“Colui che ama e insegue le gioie della bellezza fugace, riempie la sua mano di fronde e coglie bacche amare”. Questo il distico che si legge alla base dell’Apollo e Dafne, il capolavoro di Gian Lorenzo Bernini (Napoli, 1598 – Roma, 1680) conservato alla Galleria Borghese di Roma, al centro della sala che prende nome proprio dal celeberrimo gruppo scultoreo: a comporre i due versi in latino (“Quisquis amans sequitur fugitivae gaudia formae / fronde manus implet baccas seu carpit amaras”) era stato Maffeo Barberini, che era ancora cardinale all’epoca in cui Bernini cominciava a lavorare alla sua opera (sarebbe salito al soglio pontificio, col nome di Urbano VIII, il 29 settembre del 1623): chiaro, dunque, l’iniziale intento moraleggiante dell’opera commissionata dal cardinale Scipione Caffarelli-Borghese, che si rivolse nel 1622 allo scultore, allora appena ventiquattrenne, per dar forma al ben noto mito pagano che vede per protagonisti Apollo, il dio delle arti, e la ninfa Dafne, figlia del dio fluviale Peneo, colti nella scena finale dell’episodio narrato da Ovidio nelle sue Metamorfosi. Il poeta romano narra che Apollo, dopo essersi vantato con Cupido dell’uccisione del temibile serpente Pitone, dovette affrontare la vendetta dello suscettibile dio dell’amore, che preparò due frecce, una dorata e una di piombo: la prima faceva innamorare chi ne veniva colpito, la seconda invece suscitava un forte sentimento di repulsione.
Cupido colpì Apollo con la freccia dorata, e Dafne con quella di piombo: il dio, appena vide Dafne, se ne innamorò perdutamente, e la ninfa al contrario lo rifiutava. Apollo desiderava Dafne al punto che si mise a inseguirla per raggiungerla e possederla, e lei fuggì spaventata: quando fu chiaro che Dafne sarebbe stata sopraffatta, la giovane, ormai disperata, pregò il padre chiedendo di farsi trasformare per scampare alle violente brame di Apollo. Peneo, per soccorrere la figlia, la trasformò in una pianta di alloro: il dio delle arti non poté far altro che constatare l’avvenuta mutazione, e da allora decise che l’alloro sarebbe diventata l’essenza a lui sacra, e con le foglie di alloro avrebbe ornato la sua chioma e quella dei poeti e dei vincitori.
Bernini impiegò tre anni per realizzare il gruppo di Apollo e Dafne, a causa di un’interruzione: dovette infatti sospendere il lavoro nel 1623 quando morì il cardinale Alessandro Peretti, che gli aveva appena commissionato il David, opera che Scipione Caffarelli-Borghese gli chiese di finire per lui: le energie dello scultore furono dunque assorbite dal David, ultimato nel 1624. Fu solo nell’autunno del 1625 che Bernini poté finire l’Apollo e Dafne, grazie anche all’aiuto di uno dei suoi più valenti collaboratori, il carrarese Giuliano Finelli. Risale invece al marzo di quell’anno il pagamento della base eseguita da Agostino Radi, all’agosto l’installazione nella residenza del cardinale e al mese di novembre il saldo finale (mille scudi: si tenga conto che a quel tempo il salario medio di un operaio specializzato era di tre scudi al mese). Tre anni per completare un capolavoro immortale che ci affascina ancora a distanza di quattro secoli, per tante ragioni, e non soltanto per gli straordinari virtuosismi tecnici di cui l’artista seppe dar prova.
Non era semplice, intanto, concentrare l’episodio in un’unica azione. Bernini sceglie un momento particolarmente concitato (e anche estremamente difficile sotto il profilo creativo e tecnico): l’attimo in cui la trasformazione di Dafne in alloro è da poco cominciata ma non è ancora del tutto compiuta, sì che vediamo progressivamente le sue gambe e le sue braccia trasformarsi in tronco e rami, e le dita delle mani assumere le sembianze di foglie. Di straordinario impatto è la credibilità con la quale Bernini descrive la trasformazione, resa ancor più emozionante dal forte senso di movimento che la scena emana: l’artista coglie il culmine d’una corsa angosciante, ancora in svolgimento, con la ninfa che forse ancora non si rende conto d’essere ormai al sicuro e allora si slancia in avanti tendendo le braccia al cielo per portarsi il più lontano possibile dal dio accecato dal suo feroce desiderio indotto da Cupido. Anche lui è colto in corsa, la mano sinistra ha ormai raggiunto il ventre di Dafne, il braccio destro è invece completamente steso all’indietro per trasmettere all’osservatore l’idea che Apollo stia ancora correndo (le gambe atletiche del dio, del resto, sono anch’esse in posizione di corsa), ma l’espressione inizia a tradire un certo stupore, si comincia a leggere meraviglia nei suoi occhi, dinnanzi ai quali si sta compiendo l’ineluttabile. E da notare poi gli svolazzi del perizoma che Apollo indossa, agitato dal vento, esattamente come i capelli di Dafne: anche quest’effetto contribuisce a conferire all’azione il forte senso di dinamismo che si nota subito osservando la scena scolpita. Lo sforzo è ulteriormente sottolineato dalla tensione dei muscoli e dei tendini di Apollo, restituiti con resa realistica.
Ed ecco che poi, proprio davanti ai nostri occhi si sta svolgendo il miracolo: Dafne urla sgomenta, ma il suo splendido corpo, interamente nudo, ha già cominciato a trasformarsi. Non vediamo più il piede sinistro, che si confonde ormai con la vegetazione. Le dita del piede destro stanno diventando radici. Le sue gambe stanno assumendo la forma di un tronco, che le ha già avvolto tutta la gamba sinistra. E anche parte del suo ventre è divenuto corteccia. E poi le dita delle mani sono già rami da cui partono fronde colme di foglie d’alloro. Proprio in questi spettacolari dettagli s’è voluta vedere la mano di Giuliano Finelli: lo studioso Damian Dombrowski ha infatti ritenuto d’assegnargli le parti tecnicamente più difficili del gruppo, ovvero le foglie, i ramoscelli, le radici, con la consapevolezza che il carrarese, nelle opere eseguite in autonomia, ha spesso dato prova di arditi virtuosismi. Contro questa ipotesi si è invece schierata Kristina Hermann-Fiore, ritenendo difficile che un assistente si sostituisse al maestro nei “pezzi di bravura”, anche per ragioni d’immagine nei riguardi del committente. Il virtuosismo s’apprezza anche nel modo in cui il marmo imita la consistenza dei diversi materiali: la morbidezza delle carni di Dafne, la leggerezza delle foglie, la ruvidezza della corteccia dell’albero, la consistenza dei muscoli in tensione di Apollo. “Il gruppo”, osserva Alessandro Angelini, “conclude un intero periodo di ricerca del Bernini attorno alla scultura di tema mitologico su cui più tardi l’artista non ritornerà più, e rappresenta un apice nella resa sensibile di effetti pittorici ottenuti sul marmo”. Per ottenere questi effetti, Bernini ha fatto ricorso all’uso sapiente del trapano per le parti più sottili e delicate, oltre che per i capelli, mentre per le parti meno minute l’artista impiegò, ha spiegato lo scultore Peter Rockwell, “un’ampia varietà di gradine, dal calcagnolo (una gradina a due denti usata per sbozzare dopo la subbia) a una serie di gradine da tre a cinque denti, alcune con denti a punta altri piatti, sino a una gradina a due denti relativamente stretta, usata praticamente come strumento di finitura. Lo scopo di questa varietà di gradine era di avere la possibilità di esplorare forme e fattezze via via che procedeva dentro la pietra. Diversamente dalla subbia, la gradina chiarisce abbastanza le forme, così da poter vedere la figura piuttosto che essere attratti visivamente dalla superficie non ancora abbozzata”.
Possiamo farci un’idea, dai documenti del tempo, di come fosse stato installato il gruppo scultoreo, secondo le precise disposizioni dello stesso Bernini: all’interno della terza sala (quella dove l’Apollo e Dafne si trova tuttora), posto in prossimità della parete che confina con la cappella e con la scala a chiocciola che conduce al piano superiore, in modo da far vedere all’osservatore il fianco destro di Apollo, per consentirgli quasi di seguirlo nella corsa per prendere Dafne. Chi entrava dalla sala della cappella, in sostanza, vedeva Apollo di spalle. Nonostante ci sia un punto di vista privilegiato, rispetto agli altri gruppi borghesiani, qui è consentito osservare l’opera, scrive Angelini, “anche da angolature diverse, e contemplare da vicino i capelli di Dafne […] o il leggero panneggio di Apollo che si avvolge attorno alle sue membra delicate”. Il lato sinistro della scultura rimaneva dunque verso la parete anche se, ha notato Anna Coliva, doveva esserci tra parete e opera un vuoto tale da “concedere al movimento delle figure il naturale spazio di espansione”. Probabilmente, immagina la studiosa, la collocazione era stata immaginata per fare in modo che le figure procedessero verso il centro della stanza in modo da dare più ariosità alla loro espansione nello spazio, anche perché l’opera privilegia un momento della storia che accentua “l’attimo dell’arresto, dunque del compimento dell’azione, vero culmine narrativo, rispetto al racconto della corsa, dunque dell’attesa di una conclusione, che sarebbe invece incoraggiato dal muoversi dell’occhio dello spettatore attraverso un vero percorso da compiere lungo il lato generalmente indicato”. Dunque, forse, l’opera non correva del tutto parallela alla parete: inoltre, “l’asse longitudinale orientato verso il centro avrebbe anche permesso di stagliare il gruppo scultoreo in piena luminosità, di modo da potere ammirare le perfette dinamiche profilari, l’esilità dei sostegni materici concessi agli arti, alle fronde, alle capigliature, il virtuosismo del fuori-centro, il circolare libero dell’aria fra di essi, avendo come sfondo la luce e non la parete”. La scultura venne poi spostata al centro della sala, dunque nella posizione in cui la vediamo oggi, dopo il 1785, quando Marcantonio IV Borghese riallestì la collezione della splendida dimora nell’ambito dei lavori di rinnovamento architettonico affidati ad Antonio Asprucci e, seguendo un suggerimento dello scultore Vincenzo Pacetti, fece sistemare l’Apollo e Dafne nella posizione odierna. Un disegno di Charles Percier del 1786, oggi conservato all’Institute de France di Parigi, documenta il nuovo e definitivo assetto della sala.
Quali fonti iconografiche poterono ispirare l’estro di Gian Lorenzo Bernini? Nella figura di Apollo è stato spesso visto un rimando all’Apollo del Belvedere, la splendida statua marmorea, copia romana di un bronzo greco di Leocare, che venne rinvenuta ad Anzio alla fine del Quattrocento, e che Bernini di sicuro conosceva: la languidezza e la delicatezza del dio berniniano trovano infatti preciso riscontro nella statua che oggi s’ammira ai Musei Vaticani. È stato notato come Bernini abbia replicato financo i calzari dell’Apollo del Belvedere, tanto si tenne stretto al modello di riferimento. Per la figura di Dafne si è invece pensato che Bernini possa aver preso spunto da un’opera moderna, la Strage degli innocenti di Guido Reni, e in particolare dal volto della madre che fugge urlando nella parte sinistra del dipinto: l’artista bolognese aveva completato il suo dipinto nel 1611.
Per quanto riguarda il motivo della corsa, è stata indicata come possibile fonte iconografica una scena della volta della Galleria Farnese affrescata da Annibale Carracci, quella dove si osservano Aci e Galatea in fuga da Polifemo che sta scagliando un masso contro di loro: gli studiosi sono stati infatti sorpresi dalla corrispondenza tra le figure dei due giovani amanti dell’affresco di Carracci e quelle di Bernini, dal momento che la prospettiva di spalle è molto simile e anche gambe e braccia sono collocate all’incirca nella stessa posizione. Bernini conosceva sicuramente gli affreschi della Galleria Farnese, anche perché sappiamo che era un “ammiratore”, per così dire, di Annibale Carracci, e trasse forse ispirazione da quel dettaglio così colmo di pathos, nonostante, ha rilevato ancora Anna Coliva, il mondo di Annibale Carracci fosse “ormai lontanissimo dalla ricerca, dallo spirito degli anni Venti, nei quali il classicismo caldo, trionfalmente corposo del grande maestro è già stato elaborato, assimilato e poi trasformato”. Gli affreschi di Carracci furono comunque una sorta di miniera iconografica per Bernini: anche per il Ratto di Proserpina sono stati messi in evidenza i debiti nei riguardi dell’opera del bolognese, e Rudolf Wittkower ha ben sottolineato come lo scultore toscano avesse preso a guardare l’antichità classica proprio attraverso gli occhi di Carracci, subordinando l’osservazione del reale e lo sguardo sull’arte antica all’interpretazione carraccesca. E sempre per il momento della corsa, poté forse fornire qualche spunto un altro dipinto di Guido Reni, l’Atalanta e Ippomene, specialmente per l’impressione di movimento che Bernini riuscì a conferire alla scena e che in certi elementi (per esempio il panneggio svolazzante di Apollo, o la chioma di Dafne) richiama il dipinto reniano. Anche l’idea del velo che parte dal braccio del dio, descrive un arco e poi gli s’attorciglia attorno al bacino potrebbe derivare dal dipinto di Guido Reni: si veda come il panneggio di Apollo segua in maniera molto similare l’andamento del velo di Atalanta che si china a raccogliere i pomi gettati da Ippomene. E ancora, Irving Lavin ha sottolineato un possibile rapporto con l’Alfeo e Aretusa eseguita dallo scultore fiorentino Battista Lorenzi per la Villa del Bandino (oggi si trova al Metropolitan Museum di New York). Esiste poi un’incisione di Cherubino Alberti, derivante da un’opera di Polidoro da Caravaggio, che potrebbe aver fornito ulteriori spunti, specie per il modo in cui vengono raffigurati i panneggi. Un’altra incisione, del “Maestro IB”, coglie invece Dafne così come la rappresenta Bernini: con le gambe già mutate in tronco e le braccia che diventano rami con foglie.
Non andrà poi sottovalutato l’apporto delle fonti letterarie. Diversi studiosi infatti hanno messo in relazione il gruppo berniniano alla poesia di Giambattista Marino (ancor più che a quella di Ovidio), anche perché lo spiccato pittoricismo della scena scolpita da Bernini par quasi una traduzione per immagini del sonetto sulla Trasformazione di Dafne in lauro, pubblicato nel 1620, dunque appena due anni prima che Bernini cominciasse a scolpire il suo gruppo: “Stanca, anelante a la paterna riva, / qual suol cervetta affaticata in caccia, / correa piangendo e con smarrita faccia / la vergine ritrosa e fuggitiva. // E già l’acceso Dio che la seguiva, / giunta omai del suo corso avea la traccia, / quando fermar le piante, alzar le braccia / ratto la vide, in quel ch’ella fuggiva. // Vede il bel piè radice, e vede (ahi fato!) / che rozza scorza i vaghi membri asconde, / e l’ombra verdeggiar del crine aurato. // Allor l’abbraccia e bacia, e, de le bionde / chiome fregio novel, dal tronco amato / almen, se’l frutto no, coglie le fronde”.
Entusiastica fu l’accoglienza riservata nel Seicento al gruppo scultoreo di Bernini. Si trova la prima menzione nota in letteratura dell’Apollo e Dafne nella descrizione di Villa Borghese di Giacomo Manilli del 1650, dove si parla, in maniera invero piuttosto asettica e senza giudizî, di un “gruppo grande di Dafne, seguitata da apollo, la quale comincia a mutarsi in lauro, opera del Cavaliere Bernini”. Prima ancora però sono le lettere a serbare traccia della ricezione del gruppo: risale al 4 giugno del 1633 una missiva del letterato Lelio Guidiccioni, indirizzata allo stesso Bernini, in cui alcuni gruppi, tra i quali l’Apollo e Dafne, vengono definiti “statue eccellenti” che “si tengono in sommo pregio”. È invece del 1644 un commento positivo del viaggiatore inglese John Evelyn, che in un suo diario parla della “nuova opera dell’Apollo e Dafne del Cavaliero [sic] Bernini”, descritta come una scultura che “si ammira per la pura bianchezza e per l’arte della statuaria, che è stupenda”. Un altro viaggiatore che ha lasciato una testimonianza sull’Apollo e Dafne è Paul Fréart de Chantelou, che accompagnò Bernini in qualità di traduttore durante una visita dell’artista in Francia, e nel 1665 scrisse un diario contenente anche diverse notizie sul gruppo borghesiano. Nel diario, Chantelou attribuisce una reazione del tutto particolare al cardinale francese De Sourdis, il quale avrebbe fatto notare a Maffeo Barberini che, se l’opera fosse stata in casa sua, si sarebbe fatto qualche scrupolo per mostrarla, dato che la nudità di una bella ragazza avrebbe potuto turbare gli animi di chi l’avrebbe vista. Nel 1682 fu la volta di Filippo Baldinucci, autore della Vita del cavaliere Gio. Lorenzo Bernino scultore, che ne parlò in termini entusiastici: “Il volere io qui descrivere le meraviglie che in ogni sua parte scuopre agli occhi d’ognuno questa grande opera, sarebbe un faticare assai per poi nulla concludere”.
Non sempre, tuttavia, la critica fu benevola nei riguardi di Bernini: all’approvazione dei contemporanei seguì, nel XVIII secolo, un periodo di rifiuto, di silenzio, di giudizi sostanzialmente negativi, quando non di stroncature, anche dell’Apollo e Dafne: per esempio, nel diario dei viaggi in Europa del drammaturgo spagnolo Leandro de Moratín, il gruppo borghesiano viene giudicato freddo e privo di anima. Non era però dello stesso avviso Antonio Canova, che nel suo diario, alla data dell’11 marzo 1780, a seguito di una visita a Villa Borghese, così scrisse: “Vidi poi il gruppo di Apolo e Dafne del Bernini lavorato con tanta delicateza che sembra impossibile, vi sono le foglie d’alloro di meraviglioso lavoro, bello ancora è il nudo che non credevo tanto”. Poco dopo, nel 1796, nelle Sculture del palazzo della Villa Borghese di Luigi Lamberti ed Ennio Quirino Visconti, si legge di nuovo una descrizione molto positiva: il gruppo di Apollo e Dafne viene definito “uno dei monumenti più insigni dell’ Arte moderna” e non vengono lesinate lodi a Bernini, nonostante la concitazione che, in piena epoca di cultura neoclassica, era vista come un difetto (“La finezza del lavoro eseguito a perfezione nelle massime difficoltà dei sottosquadri, e nella sottigliezza delle foglie, dei rami, e dei panneggiamenti, la morbidezza delle carni, la verità, e la squisita imitazione di tutti gli accessorj, e la grazia dell’espressione benché concitata sono incontrastabili pregi di questo eccellente gruppo”.
Il testimone della critica negativa è stato poi raccolto nel Novecento da Howard Hibbard, che nella sua monografia su Bernini del 1965 lo ha accusato di esser stato eccessivo a causa della sua giovane età, e di aver dunque realizzato un’opera lontana dalla perfezione, di aver dato prova di virtuosismo fine a se stesso. In generale, tuttavia, i giudizi della critica contemporanea sono per lo più positivi: per Irving Lavin, per esempio, l’Apollo e Dafne è la scultura che meglio esemplifica il significato dell’arte classica per Bernini, oltre che un lavoro che ben rappresenta la sua originalità (“la principale preoccupazione di Bernini”, ha scritto Lavin, “era quella di presentare all’osservatore una situazione momentanea drammatica, e sappiamo dai documenti che l’artista si occupò di sistemare il gruppo contro una parete, così che poteva essere visto soltanto da un lato. Concentrando l’azione delle figure, Bernini trasformò l’intero corso della scultura europea”). Secondo il parere di Andrea Bolland, che ha descritto l’Apollo e Dafne nei termini di un’opera che parla anche della relazione tra scultura e poesia, il gruppo “tematizza le condizioni dell’illusione stessa: ciò che vedi non è ciò che ottieni (e se il volto di Apollo registra la sua meraviglia per la distanza tra ciò che vede e ciò che sente, quella meraviglia è una risposta altrettanto appropriata alla l’artificio del Bernini). Bernini qui dà una dimostrazione del fatto che la scultura può avere le stesse pretese di essere una finzione convincente della pittura: la distanza tra il marmo duro e la realtà della carne è grande quanto (se non maggiore) quella tra la tavola e il mondo tridimensionale”. Ancora, per Maria Grazia Bernardini, con quest’opera Bernini, più semplicemente, “spezza ogni legame con l’arte precedente e formula un nuovo linguaggio, che potremmo già definire pienamente barocco”, e “raggiunge uno dei vertici dell’arte di tutti i tempi”. Peter Rockwell ha scritto che “qualunque scultore che guarda l’Apollo e Dafne di Bernini non può che venir via stupito”. Un parere condiviso da migliaia di persone che oggi affollano le sale della Galleria Borghese spesso col preciso intento di ammirare i gruppi di Bernini, e di lasciarsi stupire dalla sua maestria e da quel gran teatro barocco che, con l’Apollo e Dafne, vede i suoi albori.
Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta
Gli articoli firmati Finestre sull'Arte sono scritti a quattro mani da Federico Giannini e Ilaria Baratta. Insieme abbiamo fondato Finestre sull'Arte nel 2009. Clicca qui per scoprire chi siamo