Antonio Maria Viani era il prefetto delle fabbriche ducali di Mantova quando il collega Domenico Fetti lo ritrasse, nel 1618, in una grande tela che faceva parte d’un ciclo dedicato alla vita di Margherita Gonzaga, sorella del duca Vincenzo I: la nobildonna aveva fondato nella sua città, nel 1599, il monastero di Sant’Orsola, e aveva affidato a Viani l’incarico di progettarlo. Come una Madonna, distante e imperturbabile, madama Margherita è assisa su di un trono scorciato in diagonale, pregno di reminiscenze tizianesche, e l’architetto, l’uomo che costruì la Mantova d’inizio Seicento, è inginocchiato al suo cospetto, raffigurato nell’atto di presentarle il modellino della chiesa monastica, che all’esterno si presenta ancora come l’aveva immaginata il suo architetto, nonostante i tanti rimaneggiamenti e i tanti cambî di destinazione d’uso che l’edificio ha subito nel corso della storia.
Margherita Gonzaga era tornata a Mantova nel 1597 dopo la morte del marito, il duca di Ferrara Alfonso II d’Este, e com’era d’uso frequente al tempo per una donna del suo status, aveva deciso di dedicarsi allo spirito e alle opere di carità per il resto dei suoi giorni. Naturalmente, lo spirito vien meglio soddisfatto se lo si coltiva in una sede acconcia, e a Sant’Orsola la sorella del duca finì per impiantare un’autentica “corte monastica”, come l’ha efficacemente definita Ugo Bazzotti. Una corte parallela a quella di Palazzo Ducale, potremmo dire. Una corte che aveva per sede quel convento splendido come una reggia, grandioso, con giardini, ricco di opere d’arte, dove la vita delle monache procedeva assieme a quella delle gentildonne di corte, che a loro volta qui risiedevano. La duchessa aveva pensato a tutto: aveva dato forma all’assetto istituzionale del convento e, da mecenate attenta e amante delle belle arti qual era, s’era occupata in prima persona dei suoi apparati decorativi. Per ornare il convento, Margherita aveva chiamato i più importanti artisti attivi a Mantova. Incluso Rubens, che aveva progettato una pala col martirio di sant’Orsola, mai eseguita, e di cui oggi rimane solo un bozzetto, custodito nella Sala degli Arcieri di Palazzo Ducale, parte del nuovo Appartamento Ducale progettato dallo stesso Viani. Lì dove si conserva parte di quello che un tempo si poteva ammirare nell’elegante monastero.
Molti, purtroppo, non badano alla storia di Sant’Orsola entrando nella Sala degli Arcieri, dove l’attenzione dei più viene catalizzata dalla straordinaria Famiglia Gonzaga in adorazione della Santissima Trinità, capolavoro del Rubens mantovano, opera celeberrima e lodatissima che rischia d’offuscare tutto il resto. Ma nella sala c’è anche altro. La parete opposta è occupata dall’enorme Moltiplicazione dei pani e dei pesci di Domenico Fetti, che si trovava nel refettorio del monastero. A fianco, il suo dipinto con Viani che presenta a Margherita il modello della chiesa. Poco distante, il bozzetto che Rubens dipinse per la pala del martirio. E sulla stessa parete del bozzetto, ecco la più coinvolgente opera dell’Antonio Maria Viani pittore: una grande tela, firmata e datata 1619, che raffigura la Vergine che presenta santa Margherita alla Santissima Trinità. Faceva parte degli omaggi che i pittori di corte avevano reso a Margherita Gonzaga dopo la sua morte, occorsa in data 6 gennaio 1618, anche se c’è chi pensa che l’opera di Viani sia nata per volontà della stessa duchessa, ipotesi del tutto plausibile. Il fatto che nel frattempo fosse venuta a mancare, non avrebbe dunque costituito un ostacolo alla realizzazione del dipinto. Anche perché, all’epoca, i tributi erano pensati per esser duraturi, così che il convento ne risultò ancor più sontuoso di come Margherita Gonzaga l’aveva conosciuto.
Viani, da architetto, era abituato a lavorare sulle grandi dimensioni. E per l’altare sinistro della chiesa monastica dipinse quest’enorme pala, alta esattamente quattro metri e mezzo, in cui Margherita d’Antiochia, la santa eponima dell’illustre omaggiata, facilmente riconoscibile per l’attributo iconografico del drago (che allude alle sembianze assunte dal diavolo per tormentarla durante la sua prigionia: Margherita, raccontano le agiografie, lo sconfisse con la sola forza della preghiera), viene introdotta dalla Vergine alla Trinità, in un cielo infinito che s’irradia in nuvole concentriche attorno alla figura di Cristo benedicente, a quella del Padreterno curiosamente avvolto in un piviale di broccato dorato, e allo Spirito Santo in forma di colomba, che spiega le ali al centro del turbinio di nubi che investe tutta la composizione. Viani forse s’era posto il preciso obiettivo di risucchiare il riguardante dentro l’ardito vortice d’aria e di luce che immaginiamo estendersi ben oltre i limiti fisici di quest’avvolgente pala centinata: per un attimo siamo anche noi in paradiso. Per un attimo siamo partecipi del moto delle nuvole, sinuose come le onde d’un mare mosso, per un attimo la luce fredda dell’empireo dorato piove su di noi, chiamati ad assistere al celestiale concerto che gli angeli stanno suonando con liuti e violini, sopra alle nuvole che nella parte inferiore della pala si fanno più consistenti, come spalti e tribune che accolgono la piccola orchestra angelica. Uno di loro canta leggendo su di uno spartito (che Viani sfrutta per apporre firma e data), una coppia di angioletti, in basso, assiste appoggiando i gomiti con noncuranza su di un piccolo banco di nubi, da sotto altri ancora si fanno largo per vedere meglio, alcuni rivolgono lo sguardo verso di noi per trascinarci nel vortice.
La pala di Antonio Maria Viani è somma di diverse esperienze che l’artista aveva assimilato nel corso della sua carriera, segno ch’era grande pittore non meno che talentuoso architetto. Ha scritto Stefano L’Occaso che “i toni brillanti e argentati, la luce che si diffonde dall’alto e si attenua solo nella parte inferiore, imperlando le forme come rugiada, fanno pensare che l’artista abbia modificato il proprio lessico artistico osservando la coeva pittura emiliana e forse anche certe sperimentazioni luministiche di ambito veronese”, mentre il fondale, “costruito con cerchi di nuvole e striature di luce balenante da tergo che creano un imbuto spaziale”, ricorda gli effetti spettacolari della pittura monacense del tardo Cinquecento (prima d’assumere l’incarico di artista di corte a Mantova, Viani aveva lavorato per cinque anni a Monaco di Baviera), richiama le scenografiche opere di artisti come Christoph Schwartz e Pieter De Witte che Viani dovette aver conosciuto in Germania. Tutto finalizzato a creare un’opera che fosse in grado di catturare chi la guardava, di rispondere in maniera efficace al gusto della corte (si noti il preziosismo degli abiti indossati dai personaggi principali), d’imporsi sull’affollata scena artistica della Mantova del primo scorcio del XVII secolo, tanto che Jonathan Bober ha ritenuto la pala di Viani una “derivazione parallela” dalla pala della Trinità di Rubens, quasi che l’esperto cremonese avesse voluto ingaggiare una specie di duello a distanza con l’audace fiammingo, col quale, ha scritto lo studioso americano, “dovettero fare i conti tutti gli artisti di quella corte”. Malgrado l’opera di Viani e quella di Rubens siano separate da quindici anni di distanza.
Se vogliamo metterla su questo piano, Viani forse esce sconfitto dalla sfida con Rubens, almeno sulla distanza. La pala che il fiammingo dipinse per l’altare maggiore della chiesa della Santissima Trinità, benché orrendamente resecata in epoca successiva, è una delle sue opere più famose, un caposaldo della sua produzione, la prima opera che ti viene in mente se qualcuno ti chiede cosa c’è dentro Palazzo Ducale. Viani, invece, non ha lo stesso appeal. Anzi, a un certo punto della storia, nell’Ottocento, il soggetto della pala fu pure equivocato: la Madonna venne scambiata per sant’Orsola da qualcuno che non s’era accorto della corona di stelle sopra il capo della Vergine, attributo che non lascia spazio a interpretazioni. E l’errore s’è trascinato per decennî, finché L’Occaso, a inizio anni Duemila, non ha chiarito il malinteso. Eppure poche altre opere sono così significative per ricostruire il clima della Mantova del primo Seicento, poche altre opere riescono a trasportare il pubblico con la stessa forza, poche altre opere riescono a dare l’illusione d’esser davvero in cielo. Ma davvero per Viani fu una sfida? Possiamo solo immaginare che, dato l’incarico che ricopriva, il prefetto delle fabbriche ducali non aveva da dimostrare niente a nessuno. E forse proprio per questo oggi nella Sala degli Arcieri vediamo il capolavoro di un artista originale, vertice indiscutibile del Seicento a Mantova.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).