Clio, l'enigmatica musa della storia di Artemisia Gentileschi


A Pisa, Palazzo Blu conserva un’affascinante capolavoro di Artemisia Gentileschi, del 1632: Clio, musa della storia. Un’opera il cui significato ultimo ci sfugge.

È una delle poche opere di Artemisia Gentileschi (Roma, 1593 – Napoli, 1656 circa) che si trovino a Pisa, città di origine della famiglia della pittrice: Clio, musa della storia, opera eseguita nel 1632 a Napoli e oggi conservata a Palazzo Blu a Pisa, non è però soltanto un dipinto che lega l’artista alla sua terra d’origine. È un’opera sul cui significato ultimo ancora ci s’interroga, dacché ancora non è stato sciolto. E poi, è stata anche interpretata come una proiezione delle idee dell’artista stessa, una sorta di alter ego d’una pittrice che, all’epoca, era all’apice del successo, la sintesi d’una carriera fino a quel momento in continua ascesa: il suo lavoro attirava l’attenzione di molti committenti importanti, la sua condizione, indubbiamente eccezionale per il tempo, di pittrice indipendente e di talento non aveva smesso di sostenere la sua fortuna, e in più Artemisia s’era trasferita da un paio d’anni a Napoli dove intendeva sondare ulteriori possibilità di successo. È in questo contesto che si colloca la realizzazione della sua musa della storia.

La figura di Clio è riconoscibile per via dei suoi attributi iconografici: la ghirlanda che le incorona il capo (simbolo d’immortalità), la tromba (che allude alla risonanza che nei secoli ottengono le imprese storiche), il libro aperto (il supporto sul quale la storia viene scritta: nella fattispecie, le raccomandazioni iconografiche del tempo prescrivevano che il libro dovesse essere di Tucidide per rendere ancor più riconoscibile la figura). Non si fatica a distinguerla da una figura allegorica simile, quella della fama, perché la musa della storia, al contrario della fama, è priva di ali. Clio indossa una veste color ruggine che lascia intravedere, al di sotto, una camicia bianca, e si copre con una tunica di seta blu fermata con due spille d’oro all’altezza delle spalle. Le spille, peraltro, non sono gli unici gioielli che Clio indossa: il movimento del collo scopre infatti un elegante orecchino di perla. La donna assume una posa ostentatamente sicura, una posa fiera, eroica, col braccio sinistro piegato sul fianco, la mano destra che sorregge la tromba e lo sguardo che, invece d’incontrare quello dell’osservatore, guarda lontano, verso il futuro, ulteriore allusione all’eterno succedersi delle vicende storiche. La luce caravaggesca che proviene da sinistra e le illumina il volto lasciando nella penombra la parte destra della sua figura contribuisce a enfatizzare in maniera drammatica la posa: è del tutto evidente che gli effetti di luce sono studiati, ricercati, per conferire ulteriore dignità alla figura della musa della storia.

Artemisia Gentileschi, Clio, musa della storia (1632; olio su tela, 127,6 x 97,2 cm; Pisa, Palazzo Blu)
Artemisia Gentileschi, Clio, musa della storia (1632; olio su tela, 127,6 x 97,2 cm; Pisa, Palazzo Blu)

Questo orgoglio esibito non si limita soltanto alla posa della musa della storia: Artemisia Gentileschi decide infatti di firmare l’opera, lasciando il suo nome e l’anno d’esecuzione del dipinto proprio sulla pagina del libro poggiato sul tavolo. L’iscrizione apposta da Artemisia include anche un altro nome: “Rosiers”. La storica dell’arte Mary Garrard, cui si deve il merito d’aver sciolto ogni dubbio sulla corretta identificazione del soggetto di questo dipinto (in passato effettivamente ritenuto allegoria della fama), riteneva che il nome si riferisse ad Antonie de Rosières II, signore di Euvesin, che era stato primo maître d’hotel del probabile committente del dipinto, Carlo di Lorena, quarto duca di Guisa (Joinville, 1571 – Cuna, 1640), per lungo tempo governatore della Provenza. È attestato da una lettera, inviata da Artemisia a Galileo Galilei il 9 ottobre del 1635, che l’artista aveva eseguito un dipinto che doveva consegnare al duca, anche se non sappiamo di quale opera si tratti. S’ipotizza allora che l’opera sia proprio quella conservata nella collezione permanente di Palazzo Blu. Antoine de Rosières era scomparso nel 1631, un anno prima della data apposta sul dipinto, quindi potrebbe trattarsi d’una commemorazione d’una figura a cui il duca era particolarmente legato. Raymond Ward Bissell ha invece pensato che il signore in questione doveva essere il nobile francese François de Rosières, arcidiacono di Toul, scomparso nel 1607, in passato consigliere del duca. Questa lettura, a prescindere dal suo grado di fondatezza, è affascinante perché consente un affondo nelle vicende personali di Carlo di Guisa.

Il duca era arrivato da poco in Italia: il suo trasferimento è una conseguenza dei fatti del 1631, quando, all’apice dello scontro tra il cardinale Richelieu e Maria de’ Medici, Carlo di Guisa s’era schierato dalla parte di quest’ultima. Figlia del granduca Francesco I de’ Medici, Maria (Firenze, 1575 – Colonia, 1642) aveva sposato il re di Francia, Enrico IV (Pau, 1553 – Parigi, 1610), e fino alla morte del marito nel 1610 era stata regina consorte, dopodiché assunse il ruolo di reggente a nome del figlio Luigi XIII (Fontainebleau, 1601 – Saint-Germain-en-Laye, 1643), che aveva solo otto anni quando il pare morì. Quando Luigi XIII raggiunse l’età legale per regnare, Maria ebbe con lui uno scontro e fu costretta a ritirarsi nel castello di Blois: in seguito, madre e figlio si riconciliarono grazie anche al cardinale Richelieu, che venne presentato dalla stessa Maria a Luigi XIII, nel tentativo di riottenere quel posto nel consiglio del re che la donna aveva perduto. Richelieu, sostenuto da Maria de’ Medici, contribuì a far recuperare alla regina madre il suo ruolo politico, ma divergenze in tema di politica estera portarono i due a un acceso scontro, culminato nel 1630 in un complotto contro il cardinale. La congiura tuttavia fallì, e Maria fu dapprima arrestata e poi mandata in esilio a Bruxelles: il duca di Guisa, caduto in disgrazia a seguito delle vicende della sua parte politica, fu costretto a riparare in Italia, nel 1631. Si stabilì a Firenze, dove ottenne la protezione dei Medici: poiché Artemisia, nel suo soggiorno fiorentino, aveva a lungo lavorato per i Medici, non è difficile immaginare che avesse ottenuto l’incarico di dipingere la Clio proprio per effetto dei suoi felici trascorsi toscani.

Dettaglio del dipinto
Dettaglio del dipinto
La firma di Artemisia
La firma di Artemisia
La sala delle opere di Orazio e Artemisia Gentileschi a Palazzo Blu
La sala delle opere di Orazio e Artemisia Gentileschi a Palazzo Blu

A parere di Bissell, il duca doveva avere buone ragioni per celebrare il suo consigliere: Rosières, nel 1580, aveva pubblicato un libro sulla storia dei duchi di Lorena e Berry (Stemmata Lotharingiae ac Barri ducum), e tuttavia aveva fabbricato di proposito documenti falsi per attestare una improbabile discendenza della famiglia di Carlo di Guisa da Carlo Magno. La vicenda suscitò le ire di Enrico III di Francia, che riteneva offensiva quella pubblicazione. Ma non era soltanto un problema di prestigio: era un problema politico, dal momento che, se una filiazione da Carlo Magno si fosse rivelata fondata, il casato di Carlo di Guisa avrebbe potuto avanzare anche pretese sul trono di Francia. Rosières fu pertanto arrestato e nel 1583 si tenne un processo contro di lui che terminò con una sentenza di condanna a morte nei suoi confronti, ma alla fine l’arcidiacono si salvò perché, per intercessione di Luisa di Lorena, regina consorte di Francia, riuscì a ottenere la grazia. Evidentemente, volendo forzare la ricostruzione, Carlo di Guisa vedeva nelle sue vicende attuali una sorta di riflesso di quello che era accaduto al suo consigliere: anche lui era infatti caduto in disgrazia presso un potente, e anche lui aveva dovuto subire i rovesci di una situazione politica che gli era diventata improvvisamente sfavorevole. Nel 1631, da Firenze, così scriveva a un amico: “Se l’oppressione che subisco dovesse prolungarsi oltre la mia stessa vita, i posteri che avranno cara la memoria dei miei padri sapranno dare un sano giudizio della mia, lodando la mia costanza e fedeltà e condannando chi mi perseguita; essi sapranno dire quanto è noto agli onesti: che l’unico mio delitto è stato diventare governatore della Provenza”.

Per far tornare questa lettura, Bissel proponeva di leggere in una maniera del tutto particolare, nell’iscrizione, l’apposizione che precede il nome “Rosiers”: quel titolo che tutti prima di lui avevano letto (correttamente) come abbreviazione di “signore” (“sing.re”), per Bissell andava letto “senza preconcetti” come “sme.re” o “sme.ro”, ovvero abbreviazione di “smemorato”, da intendere nel significato dantesco del termine (e cioè “dimenticato”). La lettura “smemorato”, dopo Bissell, è stata largamente accolta: la troviamo anche nella nota di catalogo della vendita di Christie’s dell’8 dicembre 2004, data in cui la Clio venne venduta dal vecchio proprietario (l’opera totalizzò la somma di 251mila sterline, poco meno di 300mila euro) alla Fondazione Pisa. Secondo questa lettura, Carlo di Guisa voleva dunque rimarcare come François de Rosières fosse stato dimenticato, e il duca ne avrebbe perpetuato la memoria. Questa lettura dell’apposizione ha poi aperto il campo a sovraletture parossistiche (c’è stato chi, perdendo la sfumatura dantesca, ha inteso il termine “smemorato” come lo intendiamo oggi, ovvero come persona incline a dimenticare: in questo caso l’iscrizione diventerebbe quasi un gesto di scherno nei riguardi di Rosières, che sarebbe però inconcepibile), ma la realtà è che chi ha preso per buona la trascrizione “sme” non s’è accorto del gambo della “g” di “sing.re”, un poco sbiadito ma comunque ancora visibile a occhio nudo. Non ci sono dubbi, dunque, sull’apposizione che accompagna il nome di Rosières: Artemisia ha semplicemente voluto dedicare l’opera alla memoria del “signor Rosières”.

Justus Suttermans, Ritratto di Carlo di Guisa (1635 circa; olio su tela, 65 x 52 cm; Firenze, Gallerie degli Uffizi)
Justus Suttermans, Ritratto di Carlo di Guisa (1635 circa; olio su tela, 65 x 52 cm; Firenze, Gallerie degli Uffizi)

I dubbi, semmai, dovrebbero vertere sul concetto di verità storica che l’opera vorrebbe far emergere. La studiosa Elizabeth Cropper, che ha ricostruito puntualmente le vicende del dipinto così come sin qui esposte, ha scritto che la Clio di Artemisia Gentileschi intende esprimere un senso della storia “che fa appello ai posteri affinché si riveli la verità e si manifesti la fama autentica”. Il duca di Guisa poteva poi contare su un’ulteriore, sottile sottotraccia: anche Artemisia Gentileschi era stata a sua volta calunniata, eppure, scrive la studiosa, “poteva ormai presentarsi, come la figura di Clio, in posa ardita e palpitante, lo sguardo rivolto al futuro, decisa ad assicurarsi fama e immortalità”. Ci si dovrebbe domandare per quale ragione il duca avesse voluto ricordarsi, a ventiquattro anni di distanza dalla sua scomparsa, di un consigliere che, pur di forzare una discendenza, aveva falsificato dei documenti. Scartata la poco probabile ipotesi dell’anniversario tondo (il venticinquesimo), usanza che sembra più propria del ventunesimo secolo che del diciassettesimo, rimane il presunto parallelismo tra la vicenda del duca e quella di François de Rosières. Un parallelismo che tuttavia, a uno sguardo più profondo, risulta difficile da sostenere: il duca, nella lettera del 1631, si presentava come un calunniato, mentre François de Rosières era reo confesso, dal momento che nel processo aveva ammesso la colpa d’aver prodotto prove false per attestare una linea genealogica inesistente. D’altra parte, si potrebbe affermare che il concetto di storia come sequenza di fatti documentati da prove attendibili, nel Seicento, era secondario rispetto all’idea di storia come memoria collettiva o a quella di storia come strumento politico utile a legittimare un potere o una dinastia. Di conseguenza l’opera in questione riguarda non tanto quello che Rosières ha fatto in vita quanto semmai, ha suggerito Cropper, “la posterità e la fama imperitura”. Per estendere il ragionamento: è difficile immaginare quest’opera come frutto d’una solidarietà tra calunniati. Va semmai letta, qualora occorra identificare il “Rosiers” dell’iscrizione in François de Rosières, in una rivendicazione da parte del duca: Carlo di Guisa, dopo esser stato costretto all’esilio, cercava d’affermare la propria posizione nella storia, e intendeva farlo anche sulla base della legittimazione della storia della propria dinastia, scritta da Rosières (e in questo senso diventa secondario il fatto che l’opera storiografica dell’arcidiacono di Toul proponesse un’ascendenza errata: contava il fatto che il casato potesse vantare una storia).

Ad ogni modo, oggi il sottotesto di quest’opera è andato perdendosi (o meglio: appassiona soprattutto gli studiosi), ed è a sua volta diventato un aspetto secondario, anche in ragione del legame che la musa della storia ha con la sua autrice: tendiamo, cioè, a leggere ogni figura femminile della produzione di Artemisia Gentileschi come se in quelle eroine si rispecchiassero le convinzioni, le idee, i desideri di Artemisia. Non possiamo conoscere, ovviamente, quali fossero le intenzioni dell’autrice, e non sappiamo quanto sia fondata l’affermazione per cui “ciascuna immagine di donna energica da lei dipinta deve in qualche modo essere ricondotta all’autrice” (così Cropper, secondo cui Artemisia s’identificava in Clio perché non solo era riuscita nella sua professione, ma era anche diventata famosa). Certo: presentandosi come la musa della storia, avrebbe peccato di presunzione. Ma è comunque fondata l’idea per cui Artemisia volesse essere ricordata come una pittrice di talento, come una “virtuosa donna”, come la chiama Filippo Baldinucci nelle Notizie dei professori del disegno. Un’artista paragonabile a una Lavinia Fontana o a una Sofonisba Anguissola. Questo non significa che qualunque figura femminile compaia nella sua produzione includa elementi autobiografici, ma non significa neppure che Artemisia non avvertisse la sua condizione. Sul libro di Clio, del resto, il suo nome ha un rilievo ben maggiore rispetto a quello, un poco nascosto, del “signor Rosières”.


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