Alla inaugurazione della importante mostra dedicata al Verrocchio, il maestro di Leonardo, l’impostazione editoriale adottata per il catalogo risultava rivelatrice1: nella prima di copertina figura infatti il dettaglio di un dipinto, mentre solo nella quarta compare il dettaglio di una scultura, ovvero le celebri mani che la Dama delle primule accosta al petto sfiorandolo con il mazzolino. Poiché nella folta bibliografia pertinente alla personalità di Andrea del Verrocchio questi è oggetto di studio soprattutto come autore di opere di scultura, la scelta rivelava l’intenzione di puntare l’attenzione non solo sulla plastica, bensì anche, e con determinazione, su quella produzione pittorica della bottega verrocchiesca che, pure fra divergenze di opinione, parte della critica riferiva ad alcuni collaboratori del maestro. Si contraddiceva pertanto, legittimamente e apertamente, il testo delle Vite vasariane2, che descrive Andrea come artista che difettava di “facilità” ma era portato piuttosto allo “studio”, e come rinunciatario rispetto alla tecnica della pittura in favore di un allievo, specificamente Leonardo. Non è il caso di ricordare in questa sede quante e quali ragioni abbiano indotto la critica a ritoccare, correggere e confutare numerosissimi passaggi delle Vite, peraltro a fronte di altrettante forme di convalida e di valorizzazione che la stessa critica ha recato ad altri passi dell’opera di Giorgio Vasari; nondimeno, nel caso del Verrocchio, il profilo vasariano che descrive un artista/intellettuale portato a variare il registro del suo stile, lento nell’operare e talora esplicitamente ritardatario, si rivela per alcuni aspetti ancora giustificato; mentre a mio parere presenta qualche incrinatura l’identikit fornito da Caglioti e De Marchi: quello di un maestro iperattivo, che oltre ad avere il pieno possesso di molteplici competenze, operava concretamente praticando modalità di lavoro e tecniche diverse.
Ho espresso in più di una occasione le ragioni parziali del mio dissenso nei confronti di una mostra che pure ha avuto grandi meriti, ponendo a confronto opere di altissimo livello disperse in tutto il mondo3; e non è mia intenzione sminuire quello che è stato un buon lavoro d’insieme attaccando separatamente alcuni aspetti parziali, quasi che ciascuno di questi fosse il centro dell’impresa. Nondimeno mi sembra che sia opportuno proporre singoli approfondimenti, proprio per dare ulteriore vita a ciò che è stato elaborato e offerto al dibattito. Vorrei dunque dare un seguito positivo alle mie riflessioni partendo proprio da quella prima di copertina che ho citato sopra, ovvero dalla tavola con la Madonna col Bambino conservata nella Gemäldegalerie degli Staatliche Museen di Berlino4, nota come Madonna 104 A. Si tratta di un dipinto che a mio avviso potrebbe rappresentare a pieno titolo l’apporto di Sandro Botticelli all’interno della bottega, al pari di altri nuclei (tutti comunque circoscritti) riferibili al Perugino, a Domenico Ghirlandaio, a Piermatteo d’Amelia; ai tre pittori, e a pochi altri, la mostra concede qualche frammento del complesso riferito all’atelier verrocchiesco, ma non a Sandro, la cui tangenza con la bottega sembra respinta.
Nel dipinto di Berlino l’abbigliamento dei personaggi appartiene al repertorio proprio della bottega di Andrea, e nondimeno l’immagine si distingue dalle altre opere analoghe esposte nella mostra: l’ornamentazione è più contenuta, la materia cromatica più asciutta, ma ciò che soprattutto caratterizza la composizione rispetto alle altre è l’accentuazione del rapporto affettivo fra madre e figlio5.
È già stato più volte rilevato che la rappresentazione di uno dei soggetti più diffusi nell’arte dei secoli XIV-XV, la Madonna col Bambino (guardando prevalentemente alle immagini di dimensioni ridotte destinate alla devozione privata e a una visione ravvicinata) è al centro di un lento processo di cambiamento che si articola fra tardo Medioevo e primo Rinascimento: sotto la spinta di esigenze di vario ordine, appartenenti alle aree della teologia e del culto, degli orientamenti di committenze diverse per livello sociale e per cultura, e senza dimenticare l’apporto creativo degli artisti di spiccata personalità, la figura della Vergine si pone al centro di un complesso processo di trasformazione. La fanciulla remissiva, che nel momento dell’incarnazione si mostra passiva, oppure sorpresa e perfino turbata dall’annuncio, assume spessore, soprattutto attraverso l’accentuazione della dimensione materna. Se nelle immagini di grande formato l’evoluzione è sostenuta soprattutto dalla collocazione “in trono”, e dunque esaltando l’autorità e talora la saggezza della Madonna, l’immagine che tende a instaurare con l’osservatore un rapporto personale punta soprattutto sui sentimenti che legano fra loro Maria e il Bambino, sollecitando la partecipazione dei riguardanti con richiami espliciti alla vita quotidiana. Nell’ambito pertinente al tema qui affrontato, gli studî hanno dunque identificato una linea che da alcune acquisizioni trecentesche (valga il nome di Ambrogio Lorenzetti) si articola nel primo Quattrocento per i contributi determinanti di Donatello e di Filippo Lippi, in relazione ai quali è opportuno distinguere fra l’impostazione composta e austera del primo, tendenzialmente classicizzante (Madonna Pazzi, per esemplificare), e lapropensione del secondo a caricare la descrizione con elementi accessori (l’arredo, le vesti, la presenza di alcuni “compagni” dei due protagonisti). Nei saggi dei curatori del catalogo varî approfondimenti sono dedicati al ruolo di questi due maestri che operarono ottenendo un largo successo, e che non a caso furono chiamati a lavorare anche fuori di Firenze; pur tuttavia non si traggono da ciò conseguenze esaurienti: i dipinti che tra Ottocento e primo Novecento alcuni studiosi avevano confermato o assegnato al Verrocchio tornano a essere etichettati sotto questo nome, divergendo rispetto a quella parte della critica, relativamente recente, che riconosceva un ruolo significativo ad alcuni collaboratori del maestro. Ovviamente non si può dubitare di una omogeneità di base, che vede minute corrispondenze nelle morfologie, nelle pose e nelle vesti che caratterizzano i personaggi all’interno di una serie di dipinti elaborati in un ristretto giro di anni adottando disinvolte pratiche di bottega: valga l’esempio del repertorio gestuale, e specificamente il caso delle mani, articolate secondo un limitato numero di moduli e adattate a diverse funzioni; si tratta di formule esemplate su modellini in materiale povero (di cui è ben documentato l’uso), e devono leggersi come espedienti messi a disposizione dei collaboratori per abbreviare i tempi di esecuzione; improprio cogliervi uno spessore stilistico, come talora si verifica nei saggi e nelle schede del catalogo citato6.
Sandro Botticelli? (attribuita al Verrocchio), Madonna col Bambino (1468-1470; tempera e olio su tavola, 75,8 x 54,6 cm; Berlino, Gemäldegalerie, n.104 A) |
Andrea del Verrocchio, Madonna col Bambino benedicente (1470 circa; terracotta, 87 x 67 cm;. Firenze, Museo Nazionale del Bargello) |
Filippo Lippi, Madonna col Bambino (Madonna di Tarquinia), dettaglio (datata 1437; tempera su tavola, 151 x 66 cm; Roma, Galleria Nazionale d’Arte Antica, Palazzo Barberini) |
Filippo Lippi, Sacra conversazione (Pala della Cappella del Noviziato di Santa Croce), dettaglio (1440-1445; tempera su tavola, 196 x 196 cm; Firenze, Galleria degli Uffizi) |
Filippo Lippi, Madonna col Bambino e due angeli, dettaglio (1460-1465; tempera su tavola, 95x63 cm; Firenze, Galleria degli Uffizi) |
Sandro Botticelli, Adorazione dei Magi, dettaglio (1475; tempera su tavola, 111 x 134 cm; Firenze, Galleria degli Uffizi) |
Ciò non esclude che fra le componenti del gruppo si riscontrino anche sottili varianti e in questa occasione vorrei provare a segnalare almeno una delle più significative.
Le Madonne di area “verrocchiesca” raffigurate nelle tavole distribuite fra Berlino, Londra, New York, Parigi, Francoforte, Washington (per citare solo le più importanti), prevedono una composizione d’impianto statico: eretta o seduta, in visione frontale o di tre quarti, la Vergine accoglie il figlio in grembo o lo espone in piedi su un davanzale. In questa seconda opzione, che è la più diffusa, il Bambino non è un lattante, ma una piccola divinità cosciente del proprio ruolo, e avanza in primo piano con volto benevolo, levando una mano benedicente. Si tratta di uno schema aderente al modello fornito dal capobottega, cioè la Madonna fittile del Bargello; opera di qualità altissima, nella quale, malgrado le perdite di superficie, la materia risulta lavorata con insistenza e in profondità, attraverso l’azione di un gesto che si rivela rude e sicuro insieme. Così lontana, a mio vedere, dalla stesura lenta, minuziosa e paziente che s’intravede dietro ai distillati impasti cromatici adottati nei dipinti: i veli arricciati delle acconciature, le gemme e le perledi borchie e bordure, le laminature dei broccati, le capigliature bionde e fulve che incorniciano i volti: testimonianze di stile elevatissimo e di tecniche sapienti all’interno di un programma condiviso. Fra gli indizî non adeguatamente valutati, segnalo nella tavola 104 A il bimbo che, con gesto emotivamente caricato, si volge alla madre protendendo le braccia; il gruppo divino, dilatato nelle dimensioni a danno di un paesaggio alquanto approssimativo, risulta tutto imperniato sull’incrocio fra lo sguardo di Maria abbassato sul figlio e l’abbraccio al quale sembra prepararsi il Cristo bambino. Eppure la Madonna di Botticelli del Museo di Capodimonte (che pur inserita nella mostra restava sostanzialmente defilata rispetto all’insieme), offriva l’opportunità di cogliere l’articolazione del rapporto fra la soluzione di Berlino e i più celebrati modelli di Filippo Lippi imperniati sul contatto fisico tra madre e figlio: il pingue putto della Madonna di Tarquinia, che interpreta forse con un filo d’ironia un modello illustre donatelliano, il Bambino della Madonna di Palazzo Medici, che preme la guancia su quella della madre, l’aggressivo arrampicarsi del figlio sul corpo materno nella pala della Cappella del Noviziato in Santa Croce, cui si aggiunge il puntuale riscontro del Bambino a braccia tese nella Madonna di Monaco. Il Catalogo chiama più volte in causa Fra’ Filippo, prestando peculiare attenzione all’acconciatura della Vergine nella quale si attorcigliano sciarpe di velo, cercini e ciocche di capelli; ma i frequenti riferimenti agli exempla del carmelitano non sono stati sufficienti a valutare positivamente la diretta presenza nella bottega di un esponente “forte” della cultura lippesca.
La tavola di Sandro conservata a Capodimonte è invece rivelatrice, poiché non si tratta di un caso isolato, bensì fa parte di una serie botticelliana in cui, attorno alla Madonna e al Cristo bambino, agisce un piccolo gruppo di angeli-ragazzini7; opere che dovettero procurare al pittore un facile e immediato successo negli anni 1465-75, e che si legano al magistero di Fra’ Filippo. Ricordo, fra le soluzioni del Lippi, la Madonna Trivulzio, enigmatico convegno di popolani-bambini che attorniano la Madonna seduta a terra, ma soprattutto il più coltivato esito di una lunga serie, ovvero la Madonna oggi agli Uffizi, dove una madre abbigliata con eleganza, composta e silente, è accompagnata da due angeli, uno che a stento trova spazio e si affaccia dai piani retrostanti, l’altro decisamente protagonista, e raffigurato in posizione avanzata mentre solleva il corpo pesante del putto fino a portarlo verso la madre, “a portata di bacio”. Una scelta felice del Lippi, poiché il volto malizioso che si gira di scatto e fissa con intenzione l’osservatore è la testimonianza pungente di una consuetudine illustre del linguaggio visivo. Difficile, e forse vano rintracciarne l’origine, ma resta il fatto che nel primo Quattrocento gli ingegni più vivaci danno spessore alle loro composizioni ricorrendo a un tramite fra il centro dell’immagine e il mondo esterno, ovvero fra i personaggi raffigurati e una committenza e un pubblico qualificati culturalmente; una formulazione che acutamente Leon Battista Alberti sintetizza nel secondo Libro Della Pittura con singolare a efficacia: «E piacemi sia nella storia qualcuno che ammonisca o insegni a noi quello che ivi si facci…»8. ll suggerimento albertiano conferisce spessore alla formula figurale costituita da un personaggio che collega l’interno dell’immagine con l’esterno: una sorta di “voce fuori campo” alla quale ricorrono i maestri più dotati, e che era noto nell’ambito del Verrocchio, come si può esemplificare citando il san Benedetto situato in primo piano nell’Assunzione della Vergine di Bartolomeo della Gatta9. Lo introdurranno Botticelli nell’Adorazione dei Magi 10, e anche Leonardo nella prima versione della Vergine delle rocce (Louvre), opera ancora imbevuta di cultura fiorentina che qualifica l’artista al momento della sua comparsa a Milano: qui l’attenzione dei riguardanti è attratta in prima istanza dall’ambientazione inedita, che doveva valere a suscitare curiosità e meraviglia, ma l’osservatore più attento capta il richiamo dell’Angelo, il suo sguardo che ci trascina dentro al quadro, fra le erbe e le rocce, e che ci invita perentoriamente a proseguire nella visione con la mano dall’indice puntato11.
Sandro Botticelli, Madonna col Bambino e un angelo (1465-1470; tempera su tavola, 110 x 70 cm; Ajaccio, Museo Fesch) |
Sandro Botticelli, Madonna col Bambino e un angelo (1470 circa; tempera su tavola, 70 x 48 cm; Londra, National Gallery) |
Sandro Botticelli? (attribuita al Verrocchio), Madonna col Bambino (Madonna delle ciliegie) (1465-1470; tempera su tela, trasferita dalla tavola originale, 66 x 48,2 cm; New York, Metropolitan Museum) |
Perugino? (attribuita al Verrocchio), Madonna col Bambino benedicente, dettaglio (1470-75; tempera su tavola, 75,8x47,9 cm; Berlino, Gemäldegalerie, n. 108) |
Torno a Sandro Botticelli e alla sequenza di immagini affini che si dipana dalla raffinatissima soluzione del Museo Fesch di Ajaccio, avendo un seguito nei dipinti di Strasburgo, Angers, Londra12, dai quali dipendono innumerevoli repliche di bottega; Sandro si impadronisce della formula elaborata dal suo maestro, e fin dagli esordi ne accentua il carattere “leggero”, quasi giocoso, data la giovane età di coloro che sono riuniti a convegno per leggere o far musica: così avverrà nei successivi vertici della tipologia, i due celebri Tondi del Magnificat e della melagrana. Una scelta alternativa rispetto a quella di segno opposto che si diffonde in parallelo, e che vede adagiato in grembo alla Vergine il Bambino dormente nel quale affiora in trasparenza il corpo esanime del Cristo deposto. Peraltro nelle opere giovanili di Botticelli non c’è traccia di malinconia, bensì una sorta di approccio familiare con donne serene e bambini che sorridono: personificazioni rassicuranti della divinità. È la ragione per la quale credo che si possa accostare al nome di Sandro anche un altro dipinto appartenente all’area verrocchiesca che non era presente nella rassegna di Palazzo Strozzi: la Madonna delle ciliegie del Metropolitan Museum di New York.
Abbigliata in forme simili a quelle che compaiono nella tavola 104 A, la Vergine risponde qui alla tipologia proposta dal Verrocchio nella scultura; eretta dietro a un davanzale dove appare il Bambino, essa lo sfiora appena con le dita “velate”, ed entrambi occupano anche in questo caso ampia parte dello spazio disponibile. Il putto ha però un’aria timida rispetto al complesso della serie; e rafforzano il tono intimo dell’immagine gli oggetti posati quasi per caso sulla balaustra: non un lembo del mantello, un cuscino prezioso o un libro d’ore come negli altri dipinti affini, ma piuttosto oggetti fragili sottratti all’abituale funzione simbolica o alla esigenza di misurare la dimensione e lo scorcio della lastra di marmo: una rosa appena appassita e tre ciliegie spiccate dal ramo, oggetti di per sé lievi nella materia e nel significato, così come tenere sono le carni del Bambino che si affaccia con atteggiamento esitante verso di noi. Del tutto assenti le impercettibili punte di sofisticata leziosaggine che affiorano nelle tavole ipoteticamente connesse agli interventi del Perugino e di Domenico Ghirlandaio.
Traendo le fila di quanto detto fin qui, torno alle questioni di fondo, ovvero alle ipotesi di un’attività del Verrocchio come pittore (non da capobottega fornitore di schemi e disegni, ma quale esecutore in proprio di tavole e affreschi), e di un apporto concreto di Botticelli all’attività dell’atelier di Andrea alla fine degli anni Sessanta, presentata nel catalogo come improbabile o esplicitamente respinta13. Riassumo argomenti già espressi dalla critica e che ho recentemente suggerito di sottoporre a nuove verifiche.
Non si può mettere in dubbio un fatto determinante, ovvero la testimonianza esplicita degli scritti giovanili di Leonardo, il quale dibatte in forma amichevole con Botticelli e non con altri compagni di lavoro: Sandro doveva agire all’interno della bottega di Andrea, e offrire prove esplicite di un orientamento e di un’azione che si manifestavano attraverso il contatto diretto.
La questione della Fortezza oggi conservata agli Uffizi: pur se fu Tommaso Soderini a dirottare su Botticelli una delle Virtù già commesse ai Pollaiolo dalla Mercatanzia, sembra arduo ignorare alcuni fatti determinanti: l’interpretazione della soluzione botticelliana in chiave verrocchiesca (riconosciuta unanimemente dalla letteratura pertinente), la documentata rivendicazione di un ruolo nella vicenda da parte di Andrea, e la presenza di disegni dello stesso inopinatamente sottovalutati14.
Infine un caso emblematico, quello della pala oggi a Budapest (Szépmüvészeti Museum): un’opera di pittura di considerevole rilievo destinata alle monache della chiesa fiorentina di San Domenico del Maglio, che Andrea (ripetutamente segnalato come autore dalle fonti) affida alla esecuzione di un artista di medio livello quale Biagio d’Antonio. Il caso di Biagio, attento osservatore di ciò che si produceva in ambito verrocchiesco15, sembra trovare riscontro anche nell’attività di un altro artista a cui la mostra ha prestato scarsa attenzione, Francesco Botticini, autore di una serie di tavole impegnative in cui vengono impiegati stilemi e tipologie di schietta marca verrocchiesco-botticelliana; difficile pensare che Andrea non abbia avuto un ruolo anche da questo punto di vista16, e che l’incontro Botticini-Botticelli, così come la consuetudine Botticelli-Leonardo, siano avvenuti in un luogo diverso dalla bottega di Andrea e in anni diversi rispetto a quelli che appartengono al decennio 1460-147017.
In considerazione di ciò che ho cercato di evidenziare, ritengo sia opportuno riconoscere al Verrocchio una personalità complessa, nella quale convivevano lo scultore/disegnatore geniale, incline alla sperimentazione, e l’imprenditore accorto, abile nell’assicurarsi la collaborazione dei giovani più brillanti, ma anche nell’utilizzare professionisti coscienziosi, in grado di fornire immagini di taglio tradizionale e nondimeno ineccepibili dal punto di vista della qualità dei materiali e della lavorazione. Alcuni dipinti attendono ancora di essere adeguatamente qualificati come parte importante di quell’area, e soprattutto alcuni disegni.
In senso orario: Sandro Botticelli? (attribuita al Verrocchio), Madonna col Bambino (Madonna delle ciliegie), dettaglio (1465-1470; tempera su tela, trasferita dalla tavola originale, 66 x 48,2 cm; New York, Metropolitan Museum), Sandro Botticelli, Madonna col Bambino e angeli, dettaglio (1468 circa; tempera su tavola, 100 x 71 cm; Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte), Francesco Botticini, I tre Arcangeli, dettaglio (1470-1475; tempera su tavola, 135 x 154 cm; Firenze, Galleria degli Uffizi), Sandro Botticelli, Fortezza, dettaglio (1470; tempera su tavola, 167 x 87 cm; Firenze, Galleria degli Uffizi) |
Sandro Botticelli, Madonna col Bambino e angeli (1468 circa; tempera su tavola, 100 x 71 cm; Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte) |
Sandro Botticelli? (attribuita al Verrocchio), Madonna col Bambino e angeli (Madonna del latte) (1470 circa; tempera su tavola, 96,5 x 70,5 cm; Londra, National Gallery) |
Nella Firenze dei primi Medici, e negli anni di Piero e del giovane Lorenzo, allorché la crisi economica e politica era ancora latente, alcuni dati ricavati dalla ricerca storico-documentaria e le testimonianze legate all’esercizio dell’attività artistica offrono un profilo sufficientemente chiaro della situazione, almeno per ciò che riguarda la cultura figurativa: due sono i centri di produzione più importanti, e fra i due c’è una esplicita differenza d’impostazione. Negli ambiti diretti da Antonio e Piero Pollaiolo, ai quali si devono opere capostipite e programmi complessivamente omogenei, l’autorità del maestro sovrasta l’intervento dei collaboratori; nel laboratorio del Verrocchio, la struttura più fluida dell’ organico comprendeva apprendisti di vario calibro ma anche personalità in crescita prossime ad avviare un’attività autonoma: la vita deve essere stata assai più movimentata, le sovrapposizioni, le collaborazioni e gli scambi molto frequenti fra coloro che lavoravano a stretto contatto. Difficile, talora impossibile, decifrare in termini definitivi le singole competenze.
A ciò si deve, in fondo, il diverso andamento delle due vicende critiche: relativamente regolare quella relativa ai figli del pollivendolo Benci, dove il principale motivo di contrasto fra i diversi esponenti della critica è derivato dalla difficoltà di distinguere le dirette pertinenze di Antonio da quelle di Piero, e dall’esigenza di circoscrivere i rari casi di collaborazione tra i due; mentre in quella relativa ad Andrea di Cione le molteplici divergenze di opinione sono nate dalla varietà dei collaboratori e dalla diversa durata della loro permanenza nella bottega; una situazione che tradisce una impostazione imprenditoriale di taglio “moderno”, e che sfugge a una ricostruzione capillare. E ancora da ciò, il perdurare degli interrogativi. Cito quello che è forse il nodo più inquietante, e ancora fortemente problematico, al quale la mostra fiorentina non ha dato spazio: la breve serie di disegni degli Uffizi legati all’area di quella cultura burlesca che è documentata soprattutto in ambito letterario, ma che doveva avere riscontri nel linguaggio figurativo della grafica e in forme di spettacolo imperniate sul tema della deformazione grottesca18. Nelle rare tracce che di tutto ciò si conserva, la critica ha evocato le incisioni di area nordica e (non a caso) i nomi di Verrocchio e di Pollaiolo, di Botticelli e di Leonardo, pur senza sciogliere i molteplici dubbî.
Note
1 - Verrocchio, il maestro di Leonardo, catalogo della mostra (Firenze 2019), a cura di Francesco Caglioti e Andrea De Marchi, Firenze-Venezia 2019.
2 - Giorgio Vasari, Le Vite, ed. a cura di Paola Barocchi e Rosanna Bettarini, Firenze 1966-1987: III (testo), pp.533-545; IV (testo), pp.15-38.
3 - Gigetta Dalli Regoli in Finestre sull’Arte on line 2019; Eadem, Verrocchio, il maestro di Leonardo. Postilla, in Critica d’arte, n.s. (2019), 1, in corso di stampa.
4 - Catalogo 2019 cit., pp.49 sgg., e pp.120-122.
5 - Nell’impossibilità di introdurre qui la bibliografia pertinente agli sviluppi del culto mariano, per una considerazione corretta del problema cito Hans Belting, Il culto delle immagini [1990], Roma 2001. Ho affrontato il tema più di una volta, ma non ritengo opportuno appesantire questo testo con riferimenti che non siano strettamente necessarî.
6 - Nel Catalogo si avverte a tratti una certa ridondanza verbale, che accumula suggestioni di taglio letterario attorno a elementi che suggerirebbero una composta aderenza a dati tecnico-artigianali. Un solo esempio: a proposito delle mani articolate secondo formule esemplate su modellini di terra o di stucco, impiegate per diritto e per rovescio in dipinti diversi, stupisce leggere nella scheda dedicata alla Madonna di Berlino... “il congegno delle mani a scatto sui polsi frementi” (Catalogo 2019, cit., p.120).
7 - Gigetta Dalli Regoli, I garzoni di Sandro in Critica d’arte, 37-38 (2009), pp.41-48.
8 - Segnalo il testo recente di Stefania Macioce, Quando la pittura parla. Retoriche gestuali e sonore nell’arte, Roma 2018. Ho proposto alcune precisazioni connesse con il testo albertiano in un breve intervento (Gigetta Dalli Regoli, Gli obiettivi del De Pictura, fra cultura delle corti, ideologia borghese-mercantile e precettistica in Schifanoia, 30-31 (2006), pp.47-61).
9 - San Benedetto all’origine, poi trasformato in san Filippo Benizzi: vedi la puntuale scheda di Cecilia Martelli, Catalogo 2019, cit., p.158.
10 - Si tratta del personaggio all’estrema destra ammantato di giallo, identificato come un autoritratto del pittore.
11 - Sulle vicende dell’opera rinvio a Pietro C. Marani, Leonardo, una carriera di pittore, Milano 2003, pp. 137-139. Per il tema del rapporto interno/esterno nell’immagine segnalo i testi fondamentali di Ernst H. Gombrich, L’immagine e l’occhio [1982], Torino 1985, e David Freedberg, Il potere delle immagini [1989], Torino 1993.
12 - Andrea De Marchi, Catalogo 2019, cit., p.76: “misterioso dipinto di cui vanno sottolineate le maggiori affinità col gruppo giovanile del giovane Botticelli”. Non credo chi si tratti di un mistero, ma piuttosto di un’attribuzione incongrua, che dovrebbe spostarsi dal Verrocchio al Botticelli. Appunto.
13 - Andrea De Marchi, Catalogo 20019, cit., p.57.
14 - Ne ho trattato nel I garzoni di Sandro, 2009, cit, pp.46-47, e in Finestre sull’Arte on line, 2019, cit.
15 - Dario A. Covi, Andrea del Verrocchio. Life and Work, Firenze 2005, pp. 192-197; sul rapporto di Biagio con l’ambito del Verrocchio, vedi Roberta Bartoli, Biagio d’Antonio, Milano 1999, pp. 31 sgg.
16 - Per una considerazione della connessione con la cerchia del Verrocchio, rinvio all’analisi della compianta Lisa Venturini (Francesco Botticini, Firenze 1994, pp. 108-109): opere come I tre arcangeli (Uffizi) e come la Santa Monica e le agostiniane (Firenze, Chiesa di Santo Spirito), avrebbero introdotto qualche turbamento nel quadro “panverrocchiesco” presentato in mostra.
17 - Un riesame del rapporto fra Botticelli e Botticini non sembra comparire nel recentissimo volume Botticelli. Past and Present, a cura di Ana Debenedetti e Caroline Elam, Londra 2019.
18 - Gianvittorio Dillon in Anna Maria Petrioli Tofani (a cura di), Il Disegno fiorentino del tempo di Lorenzo il Magnifico, catalogo della mostra (Firenze, Uffizi, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe, dall’8 aprile al 5 luglio 1992), Milano 1992, pp.120-125; Michael Kwakkelstein, Botticelli, Leonardo and a Morris Dance in Print Quarterly, 15, 1 (1998), pp.3-14; Gigetta Dalli Regoli, La Fuggitiva, una giovane donna in fuga in Critica d’arte, 29-31 (2007), pp.7-59 (pp.49-51). Una riconsiderazione del complesso di disegni e stampe pertinenti, è in Bert W. Meijer (a cura di), Firenze e gli antichi Paesi Bassi, 1430-1530, dialoghi tra artisti, catalogo della mostra (Firenze, Galleria Palatina, dal 20 giugno al 26 ottobre 2008), Firenze 2008, pp.132-137 (schede di Paula Nuttal).