È nota a tutti, anche a chi non ha profonde conoscenze di storia dell’arte, per essere l’unica firmata tra le opere note di Caravaggio (Michelangelo Merisi; Milano, 1571 - Porto Ercole, 1610), nonché la più grande: è la Decollazione di san Giovann Battista, capolavoro del 1608 conservato nella Concattedrale di San Giovanni a Valletta, capitale di Malta. Ed è un’opera firmata letteralmente col sangue: quello che scorre dal collo del Battista, ormai riverso a terra esanime, mentre uno degli sgherri di Salomè sta finendo di staccare la testa dal corpo, tenendo il santo a terra, per i capelli. Caravaggio si firma “f. Michelang[e]lo”, dove la “f” puntata (che sta per “fra’”) indica la sua condizione al tempo dell’esecuzione del dipinto: l’artista lombardo era stato infatti nominato cavaliere di Malta il 14 luglio del 1608 (“fra’” era l’apposizione con la quale i cavalieri venivano appellati), e per l’esattezza Cavaliere dell’Obbedienza Magistrale, il massimo grado cui Caravaggio poteva ispirare, dal momento che gli ordini più elevati, quelli di Grazia e di Giustizia, erano riservati solo alla nobiltà, alla quale il pittore non apparteneva.
Caravaggio era, all’epoca, un uomo in fuga, come è ben risaputo: a Roma, il 28 maggio del 1606, l’artista aveva ucciso, durante una rissa, il rivale nonché creditore Ranuccio Tomassoni, e probabilmente il giorno stesso, per timore delle conseguenze, abbandonò la capitale dello Stato Pontificio, tanto che già il 31 maggio si trovava nei feudi dei Colonna (che si estendevano tra alcune località alle porte di Roma: Palestrina, Paliano, Zagarolo), dove si trattenne per tre mesi prima di trasferirsi a Napoli. Nel frattempo, il 28 giugno, Caravaggio veniva condannato in contumacia alla pena di morte con l’accusa di omicidio. Dall’arrivo a Napoli trascorsero altri otto mesi, a seguito dei quali, nel giugno del 1607, il pittore lasciò anche la città partenopea e si spostò a Malta, dov’è registrato dal 14 luglio del 1607. Non sappiamo bene perché Caravaggio avesse deciso di recarsi sull’isola che, dal 1522, era governata dall’Ordine dei Cavalieri di San Giovanni, che vi si era trasferito dopo che i turchi, assediata la loro antica sede, ovvero l’isola di Rodi, se n’erano impossessati, cacciando i cavalieri, ai quali venne dunque concessa l’isola del Mediterraneo, dove fondarono il loro stato monastico. Per comprendere le ragioni del trasferimento del pittore sono state vagliate diverse ipotesi: la prima, riguarda un possibile tentativo di rientrare nelle grazie del papa (che nutriva un profondo rispetto per i cavalieri di Malta) proprio attraverso l’eventuale ottenimento del cavalierato, che lo avrebbe riabilitato agli occhi del pontefice. È poi possibile che si trattò semplicemente di un’opportunità lavorativa, dal momento che il potente Gran Maestro dei cavalieri di Malta, il francese Alof de Wignacourt (Fiandre, 1547 - La Valletta, 1622) era alla ricerca di un pittore, ed è probabile che Michelangelo Merisi poté godere dell’intercessione di Costanza Colonna, che conosceva sia il Gran Maestro sia l’artista. Tanto che il primo lavoro di Caravaggio a Malta fu proprio il ritratto del Gran Maestro. Oppure, anche se appare meno probabile, Merisi sperava di ottenere lo stesso titolo di cavaliere che due dei suoi nemici più odiati, Giovanni Baglione e Giuseppe Cesari detto il Cavalier d’Arpino, già possedevano. Ipotesi più recenti tendono invece a considerare un possibile tramite napoletano.
Ad ogni modo, qualunque fosse la ragione che spinse Caravaggio tra le acque del Mediterraneo, fatto è che l’artista riuscì a dimostrare il proprio talento, tanto da ottenere, dallo stesso Wignacourt, l’ambito titolo di cavaliere, proprio grazie al ritratto, come racconta lo storiografo Giovan Pietro Bellori nelle sue Vite, dove si legge che per il ritratto (o per i ritratti: secondo Bellori, Caravaggio ne eseguì due, anche se ne conosciamo per certo solo uno, quello del Louvre che raffigura il Gran Maestro in piedi, armato) Wignacourt “gli donò in premio la Croce”, e lo fece dunque diventare cavaliere di Malta. Un momento felice che durò molto poco, dal momento che già il 19 agosto Caravaggio fu arrestato e imprigionato nel Forte Sant’Angelo per aver ferito in una rissa un altro cavaliere, il nobile astigiano Giovanni Rodomonte Roero. Prima di finire in galera (sarebbe evaso in modo rocambolesco, di sicuro con l’aiuto di qualcuno, il 6 ottobre, abbandonando definitivamente Malta), l’artista fece però in tempo a ricevere, direttamente da Wignacourt, l’incarico di dipingere la Decollazione del Battista, grande tela destinata a a decorare l’oratorio di San Giovanni, la più importante impresa artistica del magistero di Wignacourt. La chiesa, annessa alla Concattedrale, era stata fondata nel 1602 e doveva essere un importante centro religioso e civile (su queste pagine abbiamo ripercorso le sue vicende in modo molto dettagliato).
Caravaggio, Decollazione del Battista (1608; olio su tela, 361 x 520 cm; Valletta, Concattedrale di San Giovanni) |
Per i cavalieri di Malta, Caravaggio cominciò a dipingere la sua tela più imponente, di circa tre metri e mezzo di altezza per cinque e venti di larghezza. La scena si svolge all’interno di quella che appare come una prigione: quattro personaggi si trovano nella parte sinistra della composizione, uno è l’aguzzino che ha appena ucciso san Giovanni Battista e che, con la misericordia, ovvero il pugnale corto che serviva a finire un avversario ferito mortalmente, si appresta a decollare il martire, e gli altri gli stanno intorno (il carceriere che, impassibile, indica in modo perentorio il bacile che viene sorretto da una giovane, probabilmente la stessa Salomè, ma per via del vestito molto sobrio c’è chi ha anche suggerito si tratti semplicemente di una servetta, mentre il terzo personaggio, una vecchia attendente, porta le mani al volto per l’orrore). Due carcerati, nella parte destra, osservano l’avvenimento da dietro le sbarre della loro cella. Così descrive il dipinto il biografo Bellori: “per la Chiesa di San Giovanni gli fece dipingere la decollatione del Santo caduto à terra, mentre il Carnefice, quasi non l’habbia colpito alla prima con la spada, prende il coltello dal fianco, afferrandolo ne’ capelli per distaccargli la testa dal busto. Riguarda intenta Herodiade et una vecchia seco inhorridisce allo spettacolo, mentre il Guardiano della prigione in habito turco, addita l’atroce scempio. In quest’opera il Caravaggio usò ogni potere del suo pennello havendovi lavorato con tanta fierezza, che lasciò in mezze inte l’imprimitura della tela”.
A sottolineare il dramma in atto è la potenza evocativa della luce, che un grande studioso come Maurizio Calvesi ha definito “sobbalzante” e capace di richiamare “l’ultimo palpito di vita nel corpo del martire che è caduto bocconi, con le mani legate dietro la schiena”. Proprio Calvesi ha insistito sulla portentosa regia caravaggesca, capace di costruire un’efficace narrazione a partire da ogni singolo elemento della composizione, incluso l’anello di ferro conficcato nella parete sul lato destro, che “lascia intuire quanto può essere avvenuto appena prima, quando il santo è stato slegato da quell’angolo e trascinato in avanti”. E poi ancora, nella metà superiore del dipinto, come spesso accade nei dipinti dell’ultimo Caravaggio, non ci sono presenze vive: tutto occupato dal grande arcone della prigione, dalla cornice della cella, dalla parete. Quel vuoto che caratterizza molti dei dipinti delle fasi estreme della carriera di Caravaggio, raggiunge qui un’ampiezza fino a quel momento mai sperimentata (anzi: in questo quadro, per la prima volta l’architettura diventa coprotagonista), per modificare il rapporto tra spazio e figura dando più spazio a quella “muta penombra che drammatizza le stesure tonali di Tiziano in una modulazione sospesa e rientrante”.
Il tema del santo decapitato, peraltro ricorrente nel Caravaggio degli ultimi anni, ha dato adito a diverse letture psicologiche dell’opera, facilitate anche dal fatto che il pittore scelse di scrivere la sua firma col sangue di san Giovanni Battista, come a voler trovare una sorta d’identificazione nel martire, poiché anche lui avrebbe subito la stessa fine, data la condanna a morte che pendeva (letteralmente) sul suo capo. Certo, c’è disagio nell’opera del Caravaggio lontano da Roma, e la stessa firma insanguinata, hanno scritto Paolo Jorio e Rossella Vodret, “aggiunse un tratto cupamente biografico” al dipinto eseguito per Wignacourt. Ma per inquadrare più correttamente l’opera è necessario leggerla nel contesto: intanto, la necessità di un realismo più intenso e incisivo era un’esigenza sentita dalle autorità ecclesiastiche del tempo, che arrivarono a fornire ai pittori precise prescrizioni su come impostare le immagini religiose, che dopo il Concilio di Trento sarebbero state rivestite di un’importante funzione psicagogica in grado d’ispirare sentimenti pii al fedele, che era tenuto, se non a immedesimarsi in ciò che osservava nelle opere, quanto meno a partecipare con viva e sincera contrizione al dolore e ai patimenti dei santi. E in questo senso, la Decollazione del Battista è un’opera non così lontana da questo modo d’intendere l’arte, se si pensa (come hanno del resto notato molti studiosi) che il cardinale Federico Borromeo, anni dopo, nel suo trattato De pictura sacra (pubblicato nel 1624, ma che riassumeva indicazioni che il clero già dava da tempo), raccomandava agli artisti di “ritrarre il tetro e orrido carcere” in cui san Giovanni Battista fu assassinato, affinché l’attenzione si concentrasse sul martirio del santo e non su altri dettagli, come “la madre o la scellerata donzella che richiese la nobile e veneranda testa di Giovanni”.
Ma Caravaggio, col capolavoro di Malta, si spinse anche più in là, immaginando per il riguardante un’immedesimazione totale, che passava per lo stesso luogo a cui il dipinto era destinato. Un intento che oggi non ci è più dato apprezzare, dal momento che i lavori di rinnovamento dell’Oratorio di San Giovanni Battista, intrapresi a partire dal 1680 con Mattia Preti, hanno modificato l’ambiente originario. La sistemazione originaria dell’oratorio (e del dipinto di Caravaggio) ci è nota grazie a un’incisione del tedesco Wolfgang Kilian (Augusta, 1581 - 1662), che mai si recò a Malta e basò dunque la sua descrizione su fonti terze, ma che ha realizzato l’unica immagine a noi nota dell’oratorio prima dei rifacimenti di fine Seicento. Il dipinto chiudeva dunque la parete di fondo dell’edificio di culto, e le sue misure quasi coincidevano con quelle della parete, ma non solo: la luce, nel dipinto, era calibrata in modo da apparire come la luce naturale dell’ambiente. Sempre Jorio e Vodret ipotizzano pertanto che Caravaggio abbia voluto conferire al dipinto un interessante effetto illusionistico: “La scena”, scrivono, “sembrava collocarsi come la prosecuzione dello spazio dell’oratorio perché Caravaggio fece coincidere le misure della tela con quelle della parete di fondo e utilizzò la direzione della luce proveniente dalle finestre originarie. Il limite della parete fu così annullato completamente e il buio oratorio si era magicamente trasformato in un suggestivo teatro: lo spettatore prendeva parte direttamente al drammatico evento nel momento stesso in cui accadeva e la decollazione era dipinta con un realismo tale che, guardandola nella penombra, si stentava a credere che fosse la finzione di un quadro”.
Oratorio di San Giovanni Decollato. Ph. Credit Michael Jones |
Wolfgang Kilian, Oratorio di San Giovanni Decollato (C. von Osterhausen, Eigentlicher vnd gruendlicher Bericht dessen..., Augsburg 1650) |
Caravaggio, Decollazione del Battista, dettaglio del Battista con la firma di Caravaggio) |
Caravaggio, Decollazione del Battista, dettaglio dell’aguzzino e del carceriere |
Caravaggio, Decollazione del Battista, dettaglio dei due carcerati |
Il dipinto doveva poi rispondere a precise finalità “didattiche”, in linea con i principî religiosi dei cavalieri di Malta: questa caratteristica della Decollazione è stata ben messa in evidenza dallo studioso David M. Stone, partito dalla constatazione che la presenza dei due carcerati che assistono alla scena non sia una semplice nota descrittiva, ma si configuri semmai come una precisa citazione tratta da un’incisione che illustrava lo statuto XVII degli Statuta hospitalis Hierusalem, il libro, pubblicato nel 1588, che raccoglieva tutte le regole dei cavalieri di Malta, che rimase in uso fino al 1609 e che era ben conosciuto anche al di fuori di Malta. Lo statuto XVII riguardava i “divieti e le pene”, e la stampa di Thomassin, scrive Stone, “imposta una dicotomia che nessun cavaliere può fraintendere”, dal momento che sulla destra compaiono due cavalieri liberi che seguono pertanto la via della virtù, e sulla sinistra, dietro le sbarre, i loro confratelli che hanno commesso errori. Al centro, invece, la rappresentazione della terribile punizione che toccava ai cavalieri che si macchiavano di omicidio: il colpevole veniva chiuso vivo dentro a un sacco e poi gettato in mare da un’imbarcazione. Occorre infatti ricordare che l’oratorio di San Giovanni Battista era, come detto, un luogo non soltanto religioso: fungeva infatti da tribunale, ma anche da luogo in cui si tenevano assemblee nelle quali si decidevano provvedimenti importanti per la vita dell’Ordine. Di conseguenza, l’apparato decorativo dell’edificio doveva anche, hanno evidenziato gli studiosi Sante Guido, Giuseppe Mantella, “accompagnare, con la suggestione delle immagini, il percorso di formazione dei novizî e il quotidiano rinnovamento della promessa da parte dei confratelli professi”. In questo senso va letta, ad esempio, la presenza di una lunetta raffigurante l’Intercessione del Battista alla Vergine per i cavalieri caduti nel Grande Assedio eseguita dal pittore greco Bartolomeo Garagona e che in antico sovrastava la Decollazione, e anche la presenza stessa dell’immagine del martirio del santo che, ha scritto Stone, in quanto “santo precursore”, viene raffigurato come “l’agnello sacrificale macellato per la sua fede” (e il suo martirio era dunque da leggere in parallelo al martirio dei cavalieri caduti durante il Grande Assedio).
È infine possibile rintracciare eventuali fonti figurative di cui Caravaggio poté ricordarsi nell’eseguire il dipinto maltese? Ovviamente non ci è dato sapere con certezza quali memorie serbasse Caravaggio all’epoca della realizzazione del dipinto maltese, ma diversi studiosi hanno provato ad avanzare possibili analogie: per esempio, Bernard Berenson ha notato come la severità calibrata della composizione ricordi la Decollazione del Battista di Andrea del Sarto (Andrea d’Agnolo Vannucchi; Firenze, 1486 - 1530) al chiostro dello Scalzo, dove peraltro il santo è nella stessa posa che assume nel dipinto del Merisi. E ancora, Roberto Longhi evocò due dipinti di Antonio Campi (Cremona, 1522 - 1587), che si trovavano a Milano e che di sicuro Caravaggio conosceva: si tratta della Decollazione del Battista conservata nella chiesa di San Paolo Converso e della Santa Caterina visitata nel carcere dall’imperatrice Faustina, che invece si trova in Santa Maria degli Angeli. In particolare, il secondo dipinto era per Longhi una “macchina luminosa” dalla quale il Caravaggio mostrò di “aver tratto suo pro”, e non tanto per l’impostazione degli effetti luministici (Caravaggio, rispetto a Campi, è già artista d’un’epoca successiva), quanto per l’impaginazione della scena, con la grata della cella sulla destra a bilanciare i personaggi sulla sinistra e il vuoto cupo nel registro superiore. Altro artista spesso chiamato in causa per la Decollazione è il Moretto (Alessandro Bonvicini; Rovato, 1498 - Brescia, 1554), soprattutto per la presenza delle realistiche architetture che costituiscono uno degli elementi tipici dell’arte del pittore bresciano, sicuramente familiari a Caravaggio. E poi, dall’arte lombarda è desunta anche l’idea di firmare col sangue, che non è un’invenzione caravaggesca, ma è un’idea presente già da tempo in analoghe opere di artisti attivi in Lombardia: ad esempio, in un’opera dello stesso Moretto, il Martirio di san Pietro martire, si trova una soluzione identica (qui, il sangue sul terreno forma la parola “credo”).
Philippe Thomassin, De prohibitionibus et poenis, illustrazione per lo Statuto XVIII degli Statuta hospitalis Hierusalem (incisione, 183 x 138 mm; Washington, Catholic University of America) |
Andrea del Sarto, Decollazione del Battista (1523; affresco; Firenze, Chiostro dello Scalzo) |
Antonio Campi, Santa Caterina visitata in carcere dall’imperatrice Faustina (1584; olio su tela, 400 x 500 cm; Milano, chiesa di santa Maria degli Angeli) |
Moretto, Martirio di san Pietro martire, dettaglio (1533-1534 circa; olio su tela, 310 x 163 cm; Milano, Pinacoteca Ambrosiana) |
Moretto, Martirio di san Pietro martire, dettaglio (1533-1534 circa; olio su tela, 310 x 163 cm; Milano, Pinacoteca Ambrosiana) |
C’è poi un’ulteriore novità su cui vale la pena soffermarsi, ovvero il passaggio da uno stile concitato, che aveva caratterizzato precedenti scene convulse nell’arte di Caravaggio (si pensi, per esempio, al Martirio di san Matteo di San Luigi dei Francesi, o anche alle Sette opere di misericordia di Napoli) a uno stile meditativo: una distinzione sottolineata da Mina Gregori, secondo la quale, nella Decollazione di Malta, Caravaggio opta per “una tragica concentrazione delle sole dramatis personae”: “una calma perentoria e la verità solenne dei sentimenti”, scrive la studiosa, “si sostituiscono agli echi del pathos antico. Lo stoico distacco con cui il Caravaggio narra l’evento si tramuta insensibilmente nell’occhio moderno che registra virilmente e senza illusioni il destino umano, così che si può affermare che senza questo ‘supremo capolavoro dell’arte europea’ [come lo definì Denys Sutton, nda] non avremmo né Rembrandt né l’Enterrement à Ornans”, quest’ultimo grande capolavoro di Gustave Courbet oggi conservato al Musée d’Orsay. È proprio una moderna concezione del fatto che Caravaggio introduce nel dipinto della Valletta: dal concetto di “azione”, dinamico e colto nella sua dimensione temporale, nel suo passaggio da un momento a un altro, Michelangelo Merisi sostituisce, nota Mina Gregori, l’hic et nunc, “l’attualità del fatto e una nuova, moderna reificazione”. Una modernità che aveva portato Denis Mahon a parlare di "nuovissimo impressionismo" per lo stile dell’ultimo Caravaggio.
L’artista non ebbe però il tempo di godersi i frutti del suo lavoro. Si è già ricordato che, il 14 luglio del 1608, l’artista veniva nominato cavaliere, e per il suo dipinto l’artista ricevette in dono anche due schiavi. Ma non solo: il successo gli fece ottenere altri incarichi, a cominciare dal San Girolamo, anch’esso conservato a Malta, che gli fu commissionato da Ippolito Malaspina (Fosdinovo, 1540 - Malta, 1625), cavaliere lunigianese che fu tra gli amici più fidati del pittore all’epoca del breve soggiorno sull’isola. Tuttavia, il breve periodo felice fu duramente spezzato dalla rissa del 18 agosto, durante la quale il già citato Giovanni Rodomonte Roero rimase ferito: il giorno seguente, il Gran Maestro ordinò l’apertura di un’inchiesta per fare luce sull’accaduto, e alla fine emerse la colpevolezza di Caravaggio. Poi, l’evasione del 6 ottobre e, infine, quando Caravaggio era già lontano e al sicuro, in Sicilia, la triste cerimonia della privatio habitus, ovvero la “privazione della veste”: viene dunque spontaneo domandarsi come sarebbe andata la storia, e quanti altri capolavori avrebbe potuto dipingere il grande pittore, se solo non fosse rimasto coinvolto nell’ennesimo guaio. La realtà però andò diversamente: il 1° dicembre del 1608, i Cavalieri di Malta lo espellevano formalmente dall’Ordine dichiarandolo “membrum putridum et foetidum”, “membro putrido e fetido”. E la sentenza venne letta proprio di fronte a quella Decollazione che l’artista aveva consegnato solo pochi mesi prima.
Le due opere di Caravaggio citate nell’articolo, ovvero la Decollazione di san Giovanni Battista e il San Girolamo scrivente si possono vedere ancora oggi all’interno della Concattedrale di San Giovanni: sul sito ufficiale si possono consultare gli orari di ingresso e si possono avere informazioni sui biglietti per l’accesso. La Valletta, la capitale di Malta, è città patrimonio mondiale dell’Umanità UNESCO, è una città ricca d’arte e di cultura ed è il punto di partenza privilegiato per scoprire tutto l’arcipelago maltese e i suoi secoli di storia.
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ISCRIVITI ALLA NEWSLETTERGli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta
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