di
Federico Giannini
(Instagram: @federicogiannini1), scritto il 10/11/2018
Categorie: Opere e artisti / Argomenti: Arte contemporanea - Emilia Romagna - Modena
Andrea Chiesi, uno dei più interessanti pittori contemporanei, trasfigura il reale nelle sue vedute di periferia e nelle sue rovine contemporanee, tra Caspar David Friedrich e i CCCP.
Lo studio di Andrea Chiesi (Modena, 1966) è in un casolare alle porte di Modena, appena lasciata la città, al limitare d’una campagna che si perde tra la Secchia da una parte e la provinciale che porta a Carpi dall’altra: un luogo come sospeso, tra lo sferragliare continuo della tangenziale poco lontana e il fruscio del vento che agita gli olmi lungo il fiume e che, un poco alla volta, sostituisce il frastuono della strada, man mano che ci s’addentra nei campi. Già il solo atto d’arrivare nello studio di Andrea Chiesi è una specie di viaggio nel viaggio, denso di lirismo, specie se compiuto alle soglie dell’autunno e sul far della sera, quando i primi freddi scuotono l’aria e una lieve foschia scende a rendere ancor più tremula la luce della luna. Dietro sembra quasi ci sia la regia d’un Giovanni Lindo Ferretti che scandisce una sua nenia: “svanisce la città, sfuma il traffico, s’impone la poesia, s’alza la luna, sale, decolla”. Gli affreschi che cominciano a farsi largo nella nostra immaginazione finiscono poi col materializzarsi appena si varca l’uscio dello studio: sulla parete d’ingresso è appeso un dipinto del 2016, il numero 32 della serie Karma (Chiesi è sempre stato uso a lavorare per serie), che ritrae, con la tavolozza scarna tipica dell’artista emiliano (nella maggior parte dei suoi dipinti è arduo contare più di quattro o cinque colori), un corridoio d’un edificio abbandonato, e sulle piastrelle che ricoprono la porzione inferiore della parete s’adocchia quello ch’è forse il più celebre distico di Ferretti: “io sto bene / io sto male”. La condizione d’una generazione racchiusa in due versi, il rovesciamento dell’immagine d’un decennio in una sintesi di sole sei parole, il sostrato esistenziale d’una cultura che quelli della mia generazione hanno potuto conoscere soltanto leggendo qualche libro, ascoltando i dischi o tutt’al più i racconti di chi c’era: questa la base da cui è nata e s’è sviluppata l’arte di Andrea Chiesi.
In tutte le sue biografie si legge che s’è formato da autodidatta, frequentando la scena punk e i centri sociali dell’Emilia paranoica degli anni Ottanta (impossibile non citare il Tuwat di Carpi), lavorando a stretto contatto coi musicisti indipendenti, compiendo i suoi esordî come disegnatore e illustratore, raccontando sulla carta, con segni fluidi ma animati, forti e quasi brutali, il sentito, i miti, le ansie di quella controcultura. Gl’inizî del suo percorso artistico sono colmi di figurette in bianco e nero à la Raymond Pettibon e che però, com’era tipico di molti artisti punk italiani, spesso s’ammantano d’accenti fortemente espressionisti, che guardano alle avanguardie tedesche ma anche a periodi precedenti (certe sue figure delle prime fasi della carriera richiamano alla mente i corpi di Schiele): non è un mistero il fatto che l’Emilia degli anni Ottanta subisse il fascino dell’estetica dell’Europa dell’est. Così, ben presto, quelle figure tracciate da contorni netti cominciano a perdere la loro individualità, iniziano quasi a fluttuare nel vuoto, assumono un innaturale colorito violaceo, sono pervase da un erotismo palpabile anche laddove non è reso esplicito, e seguitano a popolare l’arte di Chiesi anche a distanza d’anni, benché entro una dimensione più intima e privata, sui taccuini. Sono figure che cadono, si rialzano, s’accoppiano, veleggiano su di un vuoto cupo, talora comunicano l’impressione che siano frutto di lunghe meditazioni, talaltra paion quasi tracciate di getto, qua e là un testo ad accompagnare l’immagine (immancabili le citazioni dei CCCP), la composizione è sempre felice, ben bilanciata e organizzata secondo regole solidamente disciplinate, lo sguardo sembra quasi quello d’un regista più che quello d’un pittore, data la propensione di Chiesi a giocare ogni volta con le inquadrature, a sperimentare tagli inediti, a catturare il riguardante con bruschi cambi di prospettiva, zoomate, carrellate.
Sarebbe fin troppo facile sottolineare che si tratta d’una pittura fortemente intrisa d’umanità (oltre che d’amore) e che s’interroga sulla condizione della nostra esistenza. In parte forse è vero, ma la pittura di Andrea Chiesi è oltremodo complessa e si presa a molteplici livelli di lettura, e questo soleva accadere financo nelle sue prime opere. Lo stesso rapporto tra pieni e vuoti trascende il mero elemento tecnico. Il vuoto nelle opere di Chiesi, dalle prime realizzazioni degli anni Ottanta fino agli ultimi lavori, ha un valore, rimanda all’inconscio, all’esoterico, al mistico. Ma la sua pittura è anche indissolubilmente legata alla realtà: in un testo pubblicato nel 2003, Sarah Cosulich Canarutto, a proposito d’alcuni lavori di quel periodo, scriveva che le opere di Chiesi sono al contempo pervase da un certo senso religioso e tuttavia ancorate al reale, seppur per mezzo d’un processo di distillazione e sublimazione. Summa di queste prime esperienze fu l’Apocalisse di Giovanni, un progetto del 1998 che Chiesi mise in atto a Reggio Emilia, in compagnia degli allora CSI, evoluzione dei CCCP: nei chiostri di San Pietro, l’artista dispose i suoi fogli realizzati per l’occasione, e la sera dell’inaugurazione i CSI, in testa il solito Ferretti (e in quell’occasione privi però di Massimo Zamboni) misero in scena una sorta di performance durante la quale Ferretti declamava versi spostandosi da una sala all’altra, davanti alle opere di Chiesi. E forse il senso di quelle figure è riassumibile in alcuni di quei versi: “nomadi erranti, e più erriamo, più siamo lontani dal vero. Così siamo noi, nomadi erranti, e pascoliamo il nostro gregge di pensieri sugli altipiani dell’anima, sottraendoli ai lupi della notte”. E ancora: “bisogna ardere o stare alla larga, consultare le autorità, arruolarsi nei vigili del fuoco, stare alla larga”.
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Andrea Chiesi, Karma 32 (2016; olio su lino, 50 x 70 cm)
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Andrea Chiesi, uno dei primi disegni
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Andrea Chiesi, uno dei primi disegni
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Andrea Chiesi, Ogni cosa rimane nella mente di dio (1995; inchiostro su carta, taccuino di 36 pagine, 16 x 11 cm)
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Andrea Chiesi, Curami (1998; inchiostro su carta, 200 x 210 cm)
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Andrea Chiesi, L’Apocalisse di Giovanni III (1998; inchiostro su carta, taccuino di 36 pagine, 24 x 21 cm)
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Raymond Pettibon, The Observable World (1985; libro d’artista in stampa litografica, 21,6 x 14 cm; New York, MoMA)
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Egon Schiele, Mann und Frau (Umarmung) (1917; gouache e matita nera su carta, 48,9 x 28,9 cm; Collezione privata)
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Dopo quell’esperienza, la pittura di Andrea Chiesi ha preso altre vie, ma non sono mai venute meno la volontà di continuare a utilizzare il quadro come mezzo di rappresentazione del sé e del reale sublimato, e la volontà di proseguire la ricerca d’una sorta di Gesamtkunstwerk contemporanea, sincera, urbana, ancora a tinte punk (perché del resto il punk, benché ormai fagocitato dalla moda e dal marketing, è anzitutto uno stile di vita). Solo che l’Apocalisse non prende più le forme d’esseri umani che galleggiano nel vuoto, ma si manifesta nelle architetture abbandonate, nei luoghi solitarî, negli edificî in rovina delineati con pulitissima nettezza, con rigore prospettico da maestro del Rinascimento, dopo un accurato lavoro eseguito a partire dal mezzo fotografico e che conduce alla trasfigurazione del dato oggettivo: la presenza umana è accantonata (e sopravvive, semmai, nei taccuini), perché quei luoghi desolati parlano già da loro, senza necessità di figure che aggiungano alcunché, che trasformino il quadro in un racconto. Non è questo l’obiettivo. Semmai, una qualche narrazione (ammesso la si voglia per forza trovare, ammesso sia così necessario voler scorgere una trama più che un senso nella pittura di Chiesi) è piuttosto racchiusa entro le rovine. L’uomo era presente in questi paesaggi, e la sua assenza adesso acuisce il senso di rovina di questi luoghi. L’attitudine è quella del pittore romantico che si reca a visitare le rovine (e Chiesi lo ha sempre fatto: fin dagli anni Ottanta sue fonti d’ispirazione sono le fabbriche abbandonate, le periferie degradate, gli edificî industriali in disuso, le stazioni di servizio pericolanti, prima ancora che la cosiddetta urban exploration divenisse una specie di moda vuota e frivola) e che, in quest’attrazione per le rovine, diventa complice della natura, com’ebbe a scrivere Georg Simmel, perché il suo modo d’operare diviene contrapposto a quello che caratterizza l’essenza stessa dell’uomo.
Manca però la componente tragica, commovente, e subentra quella politica (ovviamente nel senso più elevato del termine), dacché molti dei luoghi che Chiesi sceglie di trasfigurare con la sua pittura sono luoghi carichi d’un vissuto sociale che, in certo modo e sotto certe forme, è ancora forte e pulsante. Si guardino le opere della serie Kali Yuga, per esempio: raffigurano scorci dell’ex acciaierie di Cornigliano, periferia ovest di Genova. Strutture industriali dismesse dove sono trascorse vite di lavoratori, frenetici centri di produzione, luoghi di lotte e rivendicazioni. La pittura di Chiesi, tuttavia, non è mera documentazione, il suo non è un lavoro fotografico. La pittura ingabbia il tempo, ne rallenta il corso (anche nella concretezza della prassi quotidiana: quand’ho visitato il suo studio, e ho visto un’opera ancora in esecuzione, Andrea m’ha spiegato che possono occorrere anche alcuni mesi prima che porti a termine un singolo quadro), lascia emergere l’identità del luogo (l’ex acciaieria di Cornigliano non è un’acciaieria qualunque, ma è quell’acciaieria, con la sua storia, le sue vicissitudini, i trascorsi dei singoli che vi hanno lavorato), e spesso i luoghi abbandonati sono come pervasi da una luce metafisica che offre una nuova possibilità di vita. In buona sostanza: non documenti, ma visioni. Lo stesso titolo Kali Yuga, del resto, in sé contiene il germe dell’attesa, della rinascita: l’artista ha più volte spiegato che Kali Yuga, l’età di Kali, nella religione induista è l’epoca attuale, “un’era tenebrosa e oscura”, per usare le stesse parole di Andrea Chiesi, “caratterizzata da numerosi conflitti e da una diffusa ignoranza spirituale. Si assiste ad uno sviluppo della tecnologia materiale contrapposto a un’enorme regressione spirituale e ad una generale diffusione di falsi dèi, idoli e maestri. Kali Yuga è l’ultima delle quattro Yuga e terminetà con la fine del mondo come lo conosciamo. Seguirà una nuova Satya Yuga, o Età dell’oro e il ritorno della Terra ad un paradiso terrestre”. L’abbandono si traduce in poesia e, attraverso quelle tonalità cupe, sul blu scuro, invita all’introspezione e alla meditazione: il blu, sosteneva Kandinskij, è il colore dei significati profondi, e la sua propensione alla profondità è tanto più viva quanto più intensa è la sua tonalità.
Ma le imponenti strutture architettoniche di Andrea Chiesi s’accendono anche di significati simbolici densi e talvolta inaspettati. S’avverte un senso di precarietà quando ci si domanda quale sarà la fine cui saranno destinati gli oggetti che Chiesi raffigura nei suoi dipinti. C’è un certo grado di malinconia, se è vero che la malinconia è quel “cartello indicatore di una geografia cancellata” di cui parlava Luigi Ghirri, fotografo anch’egli emiliano e parimenti affascinato dai paesaggi desolati. C’è lo stesso rapporto dell’uomo con le rovine, che assumono contorni epici, com’era in Anselm Kiefer, che Chiesi cita tra i suoi riferimenti culturali (“in Kiefer”, ha precisato l’artista in un’intervista a Simone Menegoi, “ritorna il tema della solennità, dell’epicità, che io sento quando dipingo quella che era una stazione di servizio e che diventa un monolite sospeso, una divinità oscura, legata al nostro tempo tecnologico, ma anche - forse perché è nera - a qualcosa di arcaico, di tribale”). C’è la complessità del presente, cui fanno riferimento le fitte trame geometriche d’una torre in acciaio, d’un colonnato, dello scheletro d’un capannone, e la cui perfezione formale che sfiora l’astrazione (e sulla quale si concentra l’attenzione lenticolare di Andrea Chiesi) si fa metafora delle tante trame che animano il mondo, oltre che la nostra mente: certe sue opere ci riportano quasi alle Carceri d’invenzione di Piranesi, anche se di quel senso d’impotenza che traspariva dalle fantasticherie del veneto non v’è che un barlume, e benché in Andrea Chiesi si configuri la possibilità d’un ordine (o almeno questa è la percezione). C’è la riflessione sulla memoria, che è poi una costante nell’arte del pittore modenese, e non è raro che assuma le sembianze delle tante vedute d’interni di biblioteche o archivi che nelle sue mostre (oltre che nel suo studio) s’alternano ai paesaggi urbani: la memoria, che negli archivi e nelle biblioteche s’accumula e si sedimenta, è il mezzo che blocca la totale desolazione, restituisce vita alle cose e inchioda chi le osserva al presente costringendolo a pensare al futuro. “Sieh zu wie die Zeit zerfällt vor unseren Augen”, urlava la voce di Blixa Bargeld in un pezzo degli Einstürzende Neubauten (che peraltro, tradotto alla lettera, significa “nuovi edificî che crollano”). “Guarda come il tempo va in rovina davanti ai nostri occhi”: anche nelle opere di Andrea Chiesi c’è questa sorta d’invito a guardare le rovine, la tensione emotiva che traspare dalle sue opere è assoluta e tangibile e la dimensione contemplativa è cercata e voluta dacché insita nello stesso medium pittorico. Ma la contemplazione ha connotati positivi, sottolineati da molti di coloro che si sono occupati dell’arte di Andrea Chiesi. Perché impone una riflessione, obbliga a farsi domande, sprona chi osserva a immaginare un futuro oltre le rovine.
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Andrea Chiesi, Siderale 26 (2000; olio su tela, 100 x 150 cm)
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Andrea Chiesi, Tempo 52 (2005; olio su lino, 100 x 140 cm)
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Andrea Chiesi, Kali Yuga 13 (2006; olio su lino, 25 x 35 cm)
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Andrea Chiesi, Kali Yuga 29 (2006; olio su tela, 100 x 70 cm)
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Andrea Chiesi, Ombra 13 (2009; olio su lino, 100 x 140 cm)
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Andrea Chiesi, Perpetuum 17 (2011; olio su lino, 35 x 50 cm)
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Andrea Chiesi, Ucronie 26 (2013; olio su lino, 35 x 50 cm)
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Andrea Chiesi, Eschatos 9 (2018; olio su lino, 100 x 140 cm)
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Anselm Kiefer, Interior (Innerraum) (1981; olio, acrilico e carta su tela, 287,5 x 311 cm; Amsterdam, Stedelijk Museum)
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Giovanni Battista Piranesi, Il pozzo, dalla serie Carceri d’invenzione, seconda edizione, tavola XIII (1761; incisione, 56,5 x 80,3 cm; Boston, Museum of Fine Arts)
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Nelle opere più recenti, la natura è tornata a impossessarsi delle architetture: quella complicità di cui scriveva Simmel ancora si compie in alcuni dei lavori più nuovi di Andrea Chiesi. Non che prima fossero mancati i paesaggi naturali, o i paesaggi dove tracce umane (ancorché banali e quotidiane) e scenarî della natura fossero in equilibrata compresenza: nel 2003 quelle campagne modenesi così familiari, così apparentemente banali ma in realta così profondamente legate a un senso dello scorrere del tempo che l’artista vuole fermare sulla tela, erano le protagoniste d’un ciclo, La casa, creato a partire da un video che Chiesi aveva girato l’estate di quell’anno proprio fuori dalla sua abitazione (da cui il titolo della serie). Ne erano sortiti dei quadri anch’essi densi d’una struggente poesia che eleva il quotidiano, sintetizza il tempo, tesse una trama fitta d’emozioni semplici ma ancora capaci di trasfigurare il reale, anche solo in un ricordo, in un’esperienza: un parcheggio tra i campi illuminato dalla luce abbagliante d’un lampione, giochi di nubi à la Turner che s’addensano sopra i tralicci dell’alta tensione o inghiottono un orizzonte sfocato, un fulmine che squarcia una notte in apparenza tranquilla, un boschetto che fa da cupa cornice a un parco giochi avvolto dal chiarore delle luci elettriche. La componente naturale, si diceva, ha qua e là punteggiato la produzione di Andrea Chiesi: adesso, tuttavia, se ne appropria secondo modalità che tornano con rinnovato vigore, o che si propongono tout court come inedite.
Anzitutto, la riappropriazione degli spazî da parte della natura avviene col tramite delle riflessioni: nel dipinto numero 7 della serie Eschatos del 2018, una vasta pozzanghera d’acqua riflette il tetto scoperchiato, in accaio, d’un capannone, col risultato che, chiamando ancora in causa Ferretti, “il cielo è sopra e sotto” e l’acqua si tramuta in uno specchio, con tutto ciò che ne consegue a livello simbolico. E poi, è la natura stessa che entra nelle architetture: in Eschatos è ricorrente l’elemento della finestra aperta su di un giardino invaso da erbacce che talvolta s’arrampicano sui vetri, sugli stipiti, sulle pareti. La necessità di tornare alla natura dopo i fumi della civiltà era propria dell’artista romantico, e sembra delinearsi anche nell’arte di Andrea Chiesi (che del resto nella natura abita e lavora). Ed esattamente com’era per gli artisti romantici, anche per Andrea Chiesi la finestra è l’elemento di raccordo. “Emblema della visione romantica della realtà”, ha scritto di recente Fernando Mazzocca, grande studioso del Romanticismo, la finestra diventa la lente attraverso la quale l’artista vede oltre il suo studio e, pertanto, è il mezzo con cui restituisce la propria “visione fortemente interiorizzata” della realtà. Come la finestra è il luogo da cui Leopardi guarda il cielo, le aiuole, i viali del giardino antistante il palazzo di famiglia, ed è dunque l’elemento attraverso il quale la vista può ispirargli i “dolci sogni” vagheggiati nelle Ricordanze, allo stesso modo, ricorda Mazzocca, per i pittori la finestra è uno strumento d’osservazione che finisce col diventare un loro autoritratto: è “la magica soglia che li separa dal reale”, limite tra l’io e l’esterno, tra il vissuto e il sentito.
Dal racconto di Kurt Waller, giornalista che ai primi dell’Ottocento scriveva su di un foglio viennese, sappiamo che Caspar David Friedrich lavorava in uno studio da cui si godeva d’un “panorama celestiale” sull’Elba, il fiume che bagna Dresda. Appena fuori dalla finestra di Friedrich, s’apriva una vista meravigliosa: parchi verdeggianti, il brulicante lungofiume, il centro della città. Eppure, quella veduta tanto decantata dal giornalista risulta appena accennata in alcuni dei dipinti dell’artista eseguiti dall’interno dello studio, e che hanno per protagonista proprio quella finestra: il paesaggio dell’Elba, oltre la finestra di Friedrich, è inondato d’una luce tersa e appare lontano, inarrivabile. Il paesaggio reale è trasfigurato in un inappagabile desiderio d’infinito, e la finestra è al contempo varco che l’artista non riesce a superare, ma è anche uno strumento oltre il quale vedere mondi nuovi e inesplorati. Questo desiderio s’era fatto ancor più ardente e impossibile allorché l’artista tedesco, gravato da condizioni di salute precarie, si recò a Teplitz (l’odierna Teplice in Repubblica Ceca) per trarre beneficio dalle cure termali: la natura rigogliosa che s’intravede in una veduta dalla finestra del suo albergo fa sì che la finestra stessa assurga a simbolo d’una nostalgica presa di coscienza dell’irraggiungibilità d’una meta. Forse in Chiesi manca la vertigine del Sehnsucht, ma si percepisce ch’esistono un mondo al di qua della finestra e un universo totalmente differente una volta oltrepassata la soglia. Due mondi separati anche visivamente: le ordinate geometrie della finestra e il fertile scompiglio della natura.
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Andrea Chiesi, Sabato 19-07-03 (2004; olio su tela, 100 x 140 cm)
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Andrea Chiesi, Venerdì 26-09-03 (2004; olio su tela, 100 x 140 cm)
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Andrea Chiesi, Eschatos 7 (2018; olio su lino, 140 x 100 cm)
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Andrea Chiesi, Eschatos 11 (2018; olio su lino, 70 x 50 cm)
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Caspar David Friedrich, Finestra con vista su un parco (1836-1837; grafite e seppia su carta, 398 x 305 mm; San Pietroburgo, Ermitage)
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La pittura di Andrea Chiesi è comunque sempre un alternarsi di soglie, è sempre una ricerca costante in continua evoluzione: nella sua produzione non esiste mai niente che sia uguale a un qualcosa realizzato in precedenza. Una serie, una volta terminata, è destinata a non tornare, perché cede il posto a nuove e più urgenti e pressanti sollecitazioni, magari derivanti da un viaggio o da un’esperienza inedita, e che finiscono coll’impedire all’artista di tornare sul passato. Claudio Musso, che di Andrea Chiesi ha curato una recente mostra personale del 2016 a Bologna, ha scritto che, nella sua opera, “il ritmo dell’osservazione è scandito dall’attraversamento di soglie, una di seguito all’altra”. Porte, finestre, tende, ponti, linee ferroviarie, strade sopraelevate: presenze che s’affastellano “occupando l’estensione dello spettro visivo e insieme descrivendone lo sviluppo lineare”. Presenze che trovano un corrispettivo concettuale nel modus operandi dell’artista, il cui immaginario s’arricchisce in continuazione d’immagini nuove, ponderate a seguito di lunghe e lente meditazioni. Un processo necessario per quella trasfigurazione del reale che Andrea Chiesi cerca con costanza. E in tutto ciò si coglie anche una dimensione profondamente intima.
Una dimensione che, immancabilmente, m’incuriosisce. Quando s’osservano i dipinti con i capannoni abbandonati che s’estendono fin quasi ad occupare l’orizzonte visivo, spesso si ha la sensazione di trovarsi al centro della navata d’una grande cattedrale gotica. O forse è semplicemente una sensazione provocata da quel senso di misticismo che inesorabilmente aleggia tra le rovine di Chiesi. Gli domando dunque se c’è un tentativo d’instaurare un qualche rapporto con chi si trova ad ammirare le sue opere, se c’è un messaggio diretto rivolto all’osservatore, se la capacità d’evocare certe impressioni è voluta. La sua risposta è negativa: in quei dipinti, ognuno di noi può veder quel che vuole, ogni sensazione è valida, ogni riferimento degno d’esser discusso. L’arte, ha dichiarato Andrea Chiesi nella summenzionata intervista con Simone Menegoi, non deve svelare. Deve lasciare il mistero.
Andrea Chiesi è nato a Modena il 6 novembre de 1966. Vive e lavora in località San Pancrazio a Modena. Formatosi da autodidatta e senza aver studiato presso Accademie, ha cominciato la sua carriera come illustratore e disegnatore ed è quindi approdato alla pittura. Al suo attivo ha residenze a New York, Berlino e Pechino, ed è vincitore del V Premio Cairo (2004), del Gotham Prize 2012, del I Premio Terna (2008) e del XXXVIII Premio Suzzara (1998). Ha collaborato, tra gli altri, con Giovanni Lindo Ferretti, con gli scrittori Emidio Clementi, Giorgio Casali, Ugo Gornia e Simona Vinci, e coi gruppi musicali C.S.I Consorzio Suonatori Indipendenti, Massimo Volume e Officine Schwartz. Sue personali si sono tenute in diverse gallerie in Italia e all’estero, e ha esposto alla sezione “Emilia Romagna” del Padiglione Italia della Biennale di Venezia del 2011, alla Biennale Italia-Cina del 2016 e del 2014, oltre che in collettive alla Galleria Estense di Modena, alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, alla Fondazione Cini, al Palazzo Reale di Milano e in diversi altri musei.
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L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).