Oggi, il Bacco di Caravaggio (Michelangelo Merisi; Milano, 1571 - Porto Ercole, 1610) è uno dei dipinti più famosi della storia dell’arte, uno di quelli per cui si fa apposta la coda per entrare agli Uffizi. Ma poco più di cent’anni fa, quando ancora l’arte di Caravaggio era di là dall’essere riscoperta, il Bacco languiva nei depositi di via Lambertesca: era ritenuto un’opera poco interessante, al punto che non veniva avvertita la necessità di esporlo. Per molto tempo nessuno seppe niente di quest’opera: fu ritrovata solo nel 1913, quando Matteo Marangoni, ispettore degli Uffizi, la notò nel corso di un controllo tra i depositi del museo di Firenze, dove compariva con un numero d’inventario che la classificava nella fascia più bassa delle opere conservate agli Uffizi. Si rese conto della qualità dell’opera, la studiò e la pubblicò nel 1916, ritenendola copia di Caravaggio (si trovava in uno stato di conservazione molto precario, che di sicuro condizionò il giudizio di Marangoni), ma riportando comunque il parere di Roberto Longhi, secondo il quale si trattava invece di un autografo. Nel frattempo l’opera veniva restaurata in occasione della mostra sulla pittura italiana del Sei e del Settecento che si tenne a Palazzo Pitti nel 1922, e proprio in quello stesso anno Marangoni dedicò un altro studio all’opera, accogliendo l’ipotesi di Longhi: l’autografia caravaggesca in seguito sarebbe stata accettata all’unanimità dalla comunità degli studiosi.
Per diverso tempo, l’opera venne associata a un “Bacco con alcuni grappoli di uve diverse, con gran diligenza fatte, ma di maniera un poco secca”, di cui parla Giovanni Baglione nelle sue Vite de’ pittori, scultori et architetti del 1642, designando l’opera come una delle prime dipinte dall’artista, poco dopo aver lasciato la bottega del Cavalier d’Arpino. Accolsero quest’idea studiosi come Hermann Voss, Lionello Venturi, lo stesso Roberto Longhi. Fu poi Denis Mahon a ritenere che la cronologia dell’opera andasse spostata un poco più avanti, sottolineando il fatto che, in una nota contenute nelle Considerazioni sulla pittura di Giulio Mancini, si parlava di un Bacco nella collezione del cardinale Scipione Borghese (“Fra tanto fa un Bacco bellissimo et era sbarbato, lo tiene Borghese”): si tratta del Bacchino malato della Galleria Borghese, che figurava tra i dipinti che il cardinale sequestrò al Cavalier d’Arpino nel 1607, ed è con tutta probabilità a questo dipinto che si riferisce anche il passaggio delle Vite di Baglione. Non conosciamo dunque con certezza le origini del Bacco degli Uffizi: è però altamente probabile che si trattasse di un dipinto commissionato verso il 1598 dal primo importante mecenate di Caravaggio, il cardinale Francesco Maria Del Monte, che lo richiese come dono da inviare a Ferdinando de’ Medici, dato che l’opera a Roma non era nota. Del Monte fece la stessa cosa per la Medusa, anch’essa conservata oggi agli Uffizi, e non è detto che anche il Bacco non fosse un altro dono per il granduca. Ci sono poi alcuni studiosi, come Zygmunt Waźbiński, Wolfram Pichler e Sybille Ebert-Schifferer, che sulla base di un documento che certifica nel 1618 l’acquisto di un Bacco sul mercato romano da parte dell’ambasciatore di Firenze Cosimo II, ritengono che il dipinto comperato per il granduca di Firenze sia proprio il Bacco di Caravaggio.
La situazione è però complicata dal fatto che negli inventarî medicei il dipinto non è registrato. O almeno non come opera di Caravaggio. L’unica proposta d’identificazione in tal senso è quella di Elena Fumagalli, che ha suggerito di accostare il Bacco di Caravaggio a un “Bacco” che compare, senza il nome dell’autore, in un inventario della villa medicea di Artimino risalente al 1609. Viene poi citato, nell’inventario della Guardaroba Medicea del 1620, un “Bacco con una tazza di vino in mano coronato di grappoli d’uva e pampani”, anch’esso però senza il nome dell’autore. È dunque probabile che il Bacco fosse stato appeso fin da subito in un appartamento privato, dal quale sarebbe stato poi rimosso in epoca imprecisata per finire... in magazzino. L’unica certezza, dunque, è che la vicenda del Bacco è quanto mai esemplare della scarsa fortuna di cui, per secoli, godette l’arte di Caravaggio.
Il Bacco è, pertanto, un dipinto enigmatico, anche per i modi in cui è raffigurato il dio del vino, non privo d’una certa sensualità, capace di mescolare elementi popolareschi, quasi rozzi, ed elementi invece che rimandano alla tradizione classica. Si presenta con un aspetto giovanile, quasi adolescenziale. La lunga chioma nera e riccia è decorata, come da consueta iconografia, con foglie di vita e grappoli d’uva. Mirabile il modo con cui Caravaggio ha reso l’espressione di Bacco: dal suo sguardo traspare con tutta evidenza la debolezza tipica di chi è ebbro, sembra che i suoi occhi siano persi nel vuoto. Il corpo muscoloso è in parte coperto da una tunica bianca di lino, lo stesso tessuto della coperta che ricopre il triclinio su cui bacco è seduto, tanto da far sembrare che in realtà questa divinità abbia ben poco di aulico: la coperta lascia infatti intravedere un materasso a righe, e si potrebbe pensare che in realtà non stiamo osservando altri che un ragazzo, seduto su di un materasso piegato per assumere la forma di un triclinio, e che s’è coperto col lenzuolo per fingere d’avere una veste antica. Con la mano destra tiene un fiocco nero, mentre con la sinistra stringe tra pollice, indice e medio (guardando le dita da vicino si noterà che il giovane ha le unghie sporche) una coppa di vino, probabilmente un calice veneziano: si ammirano i riflessi della luce sul vetro del bicchiere, le gradazioni del rosso rubino modulate secondo il digradare della luminosità, e anche, almeno secondo diversi osservatori, il tremolio del vino nella coppa, che disegna cerchi concentrici lasciando forse intendere che la presa di Bacco non è sicura. Ma come ha suggerito Sybille Ebert-Schifferer, è probabile che, semplicemente, le linee che si vedono siano scanalature incise sul vetro. Forse, quest’ambiguità è un effetto che lo stesso Caravaggio ha voluto, cercato e ottenuto. Sul tavolo davanti al dio un brano di virtuosismo, di cui Caravaggio aveva già dato prova nella celeberrima Canestra di frutta oggi alla Pinacoteca Ambrosiana di Milano: è un’altra cesta di frutta, una cesta di ceramica, dove si vedono mele (una delle quali, quella in primo piano, è mezza marcia), mele cotogne, un melograno, ancora grappoli d’uva, una pera, una pesca, fichi. Infine, nell’angolo a sinistra, la brocca di vino, con ancora i riflessi della luce sul vetro. E sulla superficie molti hanno intravisto anche un volto umano (oggi poco visibile, ma la sua presenza è stata confermata dalle analisi riflettografiche): è l’autoritratto del pittore che si riflette sul vetro, altro brano di virtuosismo.
Molte le interpretazioni che sono state suggerite per l’opera di Caravaggio. Carlo Del Bravo ha proposto di vedere nel Bacco un saggio di cultura oraziana, sul tema dell’amicizia e sul “giusto mezzo” nei piaceri. La frutta sarebbe dunque da leggere in rapporto alle lodi che Orazio rivolge alla frugalità della frutta e alla vita secondo natura. Kurt Bauch ha invece parlato in maniera generica di una vanitas, con il vino e la frutta che assurgerebbero a simboli della fugacità dei piaceri, e lo strano fiocco nero, che niente ha a che vedere con la tradizionale iconografia di Bacco, diventerebbe così un evidente simbolo di morte. Secondo Donald Posner ci troviamo invece in presenza di un dipinto che loda in maniera esplicita e intenzionale l’omosessualità, dal momento che raffigurerebbe l’amante di Caravaggio colto nel suo quotidiano: tuttavia, per evitare che l’opera subisse le ovvie condanne del caso, Michelangelo Merisi avrebbe avuto l’intuizione di mascherare il giovane da Bacco con quel che aveva (il materasso a mo’ di triclinio, il lenzuolo per simulare la toga). Di segno completamente opposto è invece l’interpretazione di uno studioso cattolico come Maurizio Calvesi, che ha dato una lettura di carattere cristologico del Bacco di Caravaggio: in particolare, il dio caravaggesco alluderebbe allo sposo del Cantico dei Cantici, a sua volta immagine allegorica di Cristo, e descritto con immagini non distanti da quella del dipinto di Caravaggio, come la coppa di vino, i capelli neri e ricci, l’ubriachezza da intendersi come ebbrezza derivante dalla comunione con Dio, la cesta di frutta che diventa simbolo della Chiesa. Il fiocco nero, posto in prossimità dell’ombelico (simbolo del centro del mondo), secondo la lettura religiosa andrebbe interpretato come il nodo che lega l’essere umano a Dio. Niente però vieta di pensare che il fiocco sia avulso da qualunque simbolismo e serva soltanto per reggere il lenzuolo. Ancora, secondo Avigdor Posèq si tratta sempre di un dipinto di soggetto omoerotico, ma affrontato in maniera sofisticata, in particolare alludendo a Bacco come divinità descritta dagli antichi come dedita alla passione per le persone dello stesso sesso. Infine, da segnalare la recente lettura di Giacomo Berra secondo cui Caravaggio potrebbe aver dipinto il suo Bacco a paragone con la statuaria antica, rinverdendo quindi un tema (quello, appunto, del paragone tra le arti) che aveva appassionato gli artisti del Cinquecento. In particolare, il Bacco fiorentino potrebbe essere stato un’opera da contrapporre a una qualche statua di Antinoo-Bacco per dimostrare la supremazia della pittura sulla scultura, scegliendo come terreno di scontro proprio il soggetto dell’Antinoo-Bacco.
I rimandi classici portano al tema delle fonti iconografiche dalle quali Caravaggio potrebbe aver attinto per il suo Bacco. Diversi studiosi, a partire da Walter Friedländer, hanno sottolineato, come si è in parte anticipato sopra, la dipendenza della sensualità del dipinto degli Uffizi dalle raffigurazioni di Antinoo-Bacco di età adrianea: un esempio è l’Antinoo del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, che anticamente si trovava presso Palazzo Farnese a Roma, dove il giovane amante di Adriano è raffigurato nelle vesti del dio dell’ebbrezza. Non è detto che Caravaggio conoscesse direttamente l’opera oggi a Napoli, ma di sicuro poté aver visto qualcosa di simile nelle ricche raccolte di antichità della Roma del tempo, su tutte quelle del marchese Vincenzo Giustiniani, grande collezionista di arte antica e moderna. Sempre Friedländer ha poi accostato il dipinto di Caravaggio a un Bacco conservato presso la Galleria Estense, opera di ambito ferrarese del primo Cinquecento, che è stata attribuita anche a Dosso Dossi: si tratta di una figura allegorica che faceva parte di un gruppo di tavole che decoravano la camera da letto del duca Alfonso I d’Este a Ferrara. Quasi sicuramente Caravaggio non aveva conoscenza diretta di quest’opera (le cui vicende, curiosamente, s’intrecciano con quelle del cardinale Scipione Borghese, a cui fu inviata per errore nel 1607, anno in cui comunque Michelangelo Merisi aveva già lasciato Roma per non farvi più ritorno), ma secondo lo studioso tedesco si tratta comunque d’un esempio d’immagine con cui Caravaggio poteva avere una certa confidenza: immagini di antiche divinità che si facevano sofisticate allegorie. Sembra invece particolarmente puntuale un accostamento suggerito da Alfred Moir nel 1982, quando ha fatto presente la stretta somiglianza della posa del Bacco di Caravaggio con quello dipinto da Federico Zuccari attorno al 1584-1585 per la sala affrescata della sua dimora di Firenze (Palazzo Zuccari in via Giusti).
Mina Gregori ha invece evidenziato il legame tra il Bacco e le opere dei grandi pittori lombardi del Cinquecento (il Moretto, Giovanni Girolamo Savoldo e Giovanni Battista Moroni), che invece Caravaggio conosceva molto bene. Si tratta soprattutto di una dipendenza stilistica: l’uso dei colori contrastanti, il contorno scuro per esaltare le volumetrie (lo si nota nella mano vicina al petto e nella brocca) derivano dalla lezione dei bresciani. In particolare, evidenziava ancora Mina Gregori, il riferimento è a Moretto per quel che riguarda la rappresentazione in scorcio della figura e l’enfasi sulle superfici, mentre il chiarore della luce deriverebbe da Moroni (si potrebbe prendere come esempio il Tagliapanni della National Gallery di Londra). “Il Bacco”, ha scritto la studiosa, “dimostra forse più di ogni altra opera del Merisi la sua discendenza dalla pittura bresciana del Cinquecento. Il risultato plastico e illusivo ottenuto per contrasti di colore e aiutato da un margine più scuro in parte ottenuto lasciando in riserva la preparazione, che contribuisce a dare il rilievo e a rendere il succedersi degli oggetti nella profondità dello spazio [...] risale a una prassi usata nel Cinquecento dai bresciani (Moretto, Moroni) e continuata fino al Ceruti”. Già Longhi, per esempio, aveva accostato il brano di natura morta a quello che il Moretto dipinge nella Madonna in trono tra i santi Andrea, Eusebia, Domno e Domneone conservata sul primo altare destro della chiesa di Sant’Andrea a Bergamo. E proprio per la precisione della rappresentazione della frutta, ancora Mina Gregori ha voluto individuare nelle precise tavole scientifiche di Jacopo Ligozzi il più immediato precedente per la frutta caravaggesca. Singolare invece un’ipotesi di Bernard Berenson, che per l’aspetto vagamente orientaleggiante dei connotati del modello che posò per il Bacco, accostò l’immagine a quella delle divinità indiane della scultura dell’arte greco-buddhista, quella sviluppatasi nell’Asia centrale dopo la conquista di Alessandro Magno. Secondo Giacomo Berra, non è invece da escludersi che Caravaggio abbia consultato un manuale iconografico come Le imagini de i dei de gli antichi di Vincenzo Cartari, dove è pubblicata un’incisione di Bolognino Zaltieri in cui Bacco è raffigurato nudo, con la testa coronata di Pampini, e colto mentre tiene una coppa di vino. Altra incisione a cui Caravaggio potrebbe aver guardato, secondo Berra, è quella della Vendemmia di Marcantonio Raimondi su disegno di Giovanni Francesco Penni: Michelangelo Merisi, in particolare, avrebbe “nobilitato” l’immagine del dio grasso e stanco che compare in questa e in altre raffigurazioni precedenti (un altro esempio è quello del Bacco dipinto dal Romanino nella loggia del Castello del Buonconsiglio di Trento), “aggiornandole” sulle immagini dell’Antinoo-Bacco antiche (che avevano affascinato tanti artisti nel Cinquecento, a cominciare da Raffaello) e conferendo dunque una patina classicheggiante al suo dio del vino.
Il modello che ha posato per il Bacco degli Uffizi si può rinvenire in altri dipinti di Caravaggio: per esempio il Suonatore di liuto nei due esemplari dell’Ermitage di San Pietroburgo e del Metropolitan di New York, oppure la Buona ventura nella versione del Louvre, e ancora il Ragazzo morso da un ramarro della Fondazione Longhi, tutte opere realizzate nello stesso torno d’anni, tra il 1596 e il 1598. Inizialmente, Jacob Hess nel 1954 aveva proposto di identificare nel modello il pittore Lionello Spada, mentre nel 1971 Christoph Frommel ha risolto il problema in maniera definitiva individuando nel giovane che ha posato per il Bacco e gli altri dipinti il pittore siciliano Mario Minniti (Siracusa, 1577 - 1640), all’epoca ventenne e attivo a Roma, dove aveva conosciuto Caravaggio diventando suo amico, collaboratore, modello e forse anche amante. I due abitarono anche assieme, come sappiamo da una deposizione in tribunale di Caravaggio del 1603. Frommel riscontrò la somiglianza tra il modello di Caravaggio e il ritratto di Mario Minniti eseguito da Marcellino Minasi e pubblicato nelle Memorie de’ pittori messinesi e degli esteri che in Messina fiorirono dal secolo XII sino al secolo XIX, opera di Giuseppe Grosso Cacopardo del 1821.
Saranno forse le varie interpretazioni o le diverse ipotesi sull’identificazione del modello che Caravaggio utilizzò per il suo Bacco, o ancora gli straordinarî e minuziosi brani naturalistici che cingono il capo del giovane ritratto e che adornano la superficie in primo piano: il Bacco di Caravaggio degli Uffizi affascina chiunque vi si soffermi di fronte, probabilmente anche perché diverso dalle consuete rappresentazioni del dio del vino. È una figura viva, umana, tutt’altro che divina, che volge il suo sguardo verso l’osservatore. Lo stesso sguardo e il gesto che compie sollevando il bicchiere sembra invitino quest’ultimo a partecipare alla scena. Come l’osservatore infatti, il Bacco, lontano dall’Olimpo, è reale e con lui condivide i piaceri della vita terrena, ma anche la caducità della vita e l’imperfezione. Probabilmente è proprio per questo motivo che i personaggi di Caravaggio affascinano ancora oggi così tanto. E il Bacco degli Uffizi ne è un significativo esempio.
Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta
Gli articoli firmati Finestre sull'Arte sono scritti a quattro mani da Federico Giannini e Ilaria Baratta. Insieme abbiamo fondato Finestre sull'Arte nel 2009. Clicca qui per scoprire chi siamo