Una santa, una donna “elegante e dotta”: Barbara Longhi e la sua Caterina d'Alessandria


La Santa Caterina d'Alessandria della Pinacoteca Nazionale di Bologna è uno dei più noti dipinti di Barbara Longhi (Ravenna, 1552 - 1638): è verosimile che l'artista si sia ritratta con le sembianze della santa per offrire una precisa immagine di lei.

In un bel murale che occupa una parete del refettorio di quello ch’era un tempo il convento dei monaci camaldolesi di Ravenna, oggi sede della Biblioteca Classense, è dipinto l’episodio evangelico delle Nozze di Cana, opera del ravennate Luca Longhi: alla tavola, sul lato opposto rispetto a quello dove siede Cristo, compare una donna, una giovane, bellissima, aggraziata, col volto dai lineamenti delicati e adolescenziali, i capelli biondi raccolti sotto il velo, lo sguardo sorpreso e innocente rivolto verso l’osservatore. La tradizione identifica in questa ragazza il ritratto di Barbara Longhi, figlia di Luca, anch’ella pittrice. Di lei parlava già Vasari nell’edizione giuntina delle Vite, nella biografia di Francesco Primaticcio, tracciando un rapido panorama della pittura romagnola del tempo: il grande storiografo, arrivando a parlare di Luca Longhi, non volle tacere del fatto che “una sua figliuola ancora piccola fanciulletta chiamata Barbara disegna molto bene, et ha cominciato a colorire alcuna cosa con assai buona grazia e maniera”.

Vasari aveva conosciuto Barbara (di persona, avendo soggiornato un paio di mesi a Ravenna) quando lei aveva soltanto quindici anni, eppure ne aveva già intuito il talento. Un talento che però non sarebbe mai esploso. Intanto, per i limiti della bottega paterna, già riconosciuti da Vasari: Luca Longhi non uscì mai da Ravenna, non si aggiornò, non si guardò attorno. Per quanto fosse “uomo di natura buono, quieto e studioso”, scriveva Vasari, “se fusse uscito di Ravenna, dove si è sempre e sta con la sua famiglia, essendo assiduo e molto diligente e di bel giudizio, sarebbe riuscito rarissimo, perché ha fatto e fa le sue cose con pacienza e studio”. Poi, perché la carriera di Barbara fu estremamente locale: anche lei, esattamente come Luca, non lasciò mai la Ravenna natia. E infine perché la sua attività fu anche strettamente legata a quella della famiglia. Scomparso il padre quando la ragazza aveva ventott’anni, la bottega fu ereditata dal fratello, e Barbara stentò a farsi riconoscere come un’artista indipendente, rimanendo per la quasi totalità della sua vita nell’orbita dei suoi familiari maschi e limitandosi a una produzione destinata per lo più alla devozione privata. Solo su finale della carriera avrebbe dimostrato d’esser capace anche di dipingere impegnative pale d’altare, anche di tre metri d’altezza. Sono però rari i suoi dipinti pubblici: la sua immagine è legata soprattutto a piccoli e deliziosi dipinti da camera, la più parte dei quali custodita nei musei dell’Emilia Romagna. È il caso d’una Santa Caterina d’Alessandria, uno degli esiti più interessanti di questo tipo di produzione, che si conserva alla Pinacoteca Nazionale di Bologna, e che è stata per la prima volta riferita a Barbara Longhi negli anni Venti, nel catalogo della Pinacoteca compilato da Francesco Malaguzzi Valeri.

Barbara Longhi, Santa Caterina d’Alessandria (1580 circa; olio su tela, 70 x 53,5 cm; Bologna, Pinacoteca Nazionale, inv. 1097)
Barbara Longhi, Santa Caterina d’Alessandria (1580 circa; olio su tela, 70 x 53,5 cm; Bologna, Pinacoteca Nazionale, inv. 1097)

La vergine e martire ha gli stessi lineamenti, fini, snelli e dolci, della giovane che compare nelle Nozze di Cana della Biblioteca Classense, circostanza che ha portato a ritenere che questa santa Caterina possa celare un autoritratto di Barbara: non sarebbe un caso isolato né strano, un po’ perché le pittrici del tempo erano solite ritrarre se stesse (rispetto ai colleghi maschi avvertivano in maniera molto più sentita la necessità d’affermarsi, e l’autoritratto era uno degli strumenti più adatti per cercare una qualche forma di riconoscimento), e poi perché, ha ben spiegato Irene Graziani, “Caterina d’Alessandria, protettrice delle giovani, è la santa aristocratica, modello raffinato di quella educazione per la donna colta che si era andato sempre più definendo dal trattato di Baldassarre Castiglione in poi”. Una Barbara Longhi che si ritrae dunque come Caterina d’Alessandria: evenienza del tutto plausibile, finalizzata a offrire un’immagine di “donna virtuosa, elegante e dotta”. Questa Barbara-Caterina dal volto nobile e aggraziato è girata di profilo, ma col viso ovale e allungato voltato di tre quarti per incrociare lo sguardo di noi che la osserviamo. I capelli biondi, come nelle Nozze di Cana, sono adornati con fili di perle e raccolti nello stesso velo, fissato sulla spalla con una fermaglio d’oro, decorato con gemme. I colori cangianti della veste, tenui tonalità di verde e rosa, spiccano sul fondo cupo. Una mano, la destra, è rivolta verso l’alto e tenere il velo, con l’indice piegato. L’altra invece, stesa, s’appoggia sulla ruota dentata del martirio, e regge in qualche modo la palma del martirio: un ramoscello malato che a malapena s’intravede sul fondo.

Giordano Viroli, nel catalogo generale della Pinacoteca Nazionale di Bologna del 2005, ha rimarcato che quest’opera non aveva caratteri devozionali: era semplicemente un quadro da stanza. Ma questa giovane, scrive Viroli, “presenta tutti i caratteri di una nobile italiana dell’epoca. Il vestito, semplice ed elegante, l’atteggiamento raffinato e aristocratico, lo sguardo diretto e vagamente interrogativo”: tutti caratteri che svelano l’ispirazione d’un ritratto dal vero. Il dipinto fa parte d’una produzione quasi seriale, tipica della bottega di Luca Longhi e del tutto aderente ai modelli paterni. Di questa santa Caterina si conoscono altre quattro versioni: due sono al Museo d’Arte della Città di Ravenna, una è in collezione privata dopo esser passata in asta da Christie’s nel 1997, la quarta è al Museo Nazionale di Bucarest. Cinque dipinti, ha scritto la giovane studiosa Giulia Daniele, che per le loro minime varianti e per il tentativo di caratterizzazione si rivelano come “prove di uno sforzo qualitativo volto a rendere unica ogni versione”. La tela di Bologna, che Daniele ha messo in relazione (pur “senza voler trarre conclusioni affrettate”) con un quadro d’identico soggetto e delle stesse dimensioni un tempo nella vasta raccolta del gesuita Giovanni Rayn, appare l’esemplare di maggior qualità. Quello in cui l’autoritratto appare più convincente. E dunque quello da cui l’esigenza d’autoaffermazione forse emerge con maggior chiarezza.

Non abbiamo naturalmente la certezza matematica che questo sia un autoritratto di Barbara Longhi. Non sappiamo che volto avesse. Di lei conosciamo molto poco, non sappiamo neppure quale fosse il suo temperamento: possiamo farcene un’idea dalle sue opere, che il più delle volte assumono intonazioni moderate e quasi affettate, umili, intime. Irene Graziani, ricordando come Barbara Longhi venisse “celebrata come fonte di meraviglia per gli storiografi contemporanei” (basti l’esempio di Vasari: non è l’unico), non poteva far a meno di sottolineare come il suo talento sia rimasto confinato nell’ambito di generi ritenuti minori. La ritrattistica, soprattutto: non è però possibile arrembarsi in formulazioni che vadano oltre il suo unico ritratto oggi noto, quello d’un monaco camaldolese conservato anch’esso al MAR di Ravenna. Certo: quello della “donna eccellente” era un topos della letteratura del tempo. Si guardava alle pittrici di talento come a prodigi dinnanzi ai quali, per un uomo del Seicento, appariva spontaneo sorprendersi: è dunque lecito attendersi che spesso le virtù di Barbara siano state dipinte secondo i modi degli schemi letterarî del tempo. Ma la sua storia, per il poco che sappiamo e che possiamo intuire, appare simile a quella di tante altre donne che, per i forti limiti imposti dalla loro epoca, non poterono aspirare a spingersi oltre quel poco che riuscirono a ottenere. Forse allora è proprio nel volto dolce e trasognato di questa Caterina d’Alessandria che occorre cercare l’anima più genuina della pittura di Barbara Longhi.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).






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