Si potrebbe rimanere sorpresi nell’apprendere dove si trova la più importante collezione di composizioni autografe di Antonio Vivaldi (Venezia, 1678 - Vienna, 1741): non nella natia Venezia, la città dove il grande compositore trascorse la gran parte della sua carriera, e neanche nella Vienna che lo accolse nella fase estrema della sua parabola artistica. Si trovano infatti a Torino, custoditi alla Biblioteca Nazionale Universitaria del capoluogo piemontese: un patrimonio di quattrocentocinquanta partiture di mano del maestro veneziano, tra cui quattordici opere teatrali complete (a Torino si conservano gli unici testimoni al mondo di queste opere), circa trecento concerti, circa quaranta pagine di musica sacra, e alcune musiche vocali profane, il tutto raccolto in ventisette tomi. Vivaldi certo ebbe qualche contatto con Torino, dove si recò nel 1701 per studiare con Lorenzo Francesco Somis, fondatore della Scuola Violinistica Piemontese, ma al di là di questo episodio l’autore delle Quattro Stagioni non si conoscono altri suoi legami con la città. L’arrivo a Torino di questo materiale è frutto di alcune fortunate e avventurose vicende.
La storia è stata ricostruita nei dettagli in occasione della mostra Vivaldimania. Una storia torinese, che si è tenuta nel 2008 al Palazzo Bricherasio di Torino, e comincia nella notte tra il 27 e il 28 luglio del 1741, quando Antonio Vivaldi si spegne a Vienna, in misere condizioni economiche: anche il funerale sarà quello tipico dei poveri. I suoi “avidi eredi” (così la studiosa Franca Porticelli, che ha ripercorso tutta la vicenda) non tardano a mettere in vendita tutto il suo patrimonio, probabilmente già sul finire dell’estate del 1741. I manoscritti autografi erano rimasti nella casa veneziana, e beneficiario della vendita fu il bibliofilo e senatore Jacopo Soranzo (Venezia, 1686 - 1761): li acquisì come fogli sciolti e fu proprio lui a rilegarli nei ventisette volumi che oggi sono alla Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino, come apprendiamo dal catalogo della Libreria Soranzo compilato nel 1745. Alla scomparsa di Soranzo, nel 1761, i suoi libri presero strade diverse, dal momento che il senatore morì senza lasciare eredi diretti: una parte della sua libreria andò alla famiglia Marin Zorzi, un’altra ai Corner. Tuttavia, qualche anno più tardi, un importante collezionista del tempo, l’abate Matteo Luigi Canonici (Venezia, 1727 - Treviso, 1805), colto gesuita e appassionato di libri, riuscì a riunire di nuovo la gran parte della Libreria Soranzo: probabilmente tra il 1773 e il 1780 migliaia di volumi che un tempo erano nella biblioteca del bibliofilo passarono a Canonici, che entrò anche in possesso dei ventisette tomi vivaldiani.
Le peripezie dei manoscritti del grande compositore erano però ben lontane dalla loro fine. Una nuova vendita fece confluire i tomi nella raccolta di un altro grande bibliofilo, il conte Giacomo Durazzo (Genova, 1717 - Venezia, 1794), diplomatico dall’intensa carriera: fu prima ambasciatore della Repubblica di Genova a Vienna, poi decise di diventare assistente del direttore del teatro di corte a Vienna per poi assumere il ruolo di impresario dello stesso teatro, e infine tornò a svolgere il suo mestiere di diplomatico accettando l’incarico di ambasciatore dell’impero austriaco a Venezia, dove Durazzo arrivò nel 1764 e dove rimase fino alla sua scomparsa. Fu proprio a Venezia che Durazzo poté dedicarsi alla sua collezione: era attratto in particolar modo dalle stampe e dai fondi musicali, e non passò molto tempo prima che i manoscritti di Vivaldi finirono nella sua collezione. La collezione di Giacomo passò poi al nipote Girolamo (Genova, 1739 - 1809), che tra il 1802 e il 1805 fu anche unico doge della Repubblica Ligure, lo Stato creato in epoca napoleonica sui territori dell’ex Repubblica di Genova. Anche Girolamo, al pari dello zio Giacomo, morì tuttavia senza lasciare eredi diretti: la biblioteca, che probabilmente nel frattempo aveva lasciato Venezia per giungere a Genova, era passata al suo nipote Marcello, e da questi al figlio Giuseppe Maria IV. Nel 1893, alla scomparsa di quest’ultimo, il patrimonio fu diviso tra i figli Marcello e Flavio Ignazio. Il primogenito, nel 1873, dopo il matrimonio con la nobile di origini piemontesi Francesca da Passano, si trasferì nel castello della famiglia di lei, a Occimiano, vicino a Casale Monferrato, e nel 1922, anno della morte di Marcello, la biblioteca del nobile, che aveva ereditato i tomi vivaldiani, fu consegnata al Collegio Salesiano San Carlo di Borgo San Martino di Alessandria.
“Il trasferimento della biblioteca di Marcello Durazzo al Collegio San Carlo”, ricorda Porticelli, “avvenne, purtroppo, con metodi non troppo ortodossi che suscitarono l’indignazione sia del bibliotecario del Collegio che della contessa da Passano, che vedeva vanificato il lavoro di ordinamento e catalogazione compiuto dal marito. Il rettore del Collegio, infatti, per il trasloco dei volumi fece utilizzare un tombarello, un carro a due ruote all’epoca abitualmente impiegato in Piemonte per il trasporto di pietre e sabbia. Furono necessari numerosi viaggi per trasferire tutta la biblioteca a Borgo San Martino, e al termine di ogni viaggio il prezioso carico veniva fatto rotolare a terra dalla ribalta posteriore del tombarello, cosicché ci vollero parecchi giorni per portare al riparto i volumi che si erano accumulati nel cortile del Collegio. Inoltre, gli scaffali del prezioso fondo librario messi a disposizione si rivelarono insufficienti, e così i volumi in esubero furono stipati in casse e indegnamente sistemati nel solaio”. Risale al 1926 l’inizio dell’epilogo della vicenda.
Quell’anno, il rettore del Collegio Salesiano, Federico Manuel, doveva far compiere alcuni lavori urgenti alla sede del Collegio, e per reperire i fondi necessari decise di mettere in vendita i libri della donazione Durazzo. A Occuparsi della valutazione furono Luigi Torri, all’epoca direttore della Biblioteca Nazionale di Torino, e Alberto Gentili, docente di Storia ed Estetica della Musica all’Università di Torino. Gentili intuì il valore del fondo e convinse l’amico Torri a far trasferire tutto il patrimonio nell’istituto da lui diretto per poterlo valutare in maniera più semplice. I due fecero imballare tutto il materiale e lo fecero recapitare a Torino: si accorsero con meraviglia che, tra i vari libri, c’erano anche manoscritti di noti compositori, e Torri decise dunque di far apporre il vincolo sulle opere. Si poneva però un problema: la Biblioteca non aveva infatti fondi sufficienti per acquistare il materiale. Gentili e Torri corsero così alla ricerca di un mecenate, e lo trovarono nella figura di Roberto Foà, di professione agente di cambio, che acquistò l’intera raccolta per ricordare il figlio Mauro, prematuramente scomparso.
L’esame, tuttavia, rivelò un’altra sorpresa: ci si accorse infatti, dai numeri con cui le opere erano state inventariate, che solo una metà del fondo di Giacomo Durazzo era giunta a Marcello, mentre tutto il resto della collezione era probabilmente ancora nelle disponibilità di un altro erede della famiglia, e partì così la ricerca della parte che mancava (i codici vivaldiani erano però già nelle disponibilità della Biblioteca Nazionale di Torino). Ad assumersi l’incarico fu il bibliotecario Faustino Curlo, di origini liguri, che grazie alla sua abilità e alle sue conoscenze terminò il suo lavoro nel 1930, facendo pervenire a Torino il resto della raccolta, che era di proprietà del marchese Giuseppe Maria Durazzo e si trovava nel suo palazzo di Genova: Curlo appurò un fatto fino ad allora ignoto, ovvero la divisione della libreria tra Marcello e Flavio Ignazio all’epoca della morte di Giuseppe Maria IV. Il fondo, nonostante l’iniziale contrarietà di Giuseppe Maria Durazzo, fu venduto a un altro mecenate reperito da Torri e Gentili, l’industriale tessile Filippo Giordano, che sempre nel 1930 mise a disposizione 100.000 lire (circa novantamila euro odierni) per l’acquisto dei libri (curiosamente anche nel suo caso per ricordare il figlio Renzo, morto a dodici anni), che dunque raggiungevano l’altra metà della libreria che fu di Giacomo Durazzo e prima ancora di Jacopo Soranzo. E che oggi comunque sopravvive in due fondi distinti, chiamati Raccolta Mauro Foà e Raccolta Renzo Giordano. Solo dopo la seconda guerra mondiale, tuttavia, il patrimonio poté essere adeguatamente studiato: Gentili era infatti ebreo e per colpa delle leggi razziali del 1938 fu espulso dall’ateneo torinese, rimanendo dunque impossibilitato a proseguire le analisi del materiale.
Si stima che il fondo torinese raccolga all’incirca il 90% dei manoscritti autografi di Antonio Vivaldi. Si tratta di opere sulle quali Vivaldi lavorava e produceva e, oltre ad aver permesso lo studio di una vasta molte di materiale altrimenti ignoto, hanno consentito di approfondire la figura di Antonio Vivaldi e il suo processo creativo, grazie al modo in cui componeva (i fogli presentano numerose cancellature e correzioni, fatte peraltro in economia di carta, materiale per l’epoca molto costoso: spesso, quando l’autore cancellava qualcosa, interveniva con toppe di carta incollate con sigilli in ceralacca, oppure cucite con spago), e grazie anche alle numerose annotazioni e indicazioni che lasciava ai margini dei suoi spartiti.
Sulle oltre 450 composizioni, la parte più consistente è costituita dai concerti, che sono 296 in totale: tra questi, 97 sono per violino, 39 per fagotto, 19 per violoncello, 12 per flauto, 11 per oboe e i rimanenti per due o più strumenti di vario genere: “è una testimonianza, questa”, ha scritto lo studioso Alberto Basso, “dell’incredibile capacità che Vivaldi sapeva mettere in atto nel produrre musiche per i più disparati complessi strumentali, mirando a sottolineare non solo le qualità virtuosistiche degli esecutori, ma anche le possibilità offerte dalla combinazione di timbri e dall’uso di strumenti inusitati (viola all’inglese, chalumeau, violino scordato, cioè accordato in maniera diversa da quella normale, trombone e corno da caccia, viola d’amore, tiorba, liuto, mandolino, flautino), sovente applicando titoli descrittivi o d’invenzione, come La notte, La tempesta di mare, Il Proteo ossia mondo al rovescio, L’amoroso, L’inquietudine, Il sospetto, Il piacere, Il riposo, Il favorito, Il gardellino, La pastorella, Il ritiro, Grosso Mogul, L’ottavina, Concerto funebre, madrigalesco, alla rustica”. I ventisette tomi sono stati esposti interamente per la prima volta al pubblico nel 2017, in occasione della mostra L’approdo inaspettato, curata da Annarita Colturato e Franca Porticelli, il cui titolo intendeva indicare proprio il carattere rocambolesco della vicenda che ha portato gli autografi vivaldiani nella città piemontese. L’importanza di questi manoscritti è enorme: grazie a questo fondo infatti la figura di Vivaldi, che fino ad allora era un compositore semisconosciuto e noto a pochi appassionati o studiosi, ha potuto assurgere a una dimensione mondiale. La disponibilità delle composizioni autografe (fino al momento della scoperta degli autografi oggi a Torino, di Vivaldi si conoscevano soltanto le Stagioni), ha infatti reso possibile uno studio capillare della sua produzione: l’intera sua figura è stata valorizzata, sono stati eseguiti innumerevoli concerti, l’editoria musicale e il mercato discografico hanno cominciato a pubblicare gran parte delle sue opere. L’impresa più consistente è la Vivaldi Edition, l’incisione discografica di tutte le composizioni vivaldiane conservate a Torino, promossa dal summenzionato Alberto Basso, che prevede la realizzazione di 120 cd e che è ancora in corso. È dunque grazie anche al tesoro custodito dalla Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino che oggi Antonio Vivaldi è uno dei musicisti più eseguiti e più famosi al mondo.
La Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino ha origine attorno al 1723 quando, per volere del re Vittorio Amedeo II di Savoia, la biblioteca comunale, quella della Regia Università e quella dei duchi di Savoia venivano riunite in un unico edificio, di proprietà della Regia Università, per comporre un nuovo istituto librario, la Biblioteca della Regia Università, che vide subito il suo patrimonio incrementato negli anni successivi grazie al privilegio del diritto di stampa, a diversi donativi, all’acquisto di svariati fondi, e alle acquisizioni dai conventi soppressi. Dopo l’Unità d’Italia, la Biblioteca della Regia Università, nel 1876, otteneva il titolo di biblioteca nazionale. Nel 1904 un incendio distrusse cinque sale dell’istituto, devastando manoscritti, incunaboli, aldine, ma la direzione della biblioteca non si perse d’animo e continuò ad acquisire fondi. Un ulteriore evento nefasto fu il bombardamento di Torino l’8 dicembre 1942, durante la seconda guerra mondiale, quando andarono distrutti oltre 15.000 volumi e stralci del catalogo generale. Nel 1957 iniziò la costruzione dell’attuale sede, in piazza Carlo Alberto, che terminò nel 1973: il 15 ottobre di quell’anno veniva inaugurata la nuova biblioteca. Nel 1975 la gestione passò infine al neonato Ministero dei Beni Culturali.
Tra i manoscritti in possesso della Biblioteca Nazionale Universitaria (4.500 prima dell’incendio del 1904) figurano un centinaio di codici ebraici databili tra il XII e il XVI secolo (prima dell’incendio era una delle collezioni più complete d’Europa nel suo genere), il fondo greco, un manoscritto della metà del secolo IX contenente il trattato De laudibus Sanctae Crucis di Rabano Mauro, il Commento all’Apocalisse di Beatus di Liebana, copia catalana (secolo XI-XII) del Beatus visigotico della cattedrale di Gerona, databile al 975, il codice k dei Vangeli, che contiene una traduzione dei Vangeli di Marco e di Matteo precedente alla Vulgata, scritto probabilmente in Africa nel IV-V secolo, l’Historia Naturalis di Plinio, realizzato fra il XV e il XVI secolo per la famiglia Gonzaga, con miniature attribuite alla scuola di Mantegna, Il mondo creato di Torquato Tasso databile tra la fine del secolo XVI e gli inizi del secolo XVII, un gruppo di manoscritti francesi miniati provenienti dalla Biblioteca dei duchi di Borgogna. Tra i codici acquisiti dopo il 1904, particolarmente significativi sono gli statuti di Chieri e di Ronco Canavese, gli autografi di Foscolo, Gioberti, Pellico, Tommaseo, il fondo delle opere manoscritte e a stampa di Clarice Tartufari, gli archivi di Giovanni Flechia, Alberto Nota, Felice Romani e della famiglia Peyron. La collezione di incunaboli, ricca di più di 1.600 edizioni, offre un ampio panorama sui primi anni di vita della stampa in Europa e, più in particolare, in Italia. Sono presenti alcune delle primissime opere stampate a Magonza da Johann Fust e Peter Schöffer, numerosi volumi pubblicati a Roma dai prototipografi italiani Conrad Sweynheym e Arnold Pannartz, prime stampe, tra cui alcune in caratteri greci e la celeberrima Hypnerotomachia Polyphili di Francesco Colonna del 1499, di Aldo Manuzio e parecchi esemplari miniati. Di particolare interesse sono altresì gli incunaboli ebraici per lo più usciti dalla bottega della famiglia di Joshua Solomon Soncino. Tra le cinquecentine (più di 6.000 edizioni) figurano un’edizione di lusso della Bibbia poliglotta, in ebraico, caldeo, greco e latino, stampata ad Anversa da Christophe Plantin nel 1569 in 8 volumi, di cui 6 su pergamena e numerose edizioni di Giovanni Battista Bodoni.
Importanti poi i fondi musicali (oltre agli autografi di Vivaldi ci sono quelli di Aleessandro Stradella, e poi partiture manoscritte e a stampa di Gluck, Haydn, Traetta, Rameau, Favart, Philidor, il Codice di Staffarda proveniente dall’omonima abbazia, databile probabilmente alla fine del secolo XV, il cosiddetto Cancionero de Turín contenente composizioni spagnole, il Ballet comique de la Royne di Baldassarre Baltazarini di Belgioioso (Balthasar de Beaujoyeulx), primo esempio di ballet de cour e unica copia esistente in Italia, e Il Ballarino di Marco Fabrizio Caroso, primo trattato sull’arte della danza, stampato a Venezia nel 1581. La Biblioteca può anche vantare la presenza di dieci codici che riportano, oltre al testo, le scene e i costumi realizzati per feste di corte organizzate presso la corte sabauda nel secolo XVII. Considerevole anche la raccolta di libretti di opere e di oratorii, al cui interno si evidenziano le collezioni delle opere rappresentate nei teatri di Torino negli anni 1702-1856, nei teatri di Milano nel periodo 1801-1824, di diversi altri teatri italiani e stranieri, nonché le pubblicazioni di editori musicali torinesi dei secoli XVII e XVIII. La Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino possiede anche la raccolta di disegni e stampe di Filippo Juvarra e suoi allievi, soprattutto Ignazio Agliaudi Baroni di Tavigliano e Giambattista Sacchetti. Oltre a questi sono presenti altri disegni di architettura di Ascanio Vittozzi, di Ercole Negro di Sanfront e dei Valperga. Si segnalano anche disegni di artisti rinascimentali quali Luca Cambiaso e Bernardino Lanino, e barocchi come Vanvitelli e Fabrizio Galliari. La raccolta di incisioni (più di 15.000), le cui origini risalgono alla biblioteca ducale e alla confluenza dei fondi gesuitici, conserva opere dei più celebri incisori tra cui Albrecht Dürer, Giovenale Boetto, Brugel il vecchio, Jacques Callot, Carracci, Luca Cranach, Stefano della Bella, Luca di Leida, Andrea Mantegna, Claude Mellan, il Parmigianino, Giovanni Battista Piranesi, Marcantonio Raimondi, Guido Reni, Salvator Rosa, Agostino Veneziano.
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