Esiste un unico dipinto che ritrae Ludwig van Beethoven (Bonn, 1770 - Vienna, 1827) e che fu eseguito quando il grande compositore tedesco era ancora in vita: è il celeberrimo ritratto che lo raffigura assieme al manoscritto per la Missa Solemnis, opera del 1820 di Joseph Karl Stieler (Magonza, 1781 - Monaco di Baviera, 1858), oggi conservato alla Beethoven-Haus di Bonn. La scarsità di testimonianze iconografiche contemporanee a Beethoven non è tuttavia neppure lontanamente paragonabile alla grande fortuna di cui il maestro godette dopo la sua scomparsa: la mostra Vedere la musica. L’arte dal Simbolismo alle avanguardie (a Rovigo, Palazzo Roverella, dal 26 aprile al 4 luglio 2021, a cura di Paolo Bolpagni in collaborazione con Francesco Parisi e Benedetta Saglietti) ha dedicato, nel suo lungo percorso alla scoperta dei legami tra arti visive e musica tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, una sezione anche al mito di Beethoven nell’arte nello stesso periodo.
Le ragioni di una tale fortuna sono ben comprensibili se si pensa, scrive Bolpagni, alla statura di Beethoven come “compositore che incarnò il culmine e il contestuale superamento del classicismo viennese” e che divenne, “in modo un po’ paradossale, il paradigma del musicista titanico e maledetto, genio incompreso in lotta con il suo tempo, terribile nell’aspetto e nell’espressione, spesso cupa e pensierosa”. Una ricognizione attraverso le arti visive alla ricerca di suggestioni che raccontino il mito di Beethoven non è certo cosa nuova: già tra gli anni Venti e gli anni Quaranta i legami tra Beethoven e il romanticismo furono esaminati da alcuni studiosi (Arnold Schmitz, Jean Boyer, Leo Schrade), per continuare con il musicologo William S. Newman che, in un suo saggio del 1983, ha parlato di “mistica” beethoveniana per indicare quell’atmosfera di mistero e venerazione per Beethoven che presto si diffuse attraverso le arti che omaggiarono il genio (Newman ricordava che Victor Hugo definì Beethoven il “profeta mistico della musica”). Le disamine della ricezione della fortuna del mito di Beethoven in Italia erano state però episodiche e l’analisi compiuta da Benedetta Saglietti, musicologa esperta di Beethoven (che nel 2019 ha anche firmato il saggio Beethoven as a Late Nineteenth-Century Pivotal Figure in the Italian Visual Arts, pubblicato nel volume Music and the Figurative Arts in the Nineteenth Century a cura di Roberto Illiano), si concentra soprattutto sulla diffusione dell’iconografia beethoveniana nel nostro paese, presentando anche alcuni inediti.
Joseph Karl Stieler, Ritratto di Ludwig van Beethoven (1820; olio su tela, 62 x 50 cm; Bonn, Beethoven-Haus). Opera non esposta a Rovigo |
In Italia, le origini note della diffusione del mito sono da trovare tra gli anni Sessanta e Settanta dell’Ottocento: nel saggio del 2019, Saglietti scriveva che è a partire dal settimo decennio del XIX secolo che sulla penisola cominciarono ad aumentare le esecuzioni, le discussioni e in generale la conoscenza sulle opere di Beethoven (oltre che sulla sua figura). Prima del 1860 sono pochi i ritratti italiani di Beethoven, ma a partire da questa decade le raffigurazioni del compositore di Bonn presero a moltiplicarsi, specialmente nelle arti plastiche. Tra i primi ritratti è possibile includere quello di Passquale Romanelli (Firenze, 1812 - 1887), la cui prima redazione, del 1867, è conservata alla Galleria d’Arte Moderna di Genova: si tratta di una singolare scultura che raffigura Beethoven giovinetto, tema che ebbe a sua volta un discreto successo, dal momento che altri lo affrontarono. È il caso, ad esempio, di Giuseppe Grandi (Ganna, 1843 - 1894), che tornò sul tema nel 1874 con un’opera che non denota una stretta aderenza alla reale fisionomia di Beethoven (e di cui la mostra di Rovigo ha presentato una replica in bronzo inedita, conservata in una raccolta privata): Grandi preferì affrontare molto liberamente il soggetto per restituire al riguardante, anche da un’immagine che lo presenta come un adolescente, la sua aura di compositore titanico. Ecco dunque lo scatto della mano che si fa metafora della creazione, lo sguardo profondo, i capelli scarmigliati. L’opera fu commissionata a Grandi dal compositore torinese Benedetto Junck (Torino, 1852 - 1903): Grandi e i suoi committenti, scrive la studiosa, “videro in Beethoven il genio irregolare, l’esponente di un’arte innovativa (pensiamo soprattutto alle sue ultime opere) che, per analogia, diffondeva il verbo degli scapigliati per il mondo”.
Più studiato, anche se riprodotto di rado, è il Busto di Beethoven realizzato attorno al 1897 da Leonardo Bistolfi (Casale Monferrato, 1859 - La Loggia, 1933), e oggi conservato al Museo Civico di Casale Monferrato, intitolato allo stesso scultore (è stato peraltro restaurato nel 2020). Si tratta di un ritratto decisamente più tradizionale e aderente all’effigie di Beethoven che si è fissata nell’immaginario collettivo, dal momento che Bistolfi si basò sulle immagini esemplate sul modello della maschera che lo scultore Franz Klein (Vienna, 1779 - 1840) eseguì nel 1812 direttamente sul volto del compositore in vita (gli venne commissionata dalla famiglia Streicher, fabbricanti di pianoforti, per una galleria di compositori illustri: in Italia ne è conservato un calco conservato al Vittoriale degli Italiani e appartenuto a Gabriele d’Annunzio). Bistolfi, nel suo ritratto di Beethoven, si distingue per il suo tentativo di conferire movimento al soggetto, mediante una lavorazione quasi pittorica del gesso, con la materia che viene trattata in maniera irregolare per creare solchi, vibrazioni, aree più in rilievo e altre invece più piatte (si vedano per esempio i capelli, o anche la sciarpa che viene modellata in maniera quasi istintiva, per dare l’impressione che sia stata annodata velocemente e che stia svolazzando). È invece del 1925 un ritratto bronzeo giovanile di Marcello Mascherini (Udine, 1906 - Padova, 1983), tra le prime opere dell’artista friulano che nella sua scultura (non esposta a Rovigo) “pervenne a un equilibrio fra la rigidezza superomistica efficacemente espressa nella fronte aggrottata, nella mascella volitiva e nella bocca serrata, a contrasto con la sinuosità dei capelli” (così Saglietti). Omaggi che cercavano di offrire una resa della statura di Beethoven più che delle sue fattezze erano molto frequenti: uno dei più interessanti, ad esempio, è Beethoven, grand masque tragique eseguito nel 1901 da Émile-Antoine Bourdelle (Montauban, 1861 - Le Vésinet, 1929), e teso a comunicare all’osservatore il tormento interiore di Beethoven (Bourdelle nutrì una forte passione per Beethoven e gli dedicò diverse altre opere).
Giuseppe Grandi, Beethoven fanciullo (Beethoven giovinetto) (1874; bronzo, 70 x 93 x 34 cm; Collezione privata) |
Leonardo Bistolfi, Busto di Beethoven (1897 circa; gesso, 58 x 40 x 40 cm; Casale Monferrato, Museo Civico e Gipsoteca Leonardo Bistolfi) |
Émile-Antoine Bourdelle, Beethoven, grand masque tragique, variante (1900; bronzo, 74,6 x 49 x 37 cm; Parigi, Musée Bourdelle) |
Oltre che dai ritratti, la ricezione italiana della figura di Beethoven è dimostrata anche dalle opere che si ispirano a sue composizioni o direttamente alla sua figura. Una delle prime in tal senso è Beethoven di Lionello Balestrieri (Cetona, 1872 - 1958), dipinto del 1899-1900, in passato esposto anche col titolo La Sonata a Kreutzer: l’artista toscano espose la sua tela dapprima all’Esposizione Universale di Parigi del 1900 (vincendo una medaglia d’oro) e nel 1901 la portò alla Biennale di Venezia, dove fu acquistata dal Museo Revoltella di Trieste (luogo in cui tuttora si trova). La tela di Balestrieri ebbe un grande successo, tanto da costringere l’artista a numerose repliche: la scena, di ambientazione bohémienne, si svolge in un interno. Su di un pavimento in parquet, un violinista sta suonando, di spalle, assorto, mentre sulla sinistra una serie di personaggi (alcuni seduti su sedie, un altro in piedi, appoggiato a uno sgabello con le gambe distese, colto mentre fuma con lo sguardo perso) sono intenti ad ascoltare la musica. Non sappiamo cosa il violinista stia suonando: probabilmente non la Sonata a Kreutzer, dal momento che Balestrieri non utilizzò mai questo titolo per la sua opera (le venne assegnato dalla stampa). È interessante notare come, di fianco al personaggio che fuma, e che vediamo in posizione frontale davanti alla parete di fondo, è appesa proprio la maschera di Beethoven. Il violinista e giornalista Giuseppe Vannicola (Montegiorgio, 1876 – Capri, 1915), che è probabilmente il violinista ritratto da Balestrieri, nella sua novella Sonata Patetica, fa dire al pittore Lionello Olevano (alter ego di Balestrieri, che Vannicola conosceva molto bene), notando il gioco di rimandi tra violinista e compositore: “La maschera di Beethoven in quella sua imperscrutabile tristezza materiata nel gesso, accenna da sopra al pianoforte, in fondo al quadro, presso i due virtuosi rapiti nell’udizione della musica che essi stessi eseguiscono”. Nell’opera di Balestrieri si avverte peraltro, afferma Saglietti, la “presenza-assenza” di Beethoven: l’artista non è direttamente raffigurato, ma è protagonista “assente” del dipinto in quanto evocato. Qualcosa di simile sarebbe poi accaduto in un dipinto di Felice Casorati (Novara, 1883 - Torino, 1963) intitolato Beethoven, del 1928, conservato al Mart di Rovereto: qui, la presenza del compositore è nella partitura appoggiata sulla sedia a cui si sta appoggiando la bambina vestita di bianco protagonista del dipinto. “Un’assenza”, ha scritto la storica dell’arte Giorgina Bertolino, “che è quasi un astuto invito a ricordare meglio”.
Tornando al dipinto di Balestrieri, la figura di Vannicola è peraltro utile per introdurre il tema della diffusione dei ritratti di Beethoven nell’arte della xilografia: l’opera di Vannicola intitolata De profundis clamavi ad te, misticheggiante libro dedicato alla compagna del violinista, Olga de Lichnizki, nell’edizione di La Revue du Nord riporta in copertina un ritratto di Beethoven (la sua musica è, infatti, la guida del viaggio iniziatico che l’autore fa compiere ai lettori del libro). Si tratta di un’opera di Giovanni Costetti (Reggio Emilia, 1874 - Settignano, 1949), cui si devono anche le altre illustrazioni di De profundis clamavi ad te: in una di queste, particolarmente originale, densa di spunti simbolisti, Beethoven è raffigurato di profilo, immerso in un’onda che si confonde coi suoi capelli. Per Benedetta Saglietti, l’incisore reggiano ha voluto dar corpo al pensiero antroposofico secondo il quale l’artista può essere in grado di dar forma alle vibrazioni che scaturiscono dal cervello del genio.
Sempre in ambito italiano sono poi da segnalare casi di opere che si rifanno direttamente alle composizioni di Beethoven, come l’incisione di Dario Neri (Murlo, 1895 - Milano, 1958) del 1927 circa intitolata Marcia funebre in morte d’un eroe, sul tema dell’Eroica (o, ipotizza Saglietti, più probabilmente della Sonata per pianoforte Op. 26): Neri cerca di fornire un suggestivo corrispondente visivo della musica di Beethoven disegnando un corteo composto da quattro uomini che celebrano le esequie dell’eroe (il cui spirito è simboleggiato dalle onde rosse che il suo corpo esala, che potrebbero però anche alludere al fuoco della pira funebre) portandolo a spalla sulla sommità di una sorta di ziggurat. Anche Gaetano Previati (Ferrara, 1852 - Lavagna, 1920), di cui è ben nota la grande passione per la musica, rimase ammaliato dal fascino dell’Eroica, dedicando a questa composizione un trittico omonimo oggi conservato presso la sede dell’Associazione Nazionale fra Mutilati e Invalidi di Guerra, e caratterizzato dal rosso fuoco dalle sfumature violacee che domina l’intera composizione dove vediamo l’eroe combattere, soccombere e infine bruciare sulla pira. Di tutt’altro tenore invece l’opera del 1908, dipinta per la Sala della Musica della casa di Vittore Grubicy (e oggi invece al Vittoriale) ispirata alla Pastorale: qui, una danza di giovani inghirlandate rievoca la musica della Sesta Sinfonia di Beethoven. Entrambe le opere di Previati, pur non presenti alla mostra di Rovigo, sono ricordate nel catalogo. Il celebre Chiaro di luna è invece protagonista di un’illustrazione del 1903 di Filiberto Minozzi (Verona, 1877 - Milano, 1936), che ben comunica le atmosfere ovattate della sonata di Beethoven con un’opera che palesa affinità con certe soluzioni di Previati.
Lionello Balestrieri, Beethoven (1900; olio su tela, 43 x 90 cm; Torino, GAM, Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea) |
Felice Casorati, Beethoven (1928; olio su tavola, 139 x 120 cm; Rovereto, Mart, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto, Collezione VAF-Stiftung) |
Giuseppe Vannicola, De profundis clamavi ad te, Édition de la Revue du Nord, Roma (1906; frontespizio del libro, stampa tipografica, 25 x 18,5 cm; Milano, Libreria antiquaria Pontremoli) |
Giovanni Costetti, [Ludwig van Beethoven] (1905 circa, in Giuseppe Vannicola, De profundis clamavi ad te, Édition de la Revue du Nord, Firenze 1905, p. [34], libro, stampa tipografica, 84 x 75 mm; Roma, Collezione F.P.) |
Gaetano Previati, L’eroica (1907; olio su tela; Roma, Casa Madre Associazione Nazionale fra Mutilati e Invalidi di Guerra). Opera non esposta a Rovigo |
Gaetano Previati, La danza (Pastorale) (1908; olio su tela, 165 x 201 cm; Gardone Riviera, Vittoriale degli Italiani). Opera non esposta a Rovigo |
Filiberto Minozzi, Beethoven - Clair de lune, da Impressioni pittoriche da composizioni musicali celebri, in Novissima. Rivista d’Arti e Lettere, 3, Milano (1903; Milano, Libreria antiquaria Pontremoli). Opera non esposta a Rovigo |
In Germania e in Austria, terre dove la musica di Beethoven ebbe una vasta diffusione, gli omaggi artistici furono presenti ma discontinui: il primo monumento nella città natale fu eretto però già nel 1845, in Münsterplatz. È la statua di Ernst Julius Hähnel (Dresda, 1811 - 1891) ancora oggi visibile nella piazza. Ma al di là dei monumenti (anche in Italia ne venne realizzato uno: quello di Francesco Jerace esposto alla Biennale di Venezia del 1895 e poi collocato nel chiostro del Conservatorio San Pietro a Majella nel 1925), la fortuna di Beethoven non tardò a manifestarsi anche attraverso altre forme espressive. In area tedesca uno dei più sentiti ammiratori di Beethoven fu Alois Kolb (Vienna, 1875 - Lipsia, 1942), autore, nel 1909, di un’acquaforte intitolata Diesen Küss der ganzen Welt (“Questo bacio al mondo intero”), ritratto di Beethoven, raffigurato a occhi chiusi col solito cipiglio che rielabora i connotati della maschera del 2012, con sulla testa le figure di due amanti nudi che si baciano. Il titolo dell’opera fa riferimento al celebre verso dell’Inno alla gioia, la poesia di Friedrich Schiller musicata da Beethoven nel 1793 (la Nona Sinfonia): le due figure che si baciano intendono trasmettere il vitalismo della musica di Beethoven. Kolb fu anche autore di una serie di dieci incisioni ispirate alle opere di Beethoven: sono opere con cui l’artista austriaco cercò di creare allegorie per tradurre in immagini le sinfonie di Beethoven (per esempio, nella stampa dedicata alla Nona Sinfonia, Kolb traduce l’abbraccio delle moltitudini, Millionen nel testo in tedesco, con la raffigurazione di una folla eterea e festante).
Lo stesso proposito animò un altro incisore, Arthur Paunzen (Vienna, 1890 - Douglas, 1940) che nel 1918 eseguì un ciclo di acqueforti intitolato Phantasien über Beethovensymphonien (“Fantasie sulle sinfonie di Beethoven”), che offrono una “lettura intimista e tragica di alcune sinfonie, in una direzione diversa rispetto ad Alois Kolb”, scrive Saglietti. “Paunzen”, spiega la studiosa, “immaginò una Nona Sinfonia che ordinava le moltitudini in una sorta di Torre di Babele, mentre la tremenda, minacciosa mano del destino della Quinta Sinfonia bussava sopra a una cattedrale gotica che si dissolveva nel fumo o in una nebbia scura, opprimendo uno stuolo di iniziati che salivano una ripida scalinata. Il terzo movimento della Pastorale, secondo l’indicazione della partitura (‘Allegra riunione di campagnoli’), prendeva in Paunzen le sembianze di un gruppo di contadini, stilizzati in piccole sagome bianche su uno sfondo desolato”. Tornano poi motivi frequentati anche da altri artisti, come il corteo per la Marcia funebre dell’Eroica, sinfonia a cui Paunzen dedica anche un’altra opera, che raffigura un guerriero nudo che suona la carica con una tromba.
Alois Kolb, Diesen Kuß der ganzen Welt (1909 circa; acquaforte e acquatinta, 425 x 425 mm; Collezione Emanuele Bardazzi) |
Per quanto riguarda le opere di area tedesca è poi il caso di menzionare la mostra che la Secessione viennese dedicò, nel 1902, proprio a Beethoven. Sono almeno due le opere da citare: il celeberrimo Beethovenfries (“Fregio di Beethoven”) di Gustav Klimt (Vienna, 1862 - 1918) e il Beethoven di Max Klinger (Lipsia, 1857 - Großjena, 1920). Il Fregio di Beethoven è un’opera monumentale che Klimt sviluppò su di una lunghezza di 24 metri, e che oggi è conservata al Palazzo della Secessione di Vienna. L’opera è interamente ispirata alla Nona Sinfonia ed è suddivisa in tre pareti, corrispondenti alle tre sezioni che compongono anche iconograficamente l’opera: la prima rappresenta l’anelito alla felicità, la seconda l’umanità che soffre e le forze ostili, la terza le arti e il coro degli angeli. Protagonista del fregio è un cavaliere (che ha le sembianze di Gustav Mahler, amico di Klimt) bardato con un’armatura dorata, mosso dalle suppliche di due donne nude e di altre due figure, anch’esse nude, un uomo e una donna, che s’inginocchiano davanti a lui per invitarlo a compiere il suo cammino. Il cavaliere è l’allegoria dell’artista. La parete centrale è quella che raffigura l’umanità che soffre e le forze ostili, queste ultime rappresentate dal gigante Tifeo (un essere mostruoso dall’aspetto di un’enorme scimmia col corpo di serpente) e dalle sue figlie, le mostruose gorgoni (che proprio per effetto del loro aspetto furono disprezzate dalla critica), personificazioni del male che si trova nel mondo. È solo con l’arte e con l’amore (terza parete) che il male può essere sconfitto: ecco dunque che il bacio finale tra due figure nude (l’uomo è il cavaliere-artista che grazie alla forza dell’arte ha superato le avversità, e il bacio allude al verso Diesen Küss der ganzen Welt) e il coro di angeli che l’accompagnano sanciscono il trionfo dell’eroe, dell’arte, e dell’amore (un amore terreno e carnale) sulla paura e sulla bestialità.
Il grande monumento che Klinger dedicò a Beethoven raffigurava il compositore ancora in modo enfatico, nudo come un eroe classico, in marmo bianco, e seduto su di un trono di bronzo (una delle caratteristiche più interessanti di quest’opera di Klinger è proprio il ricorso a diversi materiali), come un dio greco, a sua volta eretto sopra una base rocciosa. Le allusioni alla statura divina di Beethoven sono evidenti anche per la presenza dell’aquila, l’animale sacro di Giove, che sembra quasi voler dialogare con il compositore. “La complessa e pluristratificata deificazione di Beethoven”, scrive Saglietti, “avveniva secondo i criteri dell’opera d’arte totale (Gesamtkunstwerk) che l’ambiziosa scultura, nata dopo una gestazione di diciassette anni, sottintendeva: la critica dell’epoca si divise tra lodi appassionate (specie di artisti, quali ad esempio Rodin) e feroci stroncature sulla stampa satirica”. Una di queste critiche viene ricordata dallo studioso Francesco Parisi nel saggio della mostra di Rovigo: il critico Ludwig Hevesi considerò la statua come un’accozzaglia di oggetti ammassati come “in einem sudafrikanischen Konzentrationlage”. A difendere Klinger intervenne il suo collezionista Harry von Kessler, secondo il quale Klinger aveva un’idea “gedanklich” (mentale, astratta, concettuale) di Beethoven, e pertanto la sua Gesamtkunstwerk era quanto di più adatto a comunicarla.
Max Klinger, Monumento a Beethoven (1902; materiali vari, altezza 310 cm; Lipsia, Museum der bildenden Künste). Opera non esposta a Rovigo |
Il Beethovenfries di Klimt |
Fidus, Entwurf für einen Beethoven-Tempel (1903; Bonn, Beethoven-Haus) |
Merita infine un cenno, in questa carrellata essenziale, il tributo di Fidus (Hugo Höppener; Lubecca, 1868 - Woltersdorf, 1948) a Beethoven: l’artista sognò di dedicare un tempio al compositore, un progetto che mai si concretizzò in quanto troppo ambizioso per le possibilità di Fidus. Höppener aveva immaginato, nel 1911-1912, un edificio a pianta circolare coronato da una cupola, che avrebbe ospitato una scultura monumentale di Beethoven. Fidus aveva anche iniziato a lavorare al disegno di questa scultura: ce ne rimane testimonianza in un’opera dove il compositore, raffigurato secondo l’immagine più diffusa, viene salutato, probabilmente venerato, da una donna nuda, probabile allegoria dell’anima.
Un panorama, dunque, particolarmente vario, che si afferma già pochi anni dopo la scomparsa di Ludwig van Beethoven, e che sarebbe continuato poi nel corso di tutto il Novecento, anche se meno nelle arti visive e più attraverso nuovi mezzi espressivi (il cinema, soprattutto: basti ricordare Arancia meccanica di Stanley Kubrick, dove la musica di Beethoven ha un ruolo fondamentale). Certo è che fin dall’anno della scomparsa di Beethoven, “la sua opera e il suo spirito sembreranno più vivi che mai”, afferma Saglietti. “Il pluristratificato processo di costruzione del mito avviene in modo differente: a seconda delle epoche storiche e delle culture di partenza e di arrivo, quando lo osservano nuovi occhi e lo ascoltano nuove orecchie e, infine, nel momento in cui le esigenze degli individui o di un gruppo di persone si proiettano sul compositore. La morte è una soglia, oltrepassata rapidamente la quale a Beethoven venne garantita l’immortalità”.
La tua lettura settimanale su tutto il mondo dell'arte
ISCRIVITI ALLA NEWSLETTERGli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta
Gli articoli firmati Finestre sull'Arte sono scritti a quattro mani da Federico Giannini e Ilaria Baratta. Insieme abbiamo fondato Finestre sull'Arte nel 2009. Clicca qui per scoprire chi siamo