“I viaggiatori vedranno nel palazzo Riccardi, l’antica dimora dei Medici, una cappella di Benozzo Gozzoli molto ben conservata. C’è una rara profusione d’oro negli affreschi, un’imitazione spontanea e vivida della natura che la rende oggi preziosa: i vestiti, i finimenti dei cavalli, i mobili e persino il modo di muoversi e guardare delle figure dell’epoca. Tutto è reso con una verità impressionante”. A lodare la bellezza della Cappella dei Magi di Benozzo Gozzoli (Benozzo di Lese di Sandro; Badia a Settimo, 1420/1421 - Pistoia, 1497) è Stendhal nella sua Histoire de la Peinture in Italie: neppure il grande Marie-Henri Beyle aveva resistito al fascino di uno degli ambienti più splendidi e singolari del Rinascimento fiorentino, rimasto pressoché intatto dall’epoca in cui fu realizzato, sebbene in origine fosse più grande e abbia subito decurtazioni nel tempo. Era il 1459 quando Benozzo fu chiamato da Cosimo de’ Medici (Firenze, 1389 - Careggi, 1464) per affrescare la cappella del palazzo della famiglia edificato tra il 1444 e il 1445 sulla via Larga, l’attuale via Cavour. L’ambiente costituiva peraltro un unicum al tempo, dal momento che si trattava della prima cappella autorizzata in un palazzo privato di Firenze.
Le vicende della Cappella sono state rese oggetto di approfondimento nell’ambito della mostra Benozzo Gozzoli e la Cappella dei Magi (Firenze, Museo di Palazzo Medici Riccardi, dal 16 dicembre 2021 al 10 marzo 2022, a cura di Serena Nocentini e Valentina Zucchi), che ne ha indagato le origini e il processo di realizzazione, anche attraverso l’esposizione di disegni connessi all’esecuzione degli affreschi, con uso esteso di apparati multimediali, e senza trascurare i legami dell’artista con i Medici. Prima di arrivare alla Cappella è effettivamente interessante comprendere come Benozzo fosse riuscito a entrare nell’orbita della potente famiglia che, con il ritorno di Cosimo il Vecchio dall’esilio veneto nel 1434, si affermò instaurando la signoria de facto sulla città. Della formazione di Benozzo non sappiamo molto: tuttavia, Nocentini e Zucchi hanno ribadito in occasione della mostra di Palazzo Medici Riccardi l’idea vasariana che l’artista dovette compiere i suoi primi passi nella pittura assieme al Beato Angelico (Vicchio, 1395 circa - Roma, 1455), dopo aver appreso i primi rudimenti osservando il lavoro del padre, un farsettaio (ovvero un sarto), e frequentando le botteghe dei ricamatori della città. Sappiamo tuttavia che Benozzo collaborò con l’Angelico nel convento di San Marco, benché ancora oggi sia da chiarire a quali mani occorra riferire i dettagli degli affreschi del complesso. La Madonna con il Bambino e gli Angeli della National Gallery di Londra è una delle prime opere attribuite a Benozzo, ed è qui possibile, scrivono Nocentini e Zucchi, “cogliere la naturale abilità nella resa delle stoffe, così nelle vesti come nel pregiatissimo baldacchino”, oltre alla raffinatezza della composizione “costruita secondo un preciso impianto spaziale e assai ricercata nelle finiture, complice il largo impiego della foglia d’oro”, che rivela “l’inclinazione dell’artista per i dettagli, evidente nella raffigurazione dell’ambiente naturale, ricco di pungenti e fantasiose policromie e in dialogo simbolico con il tappeto fiorito ai piedi della Vergine”: abilità che all’artista torneranno utilissime all’epoca della realizzazione degli affreschi della Cappella dei Magi.
Negli anni Cinquanta Benozzo si specializzò nella tecnica dell’affresco, e come frescante fu particolarmente richiesto in Umbria e nel Lazio, dove lavorò per tutto il decennio. Dopodiché, Benozzo rientrò a Firenze nel 1459, anche se il motivo non ci è noto: Cristina Acidini ipotizza tuttavia che dovrebbe risalire a questo periodo la Madonna col Bambino e nove angeli del Detroit Institute of Arts (della quale non conosciamo l’originaria destinazione, né il nome del committente), che però “potrebbe essere stata una sorta di biglietto da visita presso la famiglia Medici, facendogli guadagnare la fiducia e la stima in vista del prestigioso incarico” (così Nocentini e Zucchi). All’epoca in cui Benozzo fu chiamato ad affrescare la cappella, l’ambiente ovviamente era già pronto: Cosimo lo affidò al suo architetto, il grande Michelozzo di Bartolomeo (Firenze, 1396 - 1472), che prese a modello l’impianto della Sagrestia Vecchia di Filippo Brunelleschi, progettando dunque un’aula, ovvero l’ambiente principale, una scarsella a essa collegata (è il locale più piccolo dove si trova l’altare), e due ricetti laterali (oggi sopravvive solo quello sinistro). Quando Benozzo arrivò a dipingere gli affreschi, la cappella si presentava già con il suo sontuoso soffitto a cassettoni nell’aula e con lo spettacolare monogramma radiante di Cristo nel soffitto della scarsella, con le grandi lesene scanalate a capitelli corinzi che marcano le pareti, e con il pavimento intarsiato, fatto di marmo bianco, granito grigio, serpentino verde e porfido rosso, culminante al centro con un grande disco di porfido rosso (materiale collegato al potere imperiale), di provenienza archeologica (il soffitto e il pavimento che vediamo oggi sono frutto della ricostruzione, con materiali originali, del 1929). Mancavano solo le pitture quando, nell’aprile del 1459, Cosimo ricevette a palazzo il figlio del duca di Milano suo alleato, Galeazzo Maria Sforza. Perché i Medici affidarono a Benozzo le decorazioni di un ambiente tanto importante, invece di garantire l’incarico a un pittore già collaudato quale poteva essere il più esperto Filippo Lippi? Secondo la studiosa Cristina Acidini, si tratta di un insieme di circostanze contingenti, ragioni di opportunità politica e valutazioni artistiche: a Lippi era già stata affidata la tavola dell’altare della scarsella (oggi a Berlino: al suo posto sulla cappella figura una copia di bottega), ed era inoltre già impegnato con gli affreschi del Duomo di Prato, “e poi, della gloriosa generazione di metà secolo”, scrive Acidini, “Andrea del Castagno era morto, Paolo Uccello e Domenico Veneziano stavano invecchiando, Piero della Francesca si divideva tra Roma e Arezzo, Alesso Baldovinetti era forse troppo vicino ai Pazzi... Benozzo, pittore sperimentato e di successo, dava sufficienti garanzie anche per esser stato socio giovane dell’Angelico, al quale Cosimo aveva affidato la dipintura di tutto il nuovissimo convento di San Marco, da lui finanziato”. In sostanza, i Medici erano al corrente del talento di Benozzo, anche se l’artista non aveva mai direttamente lavorato per loro: e la scelta di Cosimo, condivisa con ogni probabilità con i figli Piero e Giovanni, si rivelò una scommessa vincente.
Per completare la decorazione della cappella occorsero poco più di tre anni: cominciati i lavori nel 1459, Benozzo portò a termine l’impresa alla fine del 1463. “Benozzo”, scrive ancora Acidini, “pienamente all’altezza delle aspettative dei Medici, aveva realizzato il suo capolavoro assoluto, ricoprendo di smaglianti pitture murali il sopraporta esterno, le tre pareti grandi dell’aula, le tre pareti della scarsella, le strette fasce sopra le porte delle sagrestiole”. Gli affreschi si leggono a partire dall’ingresso della cappella, sormontato da un’immagine dell’Agnello mistico posto sopra un altare su cui sono posti sette sigilli e sette candelieri, secondo una simbologia di origine giovannea che allude alla fine dell’umanità e al giudizio finale. Entrando, si viene travolti dagli affreschi del Viaggio dei Magi di Benozzo dipinto sui tre lati dell’aula, anche se il fulcro ideale e iconografico dell’intera cappella è la tavola con l’Adorazione del Bambino al centro della scarsella. L’adorazione del piccolo Gesù, posto sulla nuda terra, è accompagnata dagli affreschi che decorano le due pareti della scarsella e che raffigurano le schiere angeliche che rendono gloria alla nascita del Signore. Nonostante le alterazioni subite nel tempo, gli affreschi non hanno visto intaccare la loro magnificenza, per quanto l’ambiente, nel corso della storia, abbia conosciuto diverse vicissitudini. Verso la metà del Seicento, quando i Medici ancora detenevano la proprietà del palazzo, furono aperte due finestre rettangolari sulla parete sud, vicino alla porta d’ingresso, per dare luce all’ambiente (oggi ne è rimasta una, quella sinistra). In antico, infatti, la Cappella dei Magi era illuminata soltanto dai lumi delle candele, e questo spiega anche le scelte di Benozzo su colori e materiali: quando si ricreano le antiche condizioni di illuminazione, scrive Cristina Acidini, “ecco che ogni elemento trova un appropriato posizionamento nella spazialità virtuale delle scene e contribuisce all’armonia complessiva. Il paesaggio recede nella penombra, acquistando profondità prospettica; i cavalli in primo piano emergono con la potenza statuaria dei monumenti antichi (del Marc’Aurelio o dei Dioscuri di Montecavallo, che Benozzo aveva visto a Roma); i colori si attenuano, mentre acquistano splendore l’oro e l’argento”.
Poi, nel 1659, il marchese Gabriello Riccardi acquisì il palazzo e dieci anni dopo si cominciò a progettare lo scalone d’onore, che però prevedeva, nell’idea originaria, l’abbattimento della Cappella dei Magi per fare spazio a un nuovo pianerottolo: ci furono forti proteste da parte di illustri personalità della Firenze del tempo, ragion per cui nel 1688 il progetto originario, attribuito a Pier Maria Baldi, fu sostituito da quello di Giovanni Battista Foggini che preservò la cappella ma ne alterò l’angolo sud-ovest, ricostruito con una rientranza (si noterà, entrando nella cappella, che gli affreschi sono decurtati: lo si vede bene osservando Baldassarre, il cui cavallo è tagliato a metà). Durante i lavori di sistemazione dell’ambiente per permettere la costruzione dello scalone furono smontati anche il soffitto, il pavimento e il coro, anche se nel 1689 gli affreschi furono restaurati da Jacopo Chiavistelli (Firenze, 1621 - 1698), che risarcì anche le lacune. Ancora, nel 1837 sulla parete della scarsella venne aperto un grande finestrone che comportò la perdita degli affreschi di Benozzo coi simboli degli evangelisti Luca e Marco (venne poi dotato di vetri neorinascimentali, secondo il gusto del tempo, tra il 1875 e il 1876). Nel 1929 venne nominata una “Commissione per il riordinamento del Palazzo Medici Riccardi” che si occupò di ricostruire un ambiente che fosse il più vicino possibile all’originale: così, il finestrone aperto nell’Ottocento fu chiuso (oggi la parete è completamente azzurra: della decorazione di Benozzo sono rimasti solo i simboli degli evangelisti Giovanni e Matteo), venne ricollocato l’oculo con cornice in pietra serena della cappella, furono ricostruiti i soffitti e il pavimento con i materiali originali che era stato possibile recuperare. Infine, tra il 1988 e il 1992, l’intera cappella venne restaurata.
Nell’ideare lo spettacolare viaggio dei Magi, immaginato da Benozzo come un grande corteo dove, come si vedrà, figurano anche personaggi del tempo, dove i personaggi sono abbigliati con magnifici e lussuosi abiti contemporanei, e dove abbondano anche gli animali, tra i quali anche bestie esotiche, il pittore poteva ispirarsi al più alto precedente iconografico, l’Adorazione dei Magi che Gentile da Fabriano (Fabriano, 1370 circa - Roma, 1427) aveva dipinto nel 1423 per Palla Strozzi (oggi si trova agli Uffizi), ma alla fine risolse di creare un’immagine del tutto inedita della cavalcata dei Magi, creando un’opera che celebrava le aspirazioni dei Medici (vi si trovano infatti dipinti i ritratti di esponenti della casata appartenenti a tre generazioni diverse), oltre che i loro sostenitori e i loro alleati, nel quadro di una cavalcata che attraversa una campagna rigogliosa, caratterizzata da una vegetazione lussureggiante, dove abbondano frutti e fiori (è da evidenziare l’attenzione che Benozzo riserva a tutti gli elementi del naturale), e dove non mancano borghi e insediamenti umani, tra i quali vediamo qua e là anche pastori, specie nelle “facciuole”, intenti a far pascolare i loro armenti.
Come da tipica iconografia, i tre magi, Gaspare, Melchiorre e Baldassarre, sono raffigurati come un ragazzo, un uomo maturo e un anziano: dei tre cortei, l’unico oggi integro, senza le alterazioni dovute agli interventi secenteschi, è quello di Gaspare. Il re giovane è vestito con un abito di broccato bianco e dorato e con in capo un mazzocchio (ovvero un copricapo tipico del tempo, aperto al centro) blu e decorato con gemme preziose, mentre la veste di Melchiorre è verde, rossa e azzurra e il re indossa una corona a punte, infine la veste di Baldassarre è porpora e rosa, e il re indossa una corona a punte sopra un cappello propora. Sono tutti colori che rimandano ai simboli medicei. Ognuno dei re è preceduto da due cavalieri, uno dei quali mostra il dono per Gesù Bambino, e l’altro è invece il miles spatharius, ovvero il soldato che reca la spada del re. Secondo una lettura classica, il corteo dei Magi sarebbe una sorta di rievocazione del Concilio di Firenze del 1439, e sulla base di tale interpretazione (non condivisa) occorrerebbe riconoscere in Melchiorre l’imperaotre Giovanni VIII Paleologo, in Baldassarre il patriarca di Costantinopoli, Giuseppe II, e in Gaspare un giovanissimo Lorenzo il Magnifico, che però all’epoca del Concilio non era neppure nato, al tempo della realizzazione degli affreschi aveva solo dieci anni e, com’è noto dalle numerose sue immagini, non era né biondo né avvenente come il Gaspare di Benozzo. Si può scartare l’idea di un ritratto idealizzato perché i ritratti dei personaggi riconoscibili sono molto caratterizzati e vicini alle altre immagini che conosciamo di queste figure. Ecco dunque che dietro al cavallo di Gaspare appaiono i veri membri della famiglia Medici, guidati da un servitore con indosso una livrea a losanghe rosse e verdi: Piero de’ Medici è il primo, sul cavallo bianco; dietro, Cosimo il Vecchio cavalca una mula con le bardature blu e dorate; tra Piero e Cosimo figura invece Carlo, figlio naturale di Cosimo e di una schiava circassa di nome Maddalena, comprata sul mercato di Venezia. I due che compaiono più indietro sono gli alleati dei Medici: il giovanissimo Galeazzo Maria Sforza (sul cavallo bianco), futuro duca di Milano all’epoca quindicenne, e il quarantenne Sigismondo Pandolfo Malatesta (sul cavallo baio), signore di Rimini. Il vero Lorenzo di Piero de’ Medici, ovvero il futuro Magnifico, è tra i volti sopra i signori di Milano e Rimini: è il ragazzino sopra Galeazzo, appena spostato sulla sinistra, con il neo sulla guancia destra. Vicino a lui il più giovane fratello Giuliano, che all’epoca aveva sei anni. Proprio sopra Lorenzo ecco l’autoritratto di Benozzo Gozzoli, che indossa un berretto con la sua firma (“Opus Benotii”). Numerosi ritratti di fiorentini del tempo affollano tutte le pareti: accanto a quelli tradizionalmente riconosciuti (come Luigi Pulci e Marsilio Ficino), in occasione della mostra Benozzo Gozzoli e la Cappella dei Magi, Cristina Acidini ha ribadito la proposta di riconoscere, nella parete con il mago Baldassarre, dove peraltro Benozzo si autoritrae di nuovo (è l’uomo col turbante da lavoro azzurro fasciato di bianco sulla destra, vicino al personaggio che mostra la mano facendo il segno del numero cinquemila, secondo le convenzioni del tempo). Vicino a Benozzo, a destra, i due personaggi di profilo sarebbero Francesco Sassetti e Angolo Tani, direttori di filiali estere del banco mediceo. A fianco di Benozzo, Neri Capponi e vicino a lui Bernardo Giugni. Il personaggio più in alto con il cappello rosso potrebbe essere invece l’architetto Filarete.
Notevole è il ruolo della ritrattistica in Benozzo: l’artista, scrivono Nocentini e Zucchi, “fece del ritratto dal vero una delle sue peculiarità in anni in cui era del tutto inedito a Firenze, munito della sua consueta cura per il dettaglio e della sua ricercata sensibilità”. A livello stilistico, la pittura di Benozzo, sostenuta da un disegno ben studiato e da stesure cromatiche molto accurate, “raggiunge sui muri della cappella”, spiega Cristina Acidini, "un apice di raffinatezza pari alle più preziose miniature dei codici coevi. La pittura, applicata in sottili pennellate dall’andamento filamentoso, asseconda alla perfezione l’ornata varietas delle scene. Nelle vesti rende i motivi dei broccati, dei lampassi, dei cuoi impressi, della paglia e delle pellicce e, negli angeli, i serici cangianti. Nelle figure modella i volti dagli incarnati rosei e bruni, dove i massimi lumi sono evidenziati da fini contorni o da raggiere di colore bianco, con una tecnica ch’era stata perfezionata dai maestri della generazione precedente come Masaccio; descrive riccioli biondi e ciocche canute, mani giovanili e membra rugose, sugardi generici e occhiate perspicaci". E sono queste caratteristiche a renderlo uno dei più sofisticati ritrattisti del tempo.
Occorre inoltre evidenziare il ruolo del disegno, su cui la mostra Benozzo Gozzoli e la Cappella dei Magi ha insistito riservando una sala intera ai fogli che accompagnarono l’ideazione della Cappella o la precedettero. Notevole è l’attenzione riservata agli animali: agli Uffizi si conserva un foglio con uno Studio di cavallo sellato realizzato a penna, pennello e biacca, che per le anatomie incerte è stato riferito a un periodo di dieci anni precedente rispetto agli affreschi, o ancora un foglio delle Gallerie dell’Accademia di Venezia con una mucca che allatta un vitello e che va inserito tra i repertori di bottega. L’accuratezza nello studio dei ritratti è ben testimoniato da un foglio del Louvre con un Ritratto d’uomo con berretto, che nonostante non trovi precise corrispondenze nei ritratti della cappella è comunque testimone dell’indagine fisiognomica di Benozzo, probabilmente condotta dal vero e palese dimostrazione del grande realismo di cui l’artista diede prova negli affreschi della cappella. Si può invece riferire all’ideazione della cappella il foglio degli Uffizi con Due nudi maschili e due cani addormentati ai loro piedi in un paesaggio, probabile studio per uno dei pastori dipinti su una delle “facciuole” della Cappella. Il foglio con Filemone e l’asino, Gesù Bambino benedicente e re mago costituisce invece, afferma Luisa Berretti, “un valido esempio di come venivano eseguiti modelli per repertori, poiché, in neanche venti centimetri di larghezza esso condensa tre figure che, visti i caratteri singoli di ognuna di esse, si comprende, nonostante siano disegni finiti, essere indipendenti tra loro”.
Chi entrava nella cappella doveva aver chiaro il significato del programma iconografico immaginato per gli affreschi: “i re Magi immortalati sulle pareti della cappella, gli spiriti superiori degli angeli, raffigurati sulle pareti della scarsella, e Maria, inginocchiata e adorante”, spiegano Nocentini e Zucchi, “sono testimoni dell’incarnazione di Dio nell’uomo, in atto di compiersi sull’altare; a noi, folla profana, il compito di trasmutare i nostri atteggiamenti per accedere a questo sacro viaggio di fede”. L’attualizzazione della scena sacra, attraverso l’inserimento di personaggi del tempo, andava inoltre ad aggiungere un ulteriore livello di lettura, presentando il ciclo come una celebrazione dei Medici (si noterà che peraltro nelle tre età dei Magi si specchiano le tre generazioni rappresentate negli affreschi), e andando a costituire una novità sulla scena artistica del tempo, proprio perché la veridicità e l’estensione dei ritratti di personaggi contemporanei era un fatto senza precedenti nella pittura del Quattrocento, espressione di quella volontà tipica di Benozzo di interpretare “la maniera umanisticamente equilibrata, luminosa e spirituale” del Beato Angelico, come ha scritto Anna Padoa Rizzo, una delle massime esperte dell’arte di Gozzoli, “riproponendola tuttavia personalizzata nella direzione di una maggiore aderenza alla realtà del mondo, delle cose naturali ma anche di quelle create dalla felice mano dell’uomo”.
Alla riuscita dell’impresa tornarono utili tutte le qualità che i Medici avevano saputo individuare nell’arte di Benozzo Gozzoli: la predisposizione alle decorazioni sontuose, la capacità di analisi e il verismo delle figure, le doti compositive fondate su un calibrato equilibrio, l’accuratezza del disegno, la sapienza narrativa. Quando nel Novecento la Cappella fu di fatto riscoperta dopo che per secoli era stata dimenticata, si poneva come una rivelazione agli occhi dei tanti, studiosi e appassionati, che poterono visitarla. Tanto da portare uno dei più grandi storici dell’arte del Novecento, Ernst Gombrich, a scrivere nella sua The story of the art del 1950 che dobbiamo essere grati a Benozzo per aver conservato nelle loro opere una memoria della vita pittoresca e colorata di quel tempo, e che “nessuno andando Firenze dovrebbe perdersi il piacere di visitare questa piccola cappella in cui sembra persistere qualcosa del gusto e del sapore di una vita festosa”.
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