Non possiamo e non dobbiamo dimenticare gli orrori della Shoah perché solo la memoria fa sì che gli errori e gli orrori non si ripetano mai e mai più. La persecuzione razziale verso gli ebrei nella seconda guerra mondiale è stata una delle più grandi tragedie della Storia: una crudeltà e una disumanità inaudita, ma anche inspiegabile, perché come si può pensare di stravolgere e distruggere la vita di migliaia di persone con l’obiettivo di eliminare per sempre dalla faccia della Terra una razza perché considerata, dal Führer e dai suoi seguaci, i nazisti, inferiore? Inferiore a chi? A persone, se si sono possono definire tali, capaci di uccidere senza alcun motivo, con una freddezza senza paragoni, di sparare un colpo di pistola dritto al cuore di un innocente che ha il terrore negli occhi e nel volto o di mettere nelle camere a gas esseri umani con corpi già visibilmente provati dagli stenti e dalle crudeltà subite, e che magari hanno anche loro una famiglia, dei figli. Come si può essere capaci di una cosa simile?
È per questo che la letteratura, l’arte, il cinema si fanno strumenti per denunciare gli orrori delle persecuzioni e per far comprendere, narrando la Storia e storie di “vita”, come quello sia stato uno dei periodi più bui dell’umanità. Per non dimenticare e per non farlo ripetere mai più. Anche noi, come ormai da qualche anno, cerchiamo di dare il nostro piccolo contributo a questa grande causa raccontando la storia di ebrei, vittime dell’Olocausto, che furono artisti o che attraverso l’arte hanno narrato e testimoniato questo periodo oscuro.
Vi raccontiamo oggi la storia di Bedřich Fritta (Višňová, 1906 – Auschwitz, 1944), artista di origine ebraica. Nacque il 19 settembre 1906 a Višňová, nella Boemia settentrionale. Formatosi a Parigi, si trasferì poi a Praga, dove lavorò come disegnatore tecnico, grafico e fumettista, con lo pseudonimo di Fritz Taussig, e dagli inizi degli anni Trenta cominciò a collaborare regolarmente come caricaturista alla rivista satirica di Monaco Simplicissimus.
Durante la seconda guerra mondiale, il 4 dicembre 1941 venne deportato nel ghetto di Terezín. La fortezza di Theresienstadt, a nord di Praga, venne infatti trasformata alla fine del 1941 in un ghetto: furono circa 140mila gli ebrei dell’Europa centrale e occidentale che furono internati nel ghetto prima di venire deportati nei campi di sterminio dell’Est. Qui Fritta diventò capo dell’Ufficio tecnico e il suo compito era quello di redigere piani edilizi e tecnici, e in particolare redigere grafici, statistiche e rapporti che il Comando delle SS richiedeva continuamente. Tutti, e in particolare la Croce Rossa Internazionale, avrebbe dovuto credere che Theresienstadt fosse una normale cittadina, dove gli ebrei vivevano isolati ma in condizioni accettabili. Nel dipartimento tecnico lavoravano almeno venti artisti, oltre a ingegneri e artigiani; ufficialmente i materiali richiesti dal Comando delle SS dovevano infatti dare del ghetto un’immagine pubblica di un luogo perfettamente funzionante e autogovernato, ma gli artisti dell’Ufficio utilizzavano di nascosto disegni non ufficiali per documentare le condizioni di miseria in cui si trovava il ghetto. Un’ampia raccolta di disegni ritraeva perciò la vita quotidiana del ghetto e una realtà deprimente e difficile, ispirandosi allo stile dell’espressionismo tedesco: alloggi sovraffollati, fame, carri funebri, morte.
Tra gli artisti di Theresienstadt vi erano anche Otto Ungar, Leo Haas, Ferdinand Bloch.
Nell’estate del 1944 però le SS scoprirono i disegni non ufficiali e condannarono Fritta e gli altri artisti con l’accusa di “diffondere propaganda del terrore”. Questi furono quindi imprigionati nel carcere della Gestapo nella Fortezza Piccola insieme alle loro famiglie, compreso il figlio di Fritta, Tomáš, di pochi anni di età. La moglie morì presto di stenti. Dopo tre mesi di carcere, Bedřich Fritta e Leo Haas vennero deportati nel campo di concentramento di Auschwitz. Qui nel novembre 1944 Fritta morì, mentre Haas riuscì a sopravvivere e decise di adottare Tomáš.
Per il terzo compleanno del figlio, Bedřich Fritta aveva realizzato un album di disegni a colori, che venne ritrovato nascosto nel ghetto di Terezín quando questo venne liberato. Diversamente dai disegni a inchiostro espressionisti che raccontavano la miseria della vita quotidiana del ghetto in bianco e nero, nell’album dedicato al figlio Bedřich illustrò in modo allegro momenti della vita del piccolo all’interno di Terezín, con uno stile più dinamico e piacevole, nonché colorato. Tomáš ritratto mentre batte il cucchiaio sul tavolo perché ha fame, Tomáš mentre si guarda allo specchio o mentre apre un pacco pieno di cose buone da mangiare (la fame e il cibo sono elementi costanti). Molti dei disegni illustrano inoltre viaggi immaginari di padre e figlio in terre esotiche e lontane, e altri raffigurano Tomáš nel ruolo di ingegnere, di pittore o di altri mestieri che il bambino avrebbe potuto intraprendere da grande. Adottato da Leo Haas e da sua moglie, Tomáš ha vissuto con la famiglia adottiva a Mannheim, nella Germania occidentale. E tenendo tra le mani l’album del suo vero padre, ha affermato: “È l’unica cosa che mi rimane, che mi appartiene, che è stata fatta solo per me, è il mio libro, un libro di mio padre. In quel libro sento lui, le sue lacrime, la sua speranza, la sua paura”.
Alcuni dei disegni sopravvissuti di Fritta sono oggi conservati al Museo Ebraico di Berlino (che a Bedřich Fritta ha anche dedicato una ricca mostra online, molto utile per approfondire la sua vicenda e la vita a Theresienstadt) e al Museo Ebraico della Svizzera. Disegni che esprimono inquietudine, paura, condizioni disumane: uno raffigura ad esempio una donna mentre attende di essere deportata ad Auschwitz; un altro mostra la zona di raccolta del ghetto in cui venivano riuniti i nuovi arrivati, con i loro bagagli numerati, o da cui partivano le persone per Auschwitz; altri ancora mostrano camere da letto in un ex negozio o in una soffitta, un’officina per la riparazione di uniformi militari, i dormitori di massa sovraffollati (all’inizio popolata da 7mila persone, Theresienstadt arrivò a ospitare in seguito fino a 50mila detenuti alla volta), o una lunga fila di persone che con il peso sulle spalle lasciano il ghetto per andare alla stazione di Bohušovice, che si trovava a più di due chilometri di distanza: da quella stazione poi sarebbero stati fatti salire sui treni diretti verso i campi di sterminio dell’Est. Dal giugno 1943 i treni sarebbero poi partiti direttamente dal ghetto. La Torre della Morte invece allude alla torre del quartier generale: nel seminterrato vi era un carcere dove i prigionieri venivano rinchiusi e torturati.
A inchiostro, e rifiniti con pennello e acqua, questi disegni mostrano la capacità di Bedřich Fritta nell’utilizzo del chiaroscuro e nel creare netti contrasti di luce e ombra; sezioni illuminate che contrastano con il buio delle camere da letto, delle officine, dei magazzini, delle strade del ghetto. Spesso i volti e i gesti dei personaggi rendono le figure come una sorta di caricatura. Oggetti ed elementi naturali possono infine alludere alla morte, come in Bagagli abbandonati, dove alberi spogli, bagagli abbandonati e un cielo buio e oscuro parlano di assenza di vita. Di una triste fine della storia.
Theresienstadt diventò una vera città di ebrei deportati: al suo interno venne anche girato il film di propaganda Il Führer regala una città agli ebrei, presentato alla Croce Rossa Internazionale. In realtà fungeva da punto di stallo per le persone che poi venivano deportate e uccise ad Auschwitz, e le condizioni nel ghetto erano molto dure: dallo scarso cibo a situazioni abitative molto precarie. Le vicende di Theresienstadt si intrecciano tuttavia con le vite e le storie di molti artisti e musicisti, perché proprio qui si concentrò un alto numero di musicisti, di intellettuali e di artisti che si adoperarono anche all’interno del ghetto per tenere concerti, lezioni e attività culturali volti ad alleviare attraverso varie forme di arte le sofferenze di bambini e adulti.
L'autrice di questo articolo: Ilaria Baratta
Giornalista, è co-fondatrice di Finestre sull'Arte con Federico Giannini. È nata a Carrara nel 1987 e si è laureata a Pisa. È responsabile della redazione di Finestre sull'Arte.