La torre d’avvistamento di Calafuria appare all’improvviso tra gli scogli, quando si scende lungo l’Aurelia in quel meraviglioso tratto che, lasciata Livorno e passato il litorale di Antignano, costeggia le scogliere appena sotto Montenero e conduce verso l’abitato di Quercianella. Secoli fa era una postazione di grande rilevanza nel sistema di difesa che il Granducato di Toscana aveva disposto lungo la costa livornese, nel tentativo di metterla al sicuro dalle incursioni dei saraceni. Oggi, dopo esser stata per qualche tempo sede dello studio del pittore Alberto Fremura, non è più in uso: si discute però di possibili nuovi utilizzi, dopo che verrà restaurata. La torre di Calafuria si limita dunque a compiere il suo ruolo di segno riconoscibile del paesaggio, nel tratto di costa che gli amanti del cinema ricordano nelle scene finali de Il Sorpasso di Dino Risi e che i livornesi scelgono abitualmente come meta delle loro giornate al mare.
E come presenza inconfondibile sul litorale labronico doveva vederla anche Benvenuto Benvenuti, quando la dipinse in uno dei suoi quadri più famosi, oggi custodito al Museo Civico “Giovanni Fattori” di Livorno, dov’è giunto nel 1978 col lascito testamentario di Giuseppina Bianchi, vedova del collezionista Ferdinando Mazzini. Non c’è più, davanti alla Torre, il berceau affacciato sul mare che vediamo nel dipinto di Benvenuti: al suo posto c’è adesso un frequentato ristorante in muratura. La torre però è rimasta così com’era quando la dipingeva Benvenuti: un severo blocco d’otto metri d’altezza, con un ballatoio in alto, il tetto a falde inclinate, la lunga rampa d’accesso, le facciate morse dal vento e dal salmastro.
Benvenuti dipinge la torre con tutta probabilità negli anni Venti, appena tornato dalla prima guerra mondiale. In una collezione privata esiste un’altra opera simile a questa, di vent’anni successiva: rispetto all’esemplare più tardo, quello del Museo Civico di Livorno denota “una tessitura di fondo più luminosa”, ha scritto Maddalena Paola Winspeare, “uno smalto azzurro non franto nella miriade di filamenti regolari che compongono, invece, l’altra torre e caratterizzano tutta l’ultima produzione dell’artista”. Qui, l’artista livornese si mantiene fedele alle sue idee, al suo linguaggio visionario che ancora guarda al divisionismo, nonostante il clima degli anni successivi al conflitto che devastò l’Europa avesse imposto altre vie ai pittori che volessero dimostrarsi più aggiornati e in linea col nuovo gusto e i nuovi orientamenti della pittura. Benvenuti, nei primi anni del Novecento, giovanissimo, era stato uno dei divisionisti più innovativi: la sua pittura era onirica, antinaturalista, si nutriva di suggestioni simboliste, trasfigurava i paesaggi in visioni da sogno con colori inverosimili, acidi, abbaglianti, era capace di creare mondi irreali ma al contempo così vicini e familiari.
Era questa la misura della sua arte agli esordî, lo sarebbe stata anche in età matura. E anche in questo dipinto degli anni Venti domina l’incantamento d’un pittore mistico che s’inebria di luce e di silenzio. La torre di Calafuria s’erge imperiosa in un brano di controluce, sotto una pioggia scrosciante di raggi di sole che la investono e si gettano sul mare, non prima d’averla circonfusa d’un’aura dorata, che la rende presenza quasi spirituale, numinosa. Benvenuti è ancora pittore che declina il linguaggio divisionista appreso con naturalezza e passione da Vittore Grubicy, suo mentore, maestro e fraterno amico, secondo accenti simbolisti. A far da contraltare alla presenza sacrale della torre è il gazebo di legno, col tetto di paglia, posto a presidiare la terrazza sul mare e la terra colma d’arenaria e sabbia, su cui si stende timido un manto d’erba: qui, al contrario, non si vede un filo d’ombra, tutto è riarso dal sole.
Quella di Benvenuti non è però pittura elaborata al momento, non è pittura che cattura un istante. La torre di Calafuria è semmai l’impressione d’un attimo che vive nei ricordi dell’artista sotto diverse spoglie: è rielaborazione e reinvenzione di qualcosa che il pittore ha visto e che ha fatto suo, secondo un processo di recupero, ben noto alle neuroscienze, che varia di soggetto in soggetto. La torre di Calafuria è oggettivamente identica per chiunque la guardi, ma se a distanza di tempo si chiedesse a ognuno che l’ha guardata di rievocare quel momento, tutto si modificherebbe. La memoria, ha scritto lo psicobiologo Alberto Oliverio, ha diverse dimensioni, e chi ricorda “determina anche il livello di connotazione emotiva delle proprie memorie che non sono soltanto rievocate o ricostruite ma costruite in modo diverso a seconda delle necessità, delle interpretazioni, degli stati emotivi”. È questo l’assunto che sta alla base della pittura di Benvenuto Benvenuti, a sua volta indirizzato su questa via da Grubicy. Il procedimento che accomuna i due artisti è simile, gli esiti sono diversi. Benvenuti, artista forse meno malinconico del maestro ma più ascetico e primitivo, con la sua pittura di luci metafisiche e di colori irreali è in grado di creare visioni allucinate, seguendo da vicino ciò che il più esperto amico gli raccomandava in una lettera del 29 aprile del 1911, oggi conservata tra le carte del Fondo Grubicy al Mart di Rovereto: “Emozione unica (di quel dato momento immagazzinato nello spirito sì da poterne rievocare non solo il ricordo ma la visione con una ginnastica spirituale di rievocazione allucinatoria). Studio amoroso ed accurato di tutti gli elementi oggettivi che costituiscono la scena, non per copiarli, no, ma per saperli e renderli pronti a rispondere man mano che occorrono, a prendere il loro posto e rinsaldarvisi successivamente col progresso dell’elaborazione”.
E lo spirito di Benvenuti risuonava in armonia coi luoghi della sua città: la sua pittura è piena dei monumenti che punteggiano Livorno, e lui, come tutti i livornesi, era legatissimo alla sua terra. Malaparte diceva che Livorno è la città più felice della Toscana: per avvedersene è sufficiente andare a Calafuria in un qualunque giorno d’estate. Anche all’epoca di Benvenuti gli scogli di Calafuria erano meta di tanti livornesi che, magari dopo un bagno ad Antignano, ai margini della città, uscivano per un’escursione fino alla torre. Li vediamo che arrivano dopo una passeggiata di qualche centinaio di metri sotto il sole, li immaginiamo a ripararsi sotto il capanno di paglia, fermarsi a guardare la costa, il mare, l’orizzonte. Tra di loro c’era anche Benvenuto Benvenuti: il dipinto del Museo Fattori ci trasmette forse il suo ricordo, intimo, personale e trasognato, di una di quelle giornate, e le sensazioni che gli aveva suscitato.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).