Il perduto San Matteo del Caravaggio? Forse non fu dipinto per la Cappella Contarelli


Nuove scoperte sul San Matteo del Caravaggio, che non sarebbe stato dipinto per la Cappella Contarelli. L'opera è andata distrutta nel 1945.

Il prossimo 3 maggio si terrà a Roma, a Villa Lante al Gianicolo, un seminario sul “San Matteo e l’angelo” del Caravaggio, durante il quale saranno discusse novità sull’opera. Vi diamo alcune anticipazioni circa una novità di cui si discuterà.

Era il maggio 1945 quando, in una Berlino a onor di cronaca ormai liberata, le truppe sovietiche appiccavano fuoco al Flakturm Friedrichshain, benché ancora oggi si racconti di una responsabilità imputabile ai bombardamenti degli Alleati. Era questo, paradossalmente, il deposito dove, durante il secondo conflitto mondiale, si era pensato di mettere in sicurezza decine e decine di opere d’arte dal Kaiser Friederich Museum.

Leggere ancora oggi l’elenco dei quadri distrutti (ma ci piacerebbe pensare più ottimisticamente che siano stati trafugati, e che un domani qualcuno possa tornare alla luce) fa quanto meno raggelare. Rubens, Goya, van Dyck, Andrea del Sarto: sono solo alcuni autori degli oltre quattrocento dipinti dispersi. Fra questi, spiccavano ben tre Caravaggio, provenienti dalla collezione Giustiniani, i cui eredi se ne disfecero nel 1815 pur di recuperare liquidità, vendendoli al re di Prussia: il poco studiato Cristo nell’Orto degli ulivi, il Ritratto della cortigiana Fillide (modella di cui si è pensato, forzatamente, fosse amante dello stesso Merisi e che avesse posato anche in altri quadri) e, certamente il più apprezzato e noto fra tutti, il San Matteo e l’angelo. Quest’ultimo, come racconta il biografo Giovan Pietro Bellori, era collocato sull’altare della cappella Contarelli in San Luigi dei francesi, e fu rifiutato per mancanza di “decoro” e in particolare per quei “piedi rozzamente esposti al popolo”, con il santo che sembra un povero analfabeta, guidato letteralmente nella scrittura del Vangelo dalla mano dell’angelo. Tanto da essere sostituito dal più composto dipinto che tutt’oggi ammiriamo in chiesa.

Caravaggio, San Matteo e l'angelo
Caravaggio, San Matteo e l’angelo (prima del 1602; olio su tela, 223 x 183 cm; già a Berlino, Kaiser Friedrich Museum; distrutto durante l’incendio del Flakturm Friedrichshain)

Ma davvero andò così? La leggenda del “pittore maledetto” è estremamente affascinante e dura da scalfire. Eppure sembra più plausibile che, dato anche il formato pressoché quadrato e poco adatto a una pala d’altare (e l’altezza sensibilmente minore rispetto alla seconda versione), assieme all’assenza di documenti relativi (altrimenti sempre reperiti per gli altri lavori di Caravaggio nella cappella Contarelli) il San Matteo mai mise “piede” sull’altare. Piuttosto, l’opera deve essere stata commissionata direttamente come quadro “da stanza” dal marchese Vincenzo Giustiniani. Quest’ultimo, da lì a qualche anno, vi affiancò nella sua ricca galleria raffigurazioni degli altri tre evangelisti, per mano di altri celebri artisti: Guido Reni (San Luca), Domenichino (San Giovanni) e Francesco Albani (San Marco). Dell’intero ciclo è sopravvissuto il solo San Giovanni, andato a finire, e tutt’ora visibile, alla National Gallery di Londra. Degli altri due si era persa ogni traccia, finché recentemente il rettore di San Luigi dei francesi, monsignor François Bousquet, ha segnalato la presenza di un ciclo di quattro evangelisti appesi nella controfacciata della chiesa di Saint-Martin presso il borgo francese di Pauillac, nome che finora nulla avrebbe detto ai più. Due di questi dipinti sono copie dei già noti Matteo e Luca di Merisi e Reni, da cui si può dedurre, anche dalla lettura stilistica, che i restanti siano anch’essi copie degli altri due quadri mancanti all’appello, la cui iconografia era completamente ignota.

Con questa bella scoperta devono ora fare i conti le ricostruzioni cromatiche del caravaggesco San Matteo, tutte diverse ed elaborate con vari mezzi a partire da una semplice foto in bianco in nero, fino all’ultima del pittore Antero Kahila, che rispetto all’originale comunque si discosta in sostanza per il solo colore del mantello (rosso anziché aranciato). Il copista, oltre ad aver approfondito la tecnica di Merisi, si era anche documentato sulle descrizioni letterarie primonovecentesche dei vari studiosi che, ognuno ricorrendo a modo suo alle sfumature della propria lingua, avevano descritto i colori del dipinto disperso: la storia dell’arte, si sa, non è una scienza esatta (e le scoperte portano talvolta a rivedere quanto più di acquisito si credeva già). Ad ogni modo la copia di Kahila, olio su tela a dimensioni naturali, resta un pezzo di forte impatto emotivo, al di là della storia struggente del prototipo, ed è attualmente in esposizione fino ai primi di maggio a Roma presso Villa Lante al Gianicolo, villino rinascimentale oggi sede dell’Accademia di Finlandia. Di tutti questi temi si parlerà in tale sede in un simposio ideato da Michele Cuppone che, il 3 maggio a partire dalle 18, vedrà dibattere studiosi di livello internazionale, da Alessandro Zuccari ad Altti Kuusamo.

Il dipinto individuato a Pauillac
Il dipinto individuato a Pauillac (fine XVIII secolo; olio su tela, 140 x 114 cm)


La ricostruzione di Antero Kahila
Antero Kahila, ricostruzione del San Matteo e l’angelo di Caravaggio (2008; olio su tela, 232 x 183 cm)

Certo, fa dolore pensare a un Caravaggio che brucia o che comunque non c’è più. E, purtroppo, non è stata né la prima né l’ultima volta che è accaduto. Di nuovo, sono solo le fonti letterarie a ricordare una splendida Resurrezione dipinta a Napoli per tale Alfonso Fenaroli nella chiesa di Sant’Anna dei Lombardi, andata dispersa a seguito del crollo del 1798 che devastò l’edificio. Ancora, diverse ricerche si sono dedicate di recente a ricostruire, quanto meno, la genesi romana nell’anno 1600 della Natività con i santi Lorenzo e Francesco, ma del quadro non v’è più traccia da quando fu trafugato nel 1969 dall’oratorio di San Lorenzo a Palermo per cui fu dipinto. E non solo Caravaggio: è attualità dei nostri giorni il trafugamento della pala di Guercino nel 2014, e di diversi dipinti dal museo di Castelvecchio già l’anno seguente. Sono gli ultimi casi più clamorosi di una emorragia continua, ma almeno tutti questi ultimi fortunatamente recuperati (seppur in condizioni molto precarie nel caso del Guercino).

Il nostro paese vanta una ricchezza culturale inestimabile: occorre tuttavia ribadire che questo patrimonio non è adeguatamente valorizzato nel senso più nobile e meno commerciale del termine, e che non si fa abbastanza per mettere gli enti preposti nelle condizioni di conservarlo al meglio, pensando ai posteri ma anche a noi stessi. Il Nucleo Tutela Patrimonio Culturale, istituito fatalmente nello stesso 1969 dell’ultimo Caravaggio scomparso in ordine di tempo, da solo e con le risorse a disposizione non basta. Non vorremmo più aprire le pagine di cronaca ovvero culturali e leggere di un quadro, fosse anche soltanto uno in più e di valore incommensurabilmente minore a quelli prima considerati, sottratto alla collettività. Qualcosa veramente può cambiare?


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Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta

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