“Intra Tupino e l’acqua che discende / del colle eletto dal beato Ubaldo, / fertile costa d’alto monte pende”. In questa terzina del canto XI del Paradiso, in cui si trova l’elogio di san Francesco pronunciato dal domenicano san Tommaso d’Aquino, Dante utilizza una perifrasi geografica per indicare Assisi, luogo di nascita del santo dell’umiltà e della povertà. In apertura della terzina il sommo poeta utilizza due fiumi come confini del territorio indicato. Il primo è citato con il nome proprio, mentre il secondo è descritto con un’ulteriore perifrasi che, una volta analizzata, porta all’identificazione del fiume Chiascio, che scorre dalle pendici del monte Ingino, uno dei cinque colli simbolo di Gubbio. Anche il nome del monte non è menzionato esplicitamente, ma Dante sceglie una figura dal forte potere evocativo per identificarlo: si tratta di sant’Ubaldo, vescovo e patrono di Gubbio, morto il 16 maggio 1160, la cui basilica, che ne conserva le spoglie, si trova in cima al già citato monte eugubino. È in suo onore che ogni 15 maggio si tiene la Festa dei Ceri, durante la quale i ceri, grandi manufatti lignei a sviluppo verticale, vengono portati in giro per la città e a fine giornata vengono riportati, con una spettacolare corsa, nella basilica. Il fatto che Dante si sia servito di questo personaggio per giungere all’identificazione di Gubbio è indicativo del profondo legame che esisteva tra il santo e la cittadina umbra, conosciuto anche fuori dal contesto territoriale stretto.
Ubaldo Baldassini venne canonizzato da papa Celestino III nel 1192, ma la devozione popolare già lo invocava beato e santo. Uno degli elementi centrali della venerazione di sant’Ubaldo è l’incorruttibilità del suo corpo, elemento che venne considerato evidente segno di santità. Nelle due biografie antiche del santo, la Vita Beati Ubaldi di Giordano, canonico e priore di San Florido a Città di Castello, e la Vita Beati Ubaldi di Tebaldo, successore di Ubaldo sulla cattedra vescovile eugubina, non ci sono riferimenti a trattamenti al corpo defunto. La prima sepoltura avvenne nella Cattedrale dei Santi Mariano e Giacomo in prossimità dell’altare maggiore, all’interno di un’arca marmorea. Secondo la tradizione, ma senza testimonianze documentarie, venne trasferito l’11 settembre 1194 sul Monte Ingino.
È nella prima metà del Trecento, forse tra terzo e quarto decennio, che si delineò la necessità di trovare una nuova sistemazione per il santo. Fu questo il periodo in cui Gubbio vide i vertici della sua esperienza comunale, con la progettazione e realizzazione di un importante spazio pubblico come Piazza Grande e dei palazzi pubblici che su di essa affacciano, quello del Popolo (oggi Palazzo dei Consoli) e del Podestà, oltre all’elaborazione di statuti comunali. In questo fervore comunale, si pensò che per le preziose spoglie del proprio santo patrono bisognasse trovare una soluzione che ne permettesse la conservazione, ma anche l’ostensione della preziosa reliquia, che in questo caso era rappresentata da un corpo intatto. Non vi sono testimonianze documentarie riguardo a un diretto coinvolgimento comunale nella commissione di questo nuovo reliquiario, ma bisogna ricordare che il culto di sant’Ubaldo non fu soltanto un fatto religioso, ma anche civico: nello statuto comunale del 1338 venne infatti inserita la promozione del suo culto.
Veduta di Gubbio |
Palazzo dei Consoli |
La basilica di Sant’Ubaldo. Ph. Credit |
La scelta ricadde sulla realizzazione di una monumentale cassa lignea con spioventi a capanna, ispirata nelle forme alle casse-reliquiario orafe diffuse in tutta Europa. Fu pensata per essere osservata a 360° e infatti le decorazioni risultano presenti su tutti i lati. Le tipologie del legno usate in prevalenza sono noce e olmo. Quest’ultimo, oltre ad essere disponibile in abbondanza nel territorio, richiama una leggenda sulla traslazione del corpo del santo. Sant’Ubaldo chiese al suo successore di indire un digiuno cittadino di tre giorni: al termine di questo, avrebbe dovuto porre il suo corpo su un carro trainato da giovenchi indomiti, non guidati, e il posto in cui si sarebbero fermati, quello sarebbe stato il luogo prescelto. Così fu fatto e gli animali si fermarono in cima al monte Ingino, nei pressi di una piccola chiesa dedicata a San Gervasio. I rami utilizzati per sferzare i giovenchi furono piantati in terra e diventarono due olmi. In questo modo, si creò un nuovo centro di culto cittadino, con l’ambizione di farlo diventare una nuova meta di pellegrinaggio.
L’obiettivo principale di questo rinnovamento era trovare una soluzione che permettesse di rendere visibili le spoglie di Sant’Ubaldo in selezionate occasioni, senza comprometterne la conservazione. Si pensò dunque di creare uno sportellone apribile verso l’alto sul prospetto frontale, che veniva assicurato attraverso due stanghe di ferro. Sulla superficie interna dello sportellone era dipinto un cielo stellato, di cui oggi rimangono soltanto lievi tracce. Una volta aperto, ci si trovava di fronte una grata di ferro. Oltre, come probabilmente denunciano due occhielli in ferro all’interno della cassa, vi era una ulteriore cortina in tessuto che veniva spostata attraverso un meccanismo per svelare il corpo del santo. L’effetto ottenuto era simile a quello che si può osservare in alcuni monumenti funebri in marmo, dove sono due angeli a spostare la cortina in tessuto per mostrare il corpo del defunto (si può prendere ad esempio il celeberrimo Monumento funebre del cardinale De Braye di Arnolfo di Cambio). Nel 1600 venne inserito anche un vetro al di là della grata metallica. Come osservato già in precedenza, le forme di questa arca, oggi nota come l’arca vecchia di sant’Ubaldo, sono ispirate alle casse-reliquiario realizzate dall’oreficeria, ma richiamano anche i modelli degli antichi sarcofagi in marmo, in particolare nelle decorazioni esterne. Lo sportellone è infatti caratterizzato da lacunari che dovevano essere decorati con un rosone a otto petali intarsiato, andati perduti durante un successivo restauro. Anche l’altro prospetto presenta sempre dei lacunari decorati con motivi fitomorfi e geometrici. Altro dettaglio sono le tarsie lignee ispirate a motivi cosmateschi, che impreziosiscono il manufatto. Sui prospetti dei lati corti si trovano invece quattro lacunari disposti su due registri.
Oltre alla doratura, sulle superfici interne dell’arca erano presenti alcune pitture, in totale sette. Purtroppo, si sono conservate soltanto le due poste sui lati brevi: sono raffigurati, ciascuno entro una cornice polilobata, Cristo benedicente e un Santo diacono (forse san Mariano o san Giacomo, ovvero i santi titolari della Cattedrale eugubina). Queste figurazioni risultavano poco visibili dall’esterno, anche nel momento in cui lo sportellone era aperto. La loro presenza infatti era funzionale non tanto ai fedeli, che riuscivano soltanto ad intravederle, ma piuttosto per il santo: assumevano una funzione liturgica, proteggendo e accompagnando la salma del vescovo defunto. La loro posizione all’interno della cassa ha permesso che si conservassero ottimamente. La figura di Cristo si trovava in corrispondenza della testa di sant’Ubaldo: nel suo gesto di benedizione si può individuare un tentativo di scorcio, di creazione di illusionismo spaziale, manifestando la volontà portare la mano oltre lo spazio pittorico. Questa figura si pone in un fecondo confronto con il Cristo benedicente del sottarco di ingresso al chiostro del transetto destro nella Basilica inferiore di San Francesco ad Assisi. Ci troviamo davanti a un pittore che conosce bene il cantiere della Basilica inferiore: non soltanto Giotto, ma anche Simone Martini. Con un’osservazione ravvicinata ci si accorge infatti dell’attenzione verso la rappresentazione di alcuni dettagli, come le ciglia del santo, tipica dell’approccio del pittore senese. Riguardo ai quadrilobi della parete di fondo, oggi perduti, vi è una descrizione del 1924 in cui si segnalano quattro figure angeliche: ipotesi verosimile, considerando che in molti sepolcri marmorei coevi erano presenti. Negli spazi tra questi erano inseriti alcuni vetri colorati, con una concezione del tutto simile a quella dei verre eglomisè, per rendere più preziosa la superficie, ricordando esiti dell’oreficeria.
Maestro Espressionista di Santa Chiara (Palmerino di Guido), Arca vecchia di Sant’Ubaldo (terzo decennio del XIV secolo; legno dipinto; Gubbio, Raccolta Memorie Ubaldiane). Ph. Credit Festival del Medioevo |
Maestro Espressionista di Santa Chiara (Palmerino di Guido), Arca vecchia di Sant’Ubaldo (terzo decennio del XIV secolo; legno dipinto; Gubbio, Raccolta Memorie Ubaldiane) |
Maestro Espressionista di Santa Chiara (Palmerino di Guido), Arca vecchia di Sant’Ubaldo, dettaglio del Cristo benedicente |
Maestro Espressionista di Santa Chiara (Palmerino di Guido), Arca vecchia di Sant’Ubaldo, dettaglio del santo diacono |
Fu Pietro Toesca a riconoscere l’importanza di questi dipinti e ne attribuì la mano al pittore che Henry Thode, all’inizio dello scorso secolo, appellò Maestro di Santa Chiara, ovvero quella personalità artistica che si occupò della decorazione della volta principale della chiesa di Santa Chiara ad Assisi. Roberto Longhi lo definì “agrodolce espressionista” e Giovanni Previtali, su questa considerazione, aggiunse l’attributo “espressionista” alla precedente denominazione. Enrica Neri Lusanna ha avanzato la proposta attributiva di riconoscere nel Maestro espressionista di Santa Chiara il pittore Palmerino di Guido (notizie dal 1299 al 1337), padre di Guido Palmerucci. L’attività di questo pittore a Gubbio, tra gli anni Venti e Trenta, si riscontra nella chiesa di Santa Maria dei Laici, in quella di San Francesco e in quella San Secondo. Forse lavorò anche per la chiesa di Sant’Agostino, per i canonici della Cattedrale e per il Comune.
La presenza di pitture interne all’arca si mette in relazione con alcune casse-reliquiario di area umbra, come quelle di Santa Chiara da Montefalco e Santa Rita da Cascia. In questi casi, però, l’apertura era più tradizionale, ovvero avveniva dall’alto.
L’arca era con tutta probabilità posta su delle colonnine dietro l’altare maggiore. Due maioliche del 1521, lustrate da mastro Giorgio Andreoli (conservate al Victoria and Albert Museum a Londra e al Metropolitan Museum di New York), mostrano il sepolcro di Sant’Ubaldo posto su dei pilastri. In realtà non viene rappresentata l’arca, ma la salma stessa, probabilmente con l’intento di rendere visibile ciò che era nella realtà celato, il corpo incorrotto. Queste immagini aiutano a renderci l’idea di come dovesse essere allestito il sepolcro di sant’Ubaldo.
Nel 1471 l’arca venne sottoposta ad un primo restauro. Il successivo intervento, avvenuto tra il secondo e il terzo decennio del Cinquecento, venne promosso dalla Congregazione dei Canonici Regolari Lateranensi, che si insediarono nella basilica nel 1512. La cassa venne aggiornata secondo il nuovo gusto rinascimentale, come le aggiunte in pastiglie dorate, subendo un profondo riallestimento rispetto a come era stato concepito all’origine. Nelle cuspidi laterali, fu inserito il trigramma di San Bernardino da Siena, figura a cui erano legati i canonici lateranensi. A livello strutturale, però, non subì modifiche.
L’urna nuova di sant’Ubaldo. Ph. Credit |
Il convento di sant’Ubaldo, sede della Raccolta delle memorie ubaldiane. Ph. Credit |
Quest’arca conservò le spoglie di Sant’Ubaldo fino al 30 agosto 1721, quando venne traslato in un nuovo sepolcro (di qui l’aggettivo “vecchia”). Da quel momento, questo manufatto diventò una memoria ubaldiana. Da subito i canonici regolari lateranensi rivendicarono i diritti sul possesso dell’arca vecchia. È segnalata nella basilica ancora nell’ottobre 1876, mentre nel 1884 venne trasferita a Palazzo dei Consoli. È da evidenziare un episodio molto significativo. Il comune ricevette una proposta di acquisto dell’arca da parte di un antiquario locale. La proposta fu fermamente respinta: con grande autocoscienza civica e una certa idea di tutela del proprio patrimonio artistico, il consiglio comunale dichiarò “non essere cosa decorosa per il Municipio disfarsi di un oggetto antico, massimo in un’epoca in cui per le vendite fatte dei privati si lamentava che la nostra città perdeva tutte le memorie antiche” e che “non solo per la sua antichità ma anche per le tradizioni religiose costituisce un oggetto per molti pregevole e rispettato” (la testimonianza è riportata in Francesco Mariucci, L’arca vecchia di Sant’Ubaldo. Memoria e rappresentazione di un corpo santo, Edizioni Fotolibri Gubbio, Gubbio 2014: il volume, accompagnato da un saggio di Andrea di Marchi, è il punto di riferimento per la conoscenza di questo particolare manufatto, e a cura dello stesso autore è la scheda relativa all’arca vecchia presente nel catalogo della mostra Gubbio al tempo d Giotto. Tesori d’arte nella terra di Oderisi tenutasi nella cittadina umbra nel 2018).
I suoi successivi spostamenti, sempre interni alla città, si segnalano nel 1888, in Palazzo Pretorio presso la Pinacoteca, seguendola poi nel suo trasferimento all’inizio del Novecento presso Palazzo dei Consoli. Successivamente il Comune organizzò una raccolta di cimeli sacri nella Chiesa di Santa Maria Nuova, dove vi confluì anche l’arca vecchia. Venne nuovamente restaurata nel 1982 e nel 1997 riportata nella basilica di Sant’Ubaldo. Oggi è conservata presso la Raccolta delle Memorie Ubaldiane, a cui si accede dal chiostro della basilica.
Oltre ad avere un intrinseco valore artistico, l’arca vecchia di Sant’Ubaldo è una preziosa testimonianza di come una precisa necessità riguardo al culto del proprio santo patrono abbia fatto sì che venisse sviluppato un nuovo manufatto in grado di soddisfare pienamente quella necessità. Un chiaro esempio di come le testimonianze artistiche custodiscano le storie delle nostre comunità.
L'autrice di questo articolo: Francesca Interguglielmi
Storica dell'arte, laureata in Arte Medievale presso l'Università degli Studi di Siena. Attualmente si sta formando in didattica museale presso l'Università degli Studi Roma Tre.