesi in un articolo pubblicato il 2 marzo di quell’anno sulla Gazzetta Padana, i suoi concittadini non conoscevano né apprezzavano a sufficienza. E proprio il 1962 costituisce una tappa importante nel percorso critico che ha accompagnato il risorgimento di Carlo Bononi, la sua rinascita dall’oblio cui era stato relegato per lunghi secoli: Emiliani, all’epoca giovane studioso d’appena trentun anni, dava alle stampe la sua monografia sul pittore, la prima che gli veniva dedicata. A catturare l’attenzione su Bononi era stato, una trentina d’anni prima, Roberto Longhi (Alba, 1890 - Firenze, 1970), che lo aveva collocato a conclusione della sua Officina ferrarese del 1934 (e poi ampliata nel 1940): artista “contrastato e dossesco”, distinto “dai bolognesi contemporanei”, Bononi era per Longhi il pittore che, nella Pietà del Louvre, “accomoda appena alla carraccesca i chiari ricordi della vecchia Ferrara, passionale e cavalleresca, e non manca di spargere al suolo gli ultimi frammenti delle celebri armerie di Alfonso d’Este”, e che nel Narciso di collezione privata ribadiva la sua natura dossesca premurandosi di dipingere una vasca in marmo chiaro che “sembra rispecchiare l’ultimo sognatore di un mondo declinante, venato ormai dalla mestizia del Tasso”.
“Ultimo sognatore”: con questi termini, riprendendo l’espressione così evocativa di Roberto Longhi, si riferiva all’artista anche la grande mostra su Carlo Bononi tenutasi al Palazzo dei Diamanti di Ferrara nel 2017. Il pittore visse la stagione più difficile della città, la stagione del declino: era il 1598 quando la Devoluzione segnò il passaggio del ducato di Ferrara allo Stato Pontificio per ragioni ereditarie, e la corte estense dovette trasferirsi a Modena. Ferrara rimase comunque un produttivo centro artistico anche sotto la Chiesa, dacché occorreva soddisfar l’esigenze d’una nutrita schiera di nuovi collezionisti, e la produzione artistica della città, nel secolo XVII, s’attestò su livelli decisamente alti: è quanto la critica più aggiornata ha voluto opportunamente rimarcare, cancellando il giudizio sfavorevole dell’Ottocento, che distese come un velo sopra il Seicento ferrarese, a coprire anche i suoi esiti più alti e gloriosi, non ritenendolo all’altezza di quanto la città aveva prodotto in precedenza. Ma si trattava comunque del tramonto d’un’epoca, e la stella di Bononi splende in questi anni, come un astro luminoso e intriso di nostalgia, come un “sipario ancora maestoso e maculato di sensi e controsensi” (così avrebbe scritto Emiliani) destinato a calare su quest’età, situata tra le magie di Dosso Dossi e l’annessione di Ferrara allo Stato della Chiesa, un’età “che va dall’Ariosto al povero pazzo Torquato e alla sua tristissima prigionia ferrarese, esistenziale, inquietante, moderna”. Queste sono le coordinate che Emiliani tracciava per il suo Bononi.
Carlo Bononi, Pietà (1619 circa; olio su tela, 248 x 178 cm; Parigi, Louvre) |
Agli esordî di questo percorso, Emiliani poneva il Miracolo di san Domenico a Soriano, che poi la critica più recente ha preferito spostare agli anni Venti del Seicento, ritenendola opera matura, ed eseguita almeno a partire dal 1621, anno durante il quale il culto del miracolo avvenuto nel borgo sui monti della Sila, fino ad allora circoscritto alla Calabria, si diffuse anche a Ferrara, dove l’opera è ancora conservata (sebbene non nella chiesa di San Domenico, luogo d’antica provenienza, ma temporaneamente in deposito al Palazzo Arcivescovile). Emiliani vedeva, in questo miracolo, un’opera precoce, animata da una maniera capace di far rivivere “per dolcissime memorie in numerosi ingredienti appassionati” il “vecchio tocco” del Bastarolo, “misto di un tono concreto e cromaticamente liquido”: era stata la straordinaria forza di questo dipinto a colpire il grande studioso, la descrizione viva e appassionata degli affetti (si vedano i volti delle tre sante, accompagnate dai putti che ne reggono gli attributi iconografici), la libertà d’un’invenzione tesa a coinvolgere emotivamente il riguardante, secondo le più aggiornate norme della cultura barocca agli albori. Nel dipinto, siamo noi che prendiamo il posto del frate Lorenzo da Grotteria, che secondo il racconto agiografico avrebbe assistito all’apparizione della Vergine e delle sante Caterina d’Alessandria e Maria Maddalena, che avrebbero lasciato nella chiesa di Soriano una tela acherotipa, ancor oggi conservata nella parrocchiale del paese, sebbene ritenuta ovviamente non dipinta da mano divina, ma più semplicemente da un allievo di Antonello da Messina.
E poi c’è il passaggio di Bononi da Roma, messo in luce da Emiliani con un attento studio dei dipinti di Fano, quelli dove son più palpabili le tangenze con l’arte di Caravaggio, massime nel San Paterniano che risana la cieca Silvia, dove la luce che investe la piccola torma radunata attorno al santo, dove la sensazione che tutta la scena sia stata colta nell’immediata ed effimera concitazione d’un momento, dove l’autoritratto che spunta dietro alla schiena curva di Paterniano rimandano direttamente all’illustre lombardo, ma dove abbondano anche le citazioni esplicite dal Merisi: l’uomo a terra sulla destra è un preciso ricordo di quello che compare nell’angolo sinistro del Martirio di san Matteo della cappella Contarelli, e lo stesso dicasi per il gesto dell’astante che indica il miracolo di san Paterniano, evidente reminiscenza del braccio di Cristo che si leva nella Vocazione di san Matteo a chiamare l’apostolo. Ma Bononi era capace anche di “eludere”, per Emiliani, quella “diretta discendenza caravaggesca” sempre col filtro della sua libertà, “in una sorta di concitazione cromatica e compositiva; in un affollamento di gesti e atteggiamenti conchiusi entro le due quinte laterali, di sapore prospettico”. Un Caravaggio rivisitato attraverso la festa di colori d’un Lanfranco, verrebbe da dire. E la tela che, nella chiesa di Santa Maria Assunta a Fano, affianca sulla sinistra il dipinto col miracolo, ovvero la Visione di san Paterniano, è per Emiliani “forse il capolavoro dell’intera attività dell’artista”, com’ebbe a scrivere nel suo contributo per il catalogo della mostra del 2017: “con alta, impetuosa vistosità”, leggiamo, “il Bononi investe sulla oscura silhouette del santo quasi assopito, mentre sul suo volto, come sulle lunghe mani, una sua terrestre fisionomia con un sapore naturalistico di deciso gusto ritrattistico e quasi di still-life” E ancora: “un quadro da non spiacere al coevo, primo soggiorno fabrianese di Orazio Gentileschi; oppure ai modesti acquirenti di Giovan Francesco Guerrieri da Fossombrone dopo il viaggio di Roma; se non addirittura agli amatori dei Santi più convulsi di Angelo Roncalli detto Pomarancio”.
Carlo Bononi, Miracolo di Soriano (1621-1626; olio su tela, 270 x 143 cm; Ferrara, chiesa di San Domenico, cappella di san Tommaso d’Aquino. In deposito temporaneo presso il Palazzo Arcivescovile) |
Carlo Bononi, San Paterniano che risana la cieca Silvia (1618-20; olio su tela, 310 x 220 cm; Fano, basilica di San Paterniano) |
Carlo Bononi, Visione di san Paterniano (1618-20; olio su tela, 310 x 225 cm; Fano, basilica di San Paterniano) |
Per stessa ammissione di Andrea Emiliani, seguire il percorso di Bononi non è cosa semplice: eclettico, abituato a muoversi in diverse direzioni, sempre sensibile alle più nuove e disparate sollecitazioni che incontrava, forse compiendo viaggi. La geografia di Bononi sembra avere come punti cardinali Bologna, Mantova, le Marche. Le coordinate sono tracciate da Ludovico Carracci, Tommaso Laureti, Giulio Romano, Federico Barocci, Andrea Lilli, Orazio Borgianni, Guerrieri. Gli orientamenti del gusto e degl’interessi di Bononi spaziano da una regione all’altra. È però l’incontro con Guido Reni che Emiliani ritiene tappa fondamentale nel percorso dell’artista, tanto da ritenere l’Ascensione della chiesa di San Salvatore a Bologna, opera che dipende dalle soluzioni reniane, il capolavoro che segna il principio della maturità dell’artista (Emiliani lo collocava al 1617, oggi invece si tende a ritenerlo eseguito dieci anni più tardi). Eppure, Bononi non ne era soddisfatto: l’aveva terminata dopo appena trentasette giorni di lavoro, e credeva che il risultato non fosse all’altezza delle aspettative, dal momento che la preparazione affrettata diede adito a tinte più fosche di quelle che il pittore cercava. Nella composizione, Cristo si leva solitario su di un cielo cupo su cui s’addensano nubi qua e là rischiarate dalla tenue luce della luna: è raffigurato con un leggero sottinsù, il braccio destro levato, il volto esaltato dal chiarore dell’aureola, le vesti rigonfie per l’aria che sale. Nel registro inferiore, s’affollano gli apostoli, naturali e individualmente caratterizzati, con la Vergine al centro, in posizione leggermente sopraelevata: stupore, sguardi attoniti, confusione, le figure disposte secondo uno studiatissimo ritmo che segue quasi i passi d’una danza immaginaria. Emiliani poneva l’Ascensione in relazione con l’Assunzione della Vergine che Guido Reni eseguì per la chiesa del Gesù di Genova e che Bononi dovette vedere nella casa-studio del collega bolognese in via delle Pescherie: Carlo, rifacendosi all’impaginazione che Guido aveva ideato per l’Assunzione, di questo dipinto apprende, “com’è da attendersi”, specificava Emiliani, “l’ampio desiderio compositivo, questa palpitazione orizzontale dei corpi, appena gravati dallo sfogo colorito del cielo”.
A conclusione della parabola di Bononi, Emiliani poneva alcune tra le opere più virtuosistiche e al contempo più manieriste della produzione del pittore ferrarese: su tutte valga l’esempio delle Nozze di Cana oggi alla Pinacoteca Nazionale di Ferrara, un enorme dipinto d’oltre sette metri di lunghezza realizzato nel 1622 per il refettorio della Certosa. Un dipinto esemplato forse sul modello dell’Ultima cena di Federico Barocci, cui rimandano il taglio prospettico, l’ambientazione, lo schema compositivo, l’esuberanza nei dettagli (gustosissimo è il cane che azzanna il servo in primo piano, che cerca di sottrarsi al morso della bestiola, squisito è il concerto improvvisato sulla balaustra in alto e scorciato di sottinsù). La splendida Urbino di Barocci aveva ancora una corte, Ferrara invece da più di vent’anni non ce l’aveva più: e forse l’indole di sognatore di Bononi indugiava su quei dettagli (i giovani riccamente abbigliati, le ragazze che con noncuranza e con gestualità affettate mangiucchiano cercando d’attirare l’attenzione, il concertino stesso) per rievocare i fasti d’una Ferrara estense che poteva soltanto immaginare: “l’ultimo rappresentante dell’antica Ferrara chiude in serrata autonomia di linguaggio, pur sempre attenta ai fatti della capitale, alle fantasiose leggende, ad un tempo aspre e sognanti, nate ed assolte sulle rive del Po”.
Carlo Bononi, Ascensione di Cristo (1627 circa; olio su tela, 450 x 380 cm; Bologna, San Salvatore). Ph. Credit Francesco Bini |
Guido Reni, Assunzione (1616-1617; olio su tela, 442 x 287 cm; Genova, chiesa del Gesù) |
Carlo Bononi, Nozze di Cana (1632 circa; olio su tela, 355 x 688 cm; Ferrara, Pinacoteca Nazionale) |
Federico Barocci, Ultima cena (1590-1599; olio su tela, 299 x 322 cm; Urbino, Duomo) |
Carlo Bononi, Testa maschile (1616-1617; pietra nera, gessetto bianco, carta marrone, controfondato, 236 x 205 mm; Milano, Pinacoteca di Brera, Gabinetto Disegni e Stampe, Inv. 173) |
Carlo Bononi, Genio delle arti (1621-22; olio su tela, 120,5 x 101 cm; Collezione Lauro) |
Carlo Bononi, Angelo custode (1625 circa; olio su tela, 240 x 141 cm; Ferrara, Pinacoteca Nazionale) |
Nel mezzo, altri episodî di gran rilievo. La pubblicazione d’una preziosa Testa maschile, uno studio oggi al Gabinetto dei Disegni e delle Stampe della Pinacoteca di Brera, da Emiliani attribuita a Bononi, poi messa in discussione e infine restituita con forza e convinzione al pittore ferrarese. Lo studio del Genio delle arti, ricomparso nel 1962 e oggi considerato tra i principali capi d’opera della produzione di Bononi. E ancora, l’esame del rapporto con Guido Reni che passa attraverso il sensuale Angelo custode, opera che tuttavia, secondo Emiliani, ha per protagoniste delle figure che “assumono una nobile eleganza, un’atteggiata gestualità che sembra quasi dilatarsi nell’atmosfera meditatamente fredda che pervade il dipinto”: atmosfera che, a parere dello studioso, discendeva dalle finezze altrettanto delicate di Guido Reni. Intuizioni in parte elaborate in un precoce saggio del 1959, che arrivò in contemporanea all’esposizione di otto tele di Bononi alla mostra sui Maestri della pittura del Seicento emiliano tenutasi quell’anno al Palazzo dell’Archiginnasio di Bologna, nell’ambito delle Biennali d’Arte Antica ideate da Cesare Gnudi e cominciate nel 1954, con una monografica consacrata al genio di Guido Reni e curata dallo stesso Gnudi. All’epoca della rassegna sui maestri del Seicento, Emiliani aveva appena ventott’anni, ed era quella la prima volta in cui si procedeva con una ricognizione dell’arte di Bononi.
Tre anni dopo, come s’è detto in apertura, sarebbe arrivata la prima monografia, redatta per la Cassa di Risparmio di Ferrara e costruita sulla base d’una documentazione che all’epoca era ancora scarna, dal momento che le ricerche d’archivio su Bononi erano appena partite, e le risorse erano pertanto limitate. Fu quel lavoro di Emiliani, denso e dall’elegantissimo stile, a rilanciare la fortuna critica di Carlo Bononi, della cui grandezza lo studioso era perfettamente avveduto. Nelle battute iniziali del saggio introduttivo, lo descrisse come un “figlio d’un ducato padano di stretta omogeneità culturale”, come un artista che, forte d’un “ricordo ancora così integro e vivente della grande vicenda artistica della sua terra”, fu capace di ritrovare “quasi di colpo e senza avvertire i suggerimenti ben altrimenti minatori della controriforma, un gusto di pittura, una piena voluttà narrativa, una freschezza inventiva ancora innestate (pur nel mutamento riflessivo ed introverso della nuova psicologia) direttamente nei grandi esemplari di un passato ancor vivo e storicamente immanente”. Un passato di cui Bononi fu erede straordinario.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).