“Quando una bella ragazza bianca corre tra le braccia di un nero, vuol dire che c’è qualcosa che non va. È una prova inequivocabile”. Comincia così Love is the message, the message is death, il capolavoro di Arthur Jafa che alcuni musei in giro per il mondo (tra i quali Palazzo Grassi a Venezia, unica presenza italiana), lo scorso fine settimana, hanno deciso di mettere in streaming gratuito per quarantott’ore consecutive. Naturalmente l’importante evento è stato del tutto ignorato dalla stampa generalista italiana, malgrado ovunque si sprechino le ciarle sul Black Lives Matter, sui monumenti e sulle proteste che stanno investendo l’altra parte dell’oceano, spesso con poca cognizione di causa e con scarsa propensione all’approfondimento. E di conseguenza l’argomento vien percepito dai più nei suoi contorni marginali e più rumorosi. Non sorprende, pertanto, che l’opera del più recente Leone d’Oro alla Biennale di Venezia, malgrado le tante discussioni che abbia sollevato, sia passata del tutto inosservata. Non sorprende, ma ciò non toglie che sia stata sprecata una significativa occasione di riflessione e di dibattito.
Non riesco a raccontare Love is the message, the message is death nei dettagli: troppi, troppo pesanti e troppo ovvî sono i miei limiti culturali per poterne farne un’analisi approfondita. Cercherò quindi di riassumere il contenuto e le sensazioni che il video è in grado di provocare, e di aiutarmi con alcuni pareri di chi è decisamente più addentro alla black culture per tentare di trasmettere l’importanza di quest’opera, specialmente nel quadro del momento storico che stiamo vivendo. Arthur Jafa ha creato un potente capolavoro di videoarte che mescola sensazioni diverse, collazionando, col piglio dello studioso di storia, dell’archivista, del regista e del giornalista assieme, brani di cultura nera (da Jimi Hendrix a Notorious B.I.G., da Martin Luther King a Nina Simone, da Miles Davis ad Aretha Franklin, da James Brown fino a Obama che canta Amazing Grace) alternati a immagini di imprese sportive come quelle di Michael Jordan e Serena Williams, filmati storici, videoclip tratti dai social, scene di violenza, dichiarazioni d’importanti personalità della cultura nera come di semplici e anonimi cittadini. Momenti esaltanti, momenti commoventi (difficile rimanere impassibili quando scorrono le immagini di Derek Redmond, il quattrocentista britannico passato alla storia per il suo infortunio alle Olimpiadi di Barcellona, quando si strappò un muscolo e fu aiutato dal padre che eluse la sorveglianza e lo sorresse per fargli terminare la corsa), e altri che provocano tensione e sconvolgimento: una donna e un bambino sottoposti a un fermo di polizia, pestaggi della polizia, scontri di piazza, un piccolo che piange costretto a stare mani al muro per vedere come ci si sente quando si viene fermati dalle forze dell’ordine. Il tutto mentre in sottofondo scorre Ultralight beam di Kanye West.
Arthur Jafa. Ph. Credit Fondazione La Biennale |
Arthur Jafa, Love is the message, the message is death (2016; fotogramma dal video, colori e bianco e nero, durata 7’30’’) |
Arthur Jafa, Love is the message, the message is death (2016; fotogramma dal video, colori e bianco e nero, durata 7’30’’) |
Nella prima delle due tavole rotonde che hanno seguito la messa in rete di Love is the message, the message is death, Tina Campt, docente di lettere e di cultura moderna alla Brown University, ha messo l’accento sul fatto che Jafa insista sui cicli storici che hanno contraddistinto la storia della comunità afroamericana, cicli nell’ambito dei quali i neri d’America sono emersi come protagonisti rivendicando la loro posizione all’interno della società americana, i traguardi raggiunti dalla loro cultura, il contributo che hanno dato agli Stati Uniti. Una sorta di ciclo continuo che, aggiunge Thomas Lax, curatore del MoMA di New York, si presenta nelle forme d’una rivoluzione perpetua, che ogni volta i neri combattono con strategie diverse, con nuove tecnologie di coinvolgimento sociale, e con l’obiettivo di modellare in continuazione una libertà che la storia ha loro negato, e che in parte continua a negare. S’è detto che Jafa ha il piglio dello storico: e dai commenti di molti che hanno discusso di Love is the message, the message is death, emerge che l’opera si propone quasi come una sorta di libro, che prende le forme d’un testo sacro. Si può infatti azzardare una considerazione: quella che Arthur Jafa ha composto è una storia che trascende la contingenza, che compone una sorta di epica black, che parla di libertà. È interessante rimarcare che, parlando con Interview Magazine, Jafa ha raccontato d’aver pianto mentre realizzava il video. “È una verifica delle verità che le persone di colore conoscono circa la loro posizione all’interno della società, positiva o negativa. Ricordo che quando mi dissero che i telefoni cellulari sarebbero stati dotati di telecamere, io pensai che era l’idea più stupida che avessi mai sentito. Cosa te ne fai di una telecamera sul cellulare? Ma abbiamo visto che impatto abbia avuto: ha permesso una verifica di massa di ciò che i neri dicevano”.
Jafa ci propone un’opera che rifugge qualsiasi concettualismo, che prende lo spettatore e lo fa passare attraverso un florilegio dei più disparati e anche opposti stati d’animo, a volte accarezza, altre volte prende a schiaffi, dall’inizio alla fine provoca un sentimento d’alienazione (tipico, del resto, della black art), giustapponendo spesso i frammenti in una continuità estetica che disorienta. Un’opera che non poteva esser più fedele all’ambivalenza del suo titolo, dato che, come ha scritto la critica d’arte Sky Sherwin sul Guardian, l’opera spinge in direzioni opposte, evocando simultaneamente sensazioni di libertà e di terribile dolore: il tutto nello spazio di sette minuti e mezzo. È anche, se vogliamo, una sfida al concetto stesso di “arte”, e al contempo una sua potente riaffermazione in un momento storico in cui stiamo perdendo di vista il senso più profondo dell’arte. Intanto, Love is the message, the message is death è stata concepita col chiaro intento di accendere discussioni: per questo finora era stata proiettata solamente in spazî collettivi, dentro musei o gallerie. Ma il momento storico che stiamo attraversando ha imposto anche una proiezione pubblica nel grande spazio della rete. E allora la domanda non può che sorgere spontanea, e la si può formulare con le parole di Tina Campt: “qual è il ruolo, qual è il poenziale della black art in questo momento storico?”. Rispondere a questa domanda significa riannodare i fili della funzione civile dell’arte (a prescindere dal fatto che nasca con un intento politico o meno: un’opera d’arte è sempre un testo che è frutto di un momento storico e che, ricordava Longhi, sta sempre in relazione ad altri oggetti), funzione che è andata perdendosi negli ultimi periodi, a vantaggio del suo portato estetico.
Arthur Jafa, Love is the message, the message is death (2016; fotogramma dal video, colori e bianco e nero, durata 7’30’’) |
Arthur Jafa, Love is the message, the message is death (2016; fotogramma dal video, colori e bianco e nero, durata 7’30’’) |
Arthur Jafa, Love is the message, the message is death (2016; fotogramma dal video, colori e bianco e nero, durata 7’30’’) |
È innegabile che l’arte provochi emozioni. Ma l’opera d’arte, lo ricordavamo su queste stesse pagine, rimane comunque e sempre un atto politico, perché per elaborare le emozioni (che non sono soltanto un fatto estetico: le emozioni riguardano il nostro vissuto) occorre interpretare, occorre dare un ordine alle immagini. E qui, la forza delle immagini (e della black art in generale) sta nella loro capacità di disturbare senza soluzione di continuità, di farci uscire dalla nostra comfort zone, di mettere il riguardante nelle condizioni di provare a comprendere i termini del dissidio tra la cultura nera e la violenza. Credo che il senso di tutto si riassuma in una frase che si sente pronunciare più o meno a metà video dall’attrice Amandla Stenberg, che si domanda come “come saremmo se l’America amasse le persone nere così come ama la cultura nera?”.
Ma alla base di quest’opera c’è anche altro: l’osservatore è portato a domandarsi cosa significhi l’immagine del sole che brucia, e che ricorre spesso, soprattutto alla fine del film. Sono, peraltro, le uniche immagini frutto di elaborazioni digitali, e non girate con attrezzature ordinarie. Il sole riassume il significato di tutto Love is the message, the message is death. E questo lo ha spiegato lo stesso Arthur Jafa in un’intervista a Frieze un paio d’anni fa: "gran parte del video non è composta da filmati ritrovati. Ci sono momenti iconici che ho girato io stesso: il ragazzino che atterra di schiena al rallentatore è mio figlio, il matrimonio è quello di mia figlia, la donna anziana che balla a quel matrimonio è mia madre. Detto questo, il sole è la scala più adatta per considerare quello che sta succedendo. Si stratta sostanzialmente di un’affermazione sul fatto che la vita dei neri dovrebbe essere considerata a un livello cosmologico. Sono frustrato quando le persone parlano di questo video negli stretti termini di Black Lives Matter. Non posso negare che ci siano delle relazioni, ma si tratta anche di un lavoro che ha a che fare con l’estasi, con la redenzione, con la Santa Teresa di Gian Lorenzo Bernini. Io vedo le vite dei neri in termini epici, mitici. E, a un livello più semplice, vorrei che voi guardaste a quello che sta accadendo alle persone di colore non guardando verso il basso, ma guardando nello stesso modo in cui guardereste il sole".
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).