Il santo è sopra una nuvola, portata in volo da un nugolo di angeli, che si muovono su di un cielo che sfonda illusionisticamente la volta della chiesa di Sant’Ignazio di Loyola, nel cuore di Roma: davanti a lui Gesù con la croce, agli angoli le personificazioni dei continenti, tutt’intorno angeli e santi che assistono alla visione divina. Parliamo della Gloria di sant’Ignazio, il capolavoro che Andrea Pozzo (Trento, 1642 – Vienna, 1709) dipinse proprio sul soffitto della chiesa di Sant’Ignazio di Loyola, opera considerata uno dei manifesti del grande affresco barocco. Nella chiesa dedicata al fondatore del movimento gesuita, Pozzo, che era a sua volta un gesuita (era entrato nella Compagnia di Gesù nel 1664, a ventidue anni), dipinse un’enorme illusione ottica, trionfo delle sue ricerche sugli effetti a cui poteva spingersi l’applicazione di una rigorosa prospettiva adoperata tuttavia non per dare ordine al mondo, ma per offrire ai fedeli visioni spettacolari, cieli infiniti all’interno di edifici, decorazioni immense che superavano aperture oltre la realtà sensibile.
Era il 1681 quando Andrea Pozzo venne chiamato a Roma da Gian Paolo Oliva, all’epoca padre generale dei gesuiti: era stato segnalato a Oliva da un altro grande artista del tempo, Carlo Maratta, e fu convocato nell’Urbe per completare gli affreschi del Corridoio della Casa Professa, lasciato incompiuto da Jacques Courtois, detto il Borgognone. Dato il successo che riscontrò negli ambienti dei gesuiti, Pozzo venne ingaggiato anche per quella grande impresa, il compito più impegnativo della sua carriera: decorare la chiesa del padre fondatore. Erano passati soltanto quattro anni dal suo arrivo a Roma: nel 1685 Pozzo cominciò la decorazione del catino absidale, con storie della vita di sant’Ignazio di Loyola (La visione di sant’Ignazio alla storta che si ammira sulla parete centrale, Sant’Ignazio che guarisce gli appestati nel catino absidale e la Difesa di Pamplona sulla volta). Fu proprio in questi affreschi che Andrea Pozzo offrì ai suoi committenti un primo saggio di quegli effetti illusionistici che lo hanno reso noto ovunque e lo hanno fatto diventare uno dei più rilevanti artisti barocchi: nel 1685 dipinse infatti un’incredibile finta cupola (dipinta su tela nel vano che avrebbe dovuto aprirsi sulla cupola vera, mai realizzata, un po’ per motivi economici, un po’ per ragioni di statica: sarebbe dovuta diventare la seconda più grande di Roma dopo quella di San Pietro) che alzava il livello dei già sorprendenti risultati che, a Roma, Pozzo aveva raggiunto negli affreschi della Casa Professa dove, con tutti gli accorgimenti che la sua esperienza e la sua tecnica potevano suggerirgli, era riuscito a trasformare un corridoio piatto e corto in una galleria voltata che imitava quelle dei grandi palazzi del tempo. Sempre grazie a illusioni ottiche in grado di simulare curvature sulle superfici piatte. Con la finta cupola, Pozzo aveva dato concreta prova di quella prospettiva a punto di vista unico che avrebbe teorizzato nel suo trattato De Perspectiva pictorum et architectorum, pubblicato a Roma nel 1693, proprio mentre il pittore attendeva all’esecuzione degli affreschi di Sant’Ignazio. Secondo l’artista trentino, era questo il modo più corretto per applicare la prospettiva: il punto di vista unico. Essenzialmente per tre motivi, a suo parere: perché era la modalità ch’era sempre stata adoperata dai grandi maestri, perché “essendo la prospettiva una mera fintione del vero, non s’obliga il pittore di farla parer vera da tutte le parti” (e quindi il “vero” deve darsi da un unico punto di vista), e perché l’opera non potrà essere realistica se il pittore cercherà di dipingerla in modo che possa essere osservata da più punti di vista.
Queste le idee che stanno alla base della Gloria di sant’Ignazio (o Trionfo di sant’Ignazio), un immenso affresco eseguito a partire dal 1691 su di una volta lunga 36 metri e larga 16, dimensioni che la rendono una delle volte affrescate più grandi al mondo. Guardando il capolavoro di Andrea Pozzo, si ha come la percezione che il soffitto della chiesa di Sant’Ignazio non esista più: al suo posto, un edificio aperto, che offre al fedele la visione del cielo su cui si svolge l’epifania sacra. Le dimensioni della chiesa reale che raddoppiano e si aprono a mostrare un altro tempio, un tempio etereo, fatto d’aria, di azzurro e di nubi, invece che di pietre e di colonne. Affinché l’illusione funzioni, è necessario posizionarsi al centro della navata: è lì che Andrea Pozzo aveva immaginato l’osservatore (e per facilitargli il compito, nel punto esatto installò un disco di bronzo, poi sostituito con un nuovo disco in marmo giallo, che si può facilmente vedere nella fascia di marmo bianco al centro della navata), è in quell’area che convergono le linee prospettiche del suo complesso calcolo scientifico, è da lì che si ammira il miracolo e si ha una percezione realistica della finta cupola. Se il visitatore della chiesa di Sant’Ignazio prova a spostarsi, questo effetto si perde, la sensazione è quella di un’architettura confusa, di un cielo senza direzione, di una cupola irreale: anche questo senso di smarrimento era frutto di un calcolo, era voluto, poiché allude alla perdita di orientamento qualora s’abbandoni la via della fede. Dietro a questa potente raffigurazione esiste una solida base architettonica: Andrea Pozzo, lo s’è visto, era un teorico della prospettiva e s’era formato come architetto. Lo si apprezza dall’esattezza delle quadrature, ovvero le architetture dipinte in scorcio che ospitano la scena principale, quella che avviene nello spazio sfondato del soffitto.
Cosa ha dipinto, nello specifico, Andrea Pozzo sulla volta di Sant’Ignazio? È lui stesso a fornire una breve descrizione, in una lettera del 1694, e a chiarire anche da dove gli giunse l’ispirazione. In particolare, a solleticare la fantasia dell’artista giunse un verso del Vangelo di Luca (“Sono venuto a portare il fuoco sulla terra, e che cosa voglio se non che arda?”), dal quale scaturì l’immagine della luce che proviene da Cristo e del fuoco che illumina molti elementi della volta (lungo tutto il perimetro della decorazione si vedono infatti clipei con immagini di fiamme, pietre incandescenti, roghi ardenti, tizzoni accesi, spade a forma di fiamme, bracieri, candele e tutto ciò che ha a che fare col fuoco). “Rimbalza da parte a parte nell’immenso affresco l’esaltazione ora segreta ora esplicita del potere del fuoco”, ha scritto Marcello Fagiolo. “Il fuoco nasce come libertario scioglimento dalle strutture in architettura o come affrancamento dalla pesantezza corporea in pittura e scultura. È soprattutto il riflesso di una forma superiore, e quindi si rivela aspirazione dello spirito. Ma nella volta di Sant’Ignazio il fuoco perde la sua connotazione di eleganza, perde la tensione al cielo perché il passaggio è ora inverso: dal cielo alla terra. È il fuoco che riscalda ma anche il fuoco che brucia. L’aspirazione diventa così dramma, e la presenza del fuoco non è più soltanto metafora ma sostanzia la vita stessa delle immagini. Il Cristo con la spada di cui parla talvolta il Vangelo prevale sul Cristo misericordioso”.
La luce è infatti simbolo dello Spirito Santo che, attraverso Cristo, inonda di sapienza cristiana sant’Ignazio, mentre il fuoco è simbolo della parola del Vangelo che il santo andrà diffondendo, ma allude anche al nome stesso del santo (ignis significa “fuoco” in latino). “Il primo lume che ebbi a formar quest’idea”, avrebbe raccontato Andrea Pozzo, “mi venne da quelle sacre parole: Ignem veni mittere in terra et quid volo nisi ut accendatur, adattate a Santo Ignazio servendosi dei suoi figliuoli e incitandoli con quelle celebri voci: Ite et inflammate omnia (“Andate e infiammate tutto”). Ma poiché ogni fuoco e ogni lume celeste convien che provenga dal Padre dei lumi, nel mezzo della volta dipinsi una immagine di Gesù il quale comunica un raggio di luce al cuor d’Ignazio che poi vien da esso trasmesso ai seni più riposti delle quattro parti del mondo da me figurate con i suoi geroglifici nelle quattro imposte della volta. Queste investite di cotanto lume stanno in atto di rigettare [...] i deformissimi mostri o d’idolatria, o di eresia, o di altri vizi”.
Il verso del Vangelo di Luca è riportato anche nei due grandi scudi sorretti dagli angeli all’inizio e alla fine della volta. Ignazio di Loyola, con l’abito da gesuita, è raffigurato nel mezzo della volta, inginocchiato davanti a Cristo (che occupa il centro geometrico di tutta la composizione). Gesù regge la croce e inonda sant’Ignazio con la luce che giunge tuttavia dalla colomba dello Spirito Santo (appena sopra Gesù), raffigurato vicino a Dio Padre. Da Sant’Ignazio, la luce si diffonde formando una sorta di X per raggiungere i quattro angoli della volta dove sono raffigurate le allegorie dei quattro continenti allora conosciuti, ognuno simboleggiato da un diverso animale: l’Europa (il cavallo), l’America (un grande felino, un puma probabilmente, con una donna nuda vestita col copricapo di piume e un pappagallo vicino a lei: questo era l’immaginario dei nativi che s’aveva al tempo), l’Africa (un coccodrillo cavalcato da una donna di carnagione scura che tiene in mano una zanna d’elefante) e l’Asia (un cammello sopra al quale notiamo una donna col turbante). La raffigurazione dei continenti allude alla luce dello Spirito Santo e alla parola del Vangelo che raggiungono ogni angolo del globo. Sotto i continenti, vediamo figure di donne e uomini nerboruti che soccombono e sembrano quasi ripararsi: sono le allegorie dei vizi e delle eresie cui allude Andrea Pozzo nel suo stesso commento. Nelle nuvole che sovrastano i continenti vediamo invece personaggi che alludono alle popolazioni delle rispettive aree geografiche, ma anche figure di santi inginocchiati sopra alle nubi: sono i missionarî dell’ordine dei gesuiti inviati a fare opera di evangelizzazione nel mondo. Sopra all’allegoria dell’Europa si riconoscono in particolare le figure di Stanislao Kostka, Francesco Borgia e Luigi Gonzaga, mentre sulla nuvola di fronte a loro, riconoscibile per via del suo bastone, compare san Francesco Saverio, raffigurato dalla parte dell’Asia perché lì si compì la sua opera di evangelizzazione (morì nel 1552 sull’isola di Sangchuan, lungo le coste cinesi, a seguito di una breve malattia). Si noterà che le figure dei continenti occupano le quadrature, sono disposte attorno agli elementi architettonici, sotto le colonne, sopra ai cornicioni decorati con fregi dorati: si tratta di una scelta precisa, dal momento che le finte architetture sono un elemento di raccordo anche simbolico tra lo spazio reale della chiesa, quello in cui si trova il fedele, e lo spazio divino rappresentato nello sfondamento illusionistico, nel cielo in cui avviene l’episodio sacro. I continenti fanno parte del mondo tangibile, di quello stesso mondo di cui fa parte il fedele, e di conseguenza trovano spazio all’interno di quegli stessi elementi che continuano lo spazio reale, simulando un’architettura che prosegue verso l’alto.
Continuando nella lettura dell’affresco, si noterà che uno dei fasci di luce in partenza dal centro della volta investe l’angelo nell’estremità inferiore, quello che regge in mano lo specchio col trigramma IHS sormontato dalla croce, uno dei simboli dei gesuiti: è simbolo della forza della loro predicazione nel mondo, una forza che viene infusa dallo stesso nome di Gesù. Ancora sotto, sopra allo scudo con la prima parte del verso di Luca, alcuni angeli sorreggono un braciere (e uno di loro distribuisce una fiaccola a un missionario): l’allusione è all’amore divino che motiva le missioni dei gesuiti.
Per mettere a punto la sua impresa, Andrea Pozzo sicuramente ricorse a diverse fonti figurative che poterono in qualche modo ispirare il suo operato. A Roma, Pozzo poteva facilmente vedere la grande volta di Palazzo Barberini con il Trionfo della Divina Provvidenza che Pietro da Cortona aveva dipinto circa sessant’anni prima firmando di fatto il primo grande manifesto dell’affresco barocco. Un’importanza non secondaria dovettero avere gli affreschi neocorreggeschi di Giovanni Lanfranco, che Pozzo poteva ammirare nella chiesa di Sant’Andrea della Valle dove il parmense aveva affrescato la Gloria del Paradiso nella cupola, oppure nella basilica di San Giovanni Battista dei Fiorentini dove, sempre negli anni Venti del Seicento, Lanfranco dipingeva un altro affresco intriso di poetica correggesca, la Resurrezione. E di grande effetto era anche un ulteriore affresco, il Concilio degli dèi dipinto sulla volta della loggia della Villa Borghese Pinciana. La luce appare invece densa di suggestioni che dovevano giungere a Pozzo dalla pittura veneta, in particolare quella del Veronese.
Un non minore impatto dovettero esercitare certi suoi contemporanei. Di pochi anni precedente alla realizzazione della Gloria di sant’Ignazio è un altro dei capolavori dell’affresco barocco romano, la volta della galleria di Palazzo Colonna, decorata da Giovanni Coli e Filippo Gherardi, e proprio tra gli anni Settanta e Ottanta del Seicento, un altro grande esponente dell’affresco barocco, il genovese Giovanni Battista Gaulli, meglio noto come il Baciccio, si trovava coinvolto in un’altra impresa gesuitica: la decorazione della volta della chiesa madre dell’ordine, la chiesa del Gesù di Roma, che si trova a breve distanza dalla chiesa di Sant’Ignazio, lavoro che, elaborando l’eredità di Bernini, fondeva tutte le arti, architettura, pittura e scultura, per offrire al fedele uno spettacolo che non s’era mai visto, una grande raffigurazione, una scena dipinta che sfondava sia lo spazio del soffitto, sia quello della cornice, con le figure che per la prima volta invadevano illusionisticamente lo spazio architettonico della chiesa. Gaulli e Pozzo sono i due grandi artisti dell’affresco barocco di fine Seicento, eppure sono artisti molto diversi: “pirotecnico”, per adoperare un aggettivo dello storico dell’arte Alessandro Zuccari, il genovese, e calcolato invece il trentino. “Se Giovanni Battista Gaulli è l’espressione di una macchina barocca teatrale che non ha limiti”, ha spiegato Zuccari, “Andrea Pozzo diventa un interprete di altro segno: per lui lo sfondato prospettico e il senso dell’infinito partono da una base architettonica, è un teorico della prospettiva e dell’architettura dipinta, e la volta di Sant’Ignazio è l’espressione di questa dimensione più posata, ma universalistica”.
L’universalismo di Pozzo s’esprime soprattutto nel portato simbolico del suo affresco, un portato che riflette del resto le idee della committenza, le idee del movimento del quale lo stesso Pozzo faceva parte. Anche la luce, al pari delle architetture delle quali s’è già detto, riveste in questo senso un doppio ruolo, tecnico e simbolico. Tecnico, perché la luce tersa e uniforme che Andrea Pozzo ha voluto dare alla sua scena proviene da un unico punto (che coincide col punto di fuga centrale della prospettiva), e consente dunque di rendere credibile la scena anche sotto il profilo della sua illuminazione, distribuita con sommo equilibrio. Simbolico, perché questa luce uniforme allude alla luce divina che si diffonde in maniera armonica ovunque, ed è in grado di raggiungere i fedeli in ogni dove.
E se qualcuno avesse provato a chieder conto ad Andrea Pozzo, oppure ai suoi committenti, dell’illusione che l’artista aveva saputo creare, forse la risposta non sarebbe stata esattamente lineare. Pozzo e i gesuiti avrebbero detto che, dentro alla chiesa di Sant’Ignazio, non esiste alcuna illusione, ma c’è semmai la verità di un messaggio di fede, che s’irradia dallo spazio “virtuale”, per così dire, della volta di Sant’Ignazio, ma finisce per debordare nel mondo reale che accoglie ciò che i dipinti suggeriscono. Questa l’idea alla base del programma iconografico della volta. L’ordine dei gesuiti, con Gaulli prima e con Pozzo poi, aveva cercato d’esprimersi non più soltanto con la parola scritta, ma anche col mezzo dell’arte visiva.
Quella cui s’assiste dentro la chiesa di Sant’Ignazio non è solo un’opera d’arte: è una visione del mondo nuova, oltre che una visione artistica nuova. Anche l’arte del Rinascimento aveva prodotto capolavori d’illusionismo pittorico, sfondamenti di volte e pareti, ma se gli sfondamenti rinascimentali fondavano la loro misura sulla centralità dell’essere umano, nel barocco è il divino che torna a essere misura dell’arte, misura della realtà, misura della vita. Nell’arte barocca esiste un senso dell’infinito ch’è invece del tutto assente nell’arte del Rinascimento: è, se vogliamo, anche un riflesso delle scoperte scientifiche, della consapevolezza dell’infinità dell’universo. Questo interesse per l’infinito non poté non riflettersi nell’arte: si assiste dunque, ha scritto Nicola Spinosa, a “un continuo alternarsi, contrapporsi e concatenarsi di negazioni e affermazioni di spazi reali o concretamente definibili, attraverso una straordinaria tecnica di trasformazione della materia in energia e dell’energia in spazio in continua espansione, alla cui configurazione visiva concorrono unitariamente gli stessi elementi finiti, reali, dell’ambiente in cui ci si muove”. Affreschi come quelli di Gaulli e Pozzo si ponevano lo scopo di ricordare al fedele che quell’infinito, che poteva provocare un senso di forte disorientamento dal momento che l’essere umano cominciava a fare i conti con la sua limitatezza, con la sua insignificanza rispetto all’ordine di cui s’era accorto d’esser parte, rimaneva infuso della presenza rassicurante della divinità, di una luce alla quale aggrapparsi, una luce che uomini e donne del Seicento ritenevano capace d’irradiarsi ovunque.
Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta
Gli articoli firmati Finestre sull'Arte sono scritti a quattro mani da Federico Giannini e Ilaria Baratta. Insieme abbiamo fondato Finestre sull'Arte nel 2009. Clicca qui per scoprire chi siamo