Nel corso di una lunga vita (morì a 87 anni) e di un lunghissimo cardinalato (vestì la porpora per 55 anni, a partire dal 1645), il cardinale Alderano Cybo (Genova, 1613 – Roma, 1700) tradusse un grande interesse per le arti – dalla musica alla letteratura, dalle arti figurative all’architettura – in un’assidua attività di mecenate: protesse artisti, promosse la costruzione di altari e cappelle, commissionò statue e soprattutto tele, da destinare alle chiese che furono beneficiate dalla sua munificenza o da includere nella propria scelta quadreria. A maggior gloria di Dio, naturalmente, ma anche a gloria e imperituro ricordo di sé, e in onore della propria illustrissima famiglia, quei Cybo Malaspina che, governando su uno dei più piccoli Stati in cui era divisa allora la Penisola, il ducato di Massa e principato di Carrara, potevano vantare il prestigioso status di principi sovrani.
Il cardinale volle abbellire le chiese delle città di cui fu vescovo (Jesi, Ostia, Velletri) e soprattutto i templi della sua città di origine, Massa, in cui per decenni inviò dipinti, sculture, oggetti d’arte, progetti architettonici, contribuendo in maniera determinante a riorientare in direzione di Roma il gusto locale, fino ad allora sottoposto all’influenza dei due poli equidistanti di Genova e di Firenze. Fu tuttavia nella Città Eterna che il mecenatismo del prelato lasciò il suo frutto più magniloquente: la ricostruita cappella di famiglia in Santa Maria del Popolo, testimonianza tra le più significative del tardobarocco romano. Il cui sfarzo suona come una risposta polemica al clima di austerità neotridentina promosso, negli anni in cui fu innalzata la cappella, da papa Innocenzo XI (di cui pure Alderano fu Segretario di Stato).
Grandi attenzioni riservò il cardinale Alderano Cybo alla chiesa di San Francesco a Massa, in cui, tra i primi anni Sessanta e la metà degli anni Ottanta del Seicento, promosse la costruzione dell’altare maggiore e dei due altari del transetto: grandiose ‘macchine’ in cui i marmi policromi (diaspro per l’altare maggiore, Rosso di Francia per gli altri due) si abbinano al bianco apuano. Nonostante le alterazioni subite nel corso del tempo, questa sontuosa triade può essere ancora ammirata nella chiesa massese, divenuta nel frattempo il Duomo della cittadina. Le tele che il cardinale commissionò per gli altari del transetto sono ora visibili su due altari della navata: si tratta di pale che il prelato ordinò a uno dei suoi artisti di fiducia, il pittore romano Luigi Garzi (Roma, 1638 – 1721), che raffigurò in una tela La Trinità adorata dai santi Giovanni Battista, Giovanni Evangelista, Pietro e Andrea e nell’altra (sicuramente tra le opere più riuscite di Garzi) l’Immacolata, con un altro quartetto di santi (Agostino, Ambrogio, Atanasio e Girolamo) che ne esalta la purezza. Il pittore lavorò molto per Cybo: oltre a essere impiegato, come vedremo, nella Cappella Cybo, Garzi dipinse nel 1687 una luminosa pala raffigurante la Madonna con il Bambino e santi per la chiesa oratoriana di San Giovanni Battista a Jesi, di cui impreziosisce l’altar maggiore (un maestoso altare in marmi policromi, frutto anch’esso della committenza cybea), mentre qualche anno più tardi, nel 1693, realizzò un grande ovato con un drammatico Martirio di Santa Aurea per la cattedrale di Ostia.
L’altra chiesa massese che beneficiò ampiamente della munificenza del cardinale fu la collegiata di San Pietro. Il principale tempio della città ebbe una storia travagliata: crollò quasi completamente nel 1671, dopodiché si decise di innalzare una nuova e più grandiosa chiesa in un sito poco distante, quindi l’impresa fu abbandonata e si optò per la ricostruzione dell’antica collegiata, che, con il determinante sostegno finanziario del cardinale Alderano, fu portata a termine nel 1701. Il ristrutturato edificio non sopravvisse che poco più di un secolo: nel 1807 Elisa Baciocchi, sorella di Napoleone, ne decretò la demolizione, per far sì che di fronte al Palazzo Ducale di Massa si aprisse una grande piazza, che poi fu conosciuta, in virtù del doppio filare arboreo che la cinge su tre lati, con il nome di Piazza degli Aranci. Il cardinale Cybo contribuì alla ricostruzione della collegiata, oltre che finanziariamente, inviando da Roma il progetto per i grandiosi altari gemelli del transetto, disegnati dall’architetto lucchese, romano di formazione, Domenico Martinelli, e commissionando a Giovanni Lazzoni, coadiuvato dai figli Andrea e Tommaso, la realizzazione di un monumentale altorilievo marmoreo raffigurante la Madonna del Rosario, eseguito sulla base del modello di un artista romano, inviato a Massa da Alderano.
Fu probabilmente dopo il 21 settembre 1676, quando il cardinale Benedetto Odescalchi venne eletto papa con il nome di Innocenzo XI, che l’ambizioso cardinale Alderano, vedendo sfumare la possibilità di essere eletto al soglio di Pietro e dunque di poter beneficiare di una tomba papale nella basilica di San Pietro, iniziò a pensare alla cappella di famiglia in Santa Maria del Popolo come al luogo della propria sepoltura, e a un intervento di radicale trasformazione del sacello. La cappella di cui i Cybo detenevano il giuspatronato era la seconda a destra entrando in chiesa ed era stata fatta costruire dal cardinale Lorenzo De Mari Cybo, nipote di papa Innocenzo VIII, nei primissimi anni del Cinquecento. Alderano si rivolse in un primo momento, per il progetto della nuova cappella, all’anziano Gian Lorenzo Bernini (Napoli, 1598 – Roma, 1680), per poi ripiegare, alla morte di questi nel 1680, sul suo migliore collaboratore, Carlo Fontana (Rancate, 1638 – Roma, 1714). L’architetto ideò uno spazio con pianta a croce greca e copertura a cupola, preceduto da un vestibolo rettangolare e movimentato dalla presenza di ben otto coppie di colonne binate libere. L’interno sarebbe stato caratterizzato da un ricchissimo rivestimento in marmi policromi; le sedici colonne sarebbero state di diaspro di Sicilia.
I lavori presero il via all’inizio del 1682 e si conclusero cinque anni più tardi, nel 1687. Il cardinale e Fontana non si sottrassero alla sfida che lanciava la cappella che stava esattamente di fronte a quella dei Cybo, la celeberrima Cappella Chigi di Raffaello. La strategia fu quella di emulare, attraverso una serie di riprese formali e di allusioni, la Chigi e di superarla per ricchezza del rivestimento marmoreo e monumentalità dell’insieme. Già la struttura complessiva del nuovo edificio rimanda all’opera raffaellesca, non solo per il suo carattere di piccola ‘chiesa nella chiesa’ sormontata da una cupola, ma per la disposizione delle colonne binate, che tende a riprodurre quell’effetto di crociera con gli angoli smussati osservabile nella Cappella Chigi. Vi è poi l’altare, la cui forma semplice ed elegante è esemplata su quella dell’altare Chigi. Gli altari delle due cappelle, entrambe dedicate alla Vergine, accolgono pale dai soggetti affini: alla Nascita della Vergine di Sebastiano del Piombo corrisponde, sull’altare della cappella cybea, la Disputa dell’Immacolata Concezione di Carlo Maratta (Camerano, 1625 – Roma, 1713), che anche nella tecnica utilizzata (olio su muro) si richiama all’opera di Sebastiano, dipinta a olio su una parete foderata di peperino.
L’emulazione di Raffaello è un tema centrale anche nella Disputa marattesca, capolavoro di cristallina compostezza in cui a celebrare la purezza del concepimento di Maria, raffigurata nella parte alta dell’ancona, si radunano i santi Giovanni Evangelista, Gregorio Magno, Agostino e un Dottore della Chiesa Orientale, in cui va probabilmente riconosciuto Atanasio. Il riferimento all’Urbinate è naturalmente costante nella produzione di un artista quale Maratta: siamo tuttavia di fronte a qualcosa che va ben oltre un’evidente influenza raffaellesca. Lo spazio in cui è ambientata la scena è lo stesso palcoscenico in cui si riunisce la ben più folta compagnia di santi che popola la Disputa del Santissimo Sacramento nella Stanza della Segnatura. È chiaro come una tale, palmare ripresa della Disputa vaticana non riguardi soltanto la dimensione estetica, ma abbia anche clamorosi risvolti teologici: l’immacolato concepimento di Maria è equiparato ai dogmi fondamentali del Cattolicesimo, a quella centralità del Figlio e del suo sacrificio per la redenzione umana, rievocato nel sacramento dell’Eucarestia, che è celebrata nella Disputa vaticana, l’affresco teologico per eccellenza. L’invito che il cardinale Cybo rivolge, per mezzo di Maratta, a una rapida definizione del dogma dell’Immacolata (che avverrà soltanto molto più tardi, nel 1854) non potrebbe essere espresso in termini più eloquenti.
L’esecuzione dell’affresco della cupola della cappella fu affidata a Luigi Garzi. Il pittore ci mostra Dio Padre circondato da una folla di angeli, profeti e Virtù disposti su nuvole paradisiache, nel momento in cui egli accorda a Maria, raffigurata nella pala d’altare sottostante, lo straordinario privilegio del suo concepimento immacolato. Completano la decorazione pittorica della cappella i due dipinti che si fronteggiano nel vestibolo d’ingresso, raffiguranti il Martirio di San Lorenzo e il Martirio di Santa Caterina. Il pittore austriaco Daniel Seiter (Vienna, 1649 – Roma, 1705) realizzò due opere a olio su muro che incontrarono un notevole successo, ma che, a differenza della pala di Maratta, eseguita con la stessa tecnica, andarono incontro a un rapido deterioramento, tanto da costringere Cybo a sostituirle, nel 1697, con due tele, dipinte sempre da Seiter che, ormai trasferitosi a Torino, da lì le spedì a Roma. Nella loro drammaticità, le tele di Seiter costituiscono un adeguato contraltare alla limpida impassibilità dell’Immacolata di Maratta.
Quando la prima Cappella Cybo al Popolo fu demolita, per far posto alla seconda, non tutto andò distrutto. In particolare, il monumento funebre del fondatore della cappella, il cardinale Lorenzo, fu donato da Alderano, nel 1685, alle terziarie minori del convento di San Cosimato, a Trastevere, e riutilizzato come altare. Degli affreschi di Pinturicchio che ornavano il sacello si salvò una porzione, raffigurante la Madonna con il Bambino, che nel 1687 il cardinale Alderano inviò al fratello Alberico II, duca di Massa, affinché questi la ponesse sull’altare della nuova cappella sepolcrale della famiglia ducale, di cui da poco si era intrapresa la costruzione nella chiesa massese di San Francesco (l’attuale duomo della cittadina apuana). Nell’ottobre del 1693 il frammento di affresco fu collocato sul fastoso altare in marmi policromi della Cappella Ducale, disegnato da Domenico Martinelli. La Madonna di Pinturicchio assumeva così un ruolo di reliquia dinastica e di elemento di raccordo tra le due cappelle cybee: serviva a ricordare, nel luogo della celebrazione dei Cybo Malaspina come principi sovrani, le glorie colte da esponenti del casato a Roma, al servizio della Chiesa. A eternare la prestigiosa origine romana dell’ancona la si dotò di una gloria di angioletti in marmo bianco tra nubi di alabastro, scolpita dai carraresi Andrea e Tommaso Lazzoni: i vivaci cherubini non si limitano a reggere la sacra immagine, ma sembrano trasportarla, come nell’iconografia della traslazione della Santa Casa di Loreto. Allo stesso modo, nella copertura a cupola del dipinto, rivestita di romanissimo verde antico, si può forse scorgere un’allusione alla cappella da cui il frammento di affresco proviene. In maniera sorprendente, infine, la cappella massese fu intitolata alla Natività della Vergine “ad immitazione”, come si legge in una lettera dell’epoca, del cardinale, che aveva dedicato il proprio rinnovato sacello all’Immacolata.
Nello stesso modo in cui, attraverso il frammento affrescato di Pinturicchio, si allude nella cappella di famiglia di Massa ai fasti romani del casato, nella Cappella Cybo al Popolo si mette bene in chiaro lo status di principi sovrani dei Cybo Malaspina. Il cardinale Alderano fece collocare sull’arco d’ingresso alla cappella non il proprio stemma cardinalizio sormontato dal galero (che pure troviamo al centro del pavimento a commesso marmoreo), ma lo stemma della Casa, con tanto di spino fiorito malaspiniano, sormontato dalla corona ducale. Lo stemma ‘laico’ dialoga con uno stemma di papa Innocenzo VIII che si trova a breve distanza, nella chiave di volta della campata della navata su cui si affaccia la cappella: la duplice gloria della famiglia, civile ed ecclesiastica, principesca e pontificia, è visualizzata in maniera molto diretta tramite l’accostamento di questi due blasoni.
Per completare questa panoramica sull’attività del cardinale Cybo come committente resta da spendere qualche parola sulla sua ricca raccolta di dipinti. Il prelato iniziò a radunarla a partire dai primi anni Cinquanta, quando, dapprima da legato pontificio a Ferrara e poi come vescovo di Jesi, acquistò molte opere della scuola pittorica ferrarese del Cinquecento e commissionò diversi dipinti a Guercino. Una volta stabilitosi a Roma, il porporato ingrandì la sua collezione, con opere di diversi autori, tra cui spiccano Giovanni Maria Morandi, Luigi Garzi e Carlo Maratta: quest’ultimo, nello stesso periodo in cui eseguì per il cardinale la pala d’altare della cappella in Santa Maria del Popolo, dipinse per lui una solenne Morte della Vergine, oggi di proprietà Torlonia e conservata a Villa Albani, e lo effigiò in uno splendido ritratto, ora al Musée des Beaux-Arts di Marsiglia.
Alla morte di Alderano, i suoi dipinti e i suoi libri furono trasportati a Massa e andarono a impreziosire le sale del Palazzo Ducale, dove tuttavia non rimasero, in buona misura, che un paio di decenni: l’ultimo duca Cybo Malaspina di Massa, il pronipote del cardinale, che portava anch’egli il nome di Alderano, avviò la dispersione delle raccolte ducali, i cui pezzi più preziosi possono essere rintracciati nei principali musei d’Italia e d’Europa. A Massa non resta che un solo pezzo riconducibile alle raccolte d’arte del cardinale: non un quadro, ma un crocifisso in bronzo di eccelsa fattura, gemello di quelli con il Cristo morto che furono realizzati, su modello di Gian Lorenzo Bernini e Ercole Ferrata, per la basilica di San Pietro. Scampato alla dispersione, il bronzo si trova oggi al Museo Diocesano della cittadina apuana, preziosa testimonianza di una stagione in cui riverberi dello splendore artistico della Roma seicentesca giunsero fin sotto le Apuane.
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ISCRIVITI ALLA NEWSLETTERL'autore di questo articolo: Fabrizio Federici
Fabrizio Federici ha compiuto studi di storia dell’arte all’Università di Pisa e alla Scuola Normale Superiore. I suoi interessi comprendono temi di storia sociale dell’arte (mecenatismo, collezionismo), l’arte a Roma e in Toscana nel XVII secolo, la storia dell’erudizione e dell’antiquaria, la fortuna del Medioevo, l’antico e i luoghi dell’archeologia nella società contemporanea. È autore, con J. Garms, del volume "Tombs of illustrious italians at Rome". L’album di disegni RCIN 970334 della Royal Library di Windsor (“Bollettino d’Arte”, volume speciale), Firenze, Olschki 2010. Dal 2008 al 2012 è stato coordinatore del progetto “Osservatorio Mostre e Musei” della Scuola Normale e dal 2016 al 2018 borsista post-doc presso la Bibliotheca Hertziana, Roma. È inoltre amministratore della pagina Mo(n)stre.