In una delle scene più importanti del fim Paris, Texas (1984) di Wim Wenders, il protagonista Travis consegna al fratello una fotografia sciupata che ritrae il deserto del Texas nel mezzo del quale spicca un cartello in legno con una scritta, for sale. È il pezzo di terra che aveva acquistato qualche anno prima: si trova nella città di Paris, in Texas (da cui il titolo della pellicola), dove Travis era stato concepito, e per meglio trovare le proprie origini aveva deciso di impossessarsene fisicamente. Uno dei tratti salienti della cultura americana, secondo Wim Wenders, è la necessità di costruire, e la costruzione può iniziare anche semplicemente da un segno, da un cartello: è l’idea alla base della fotografia Western World Development, che è del tutto simile a quella che vediamo in Paris, Texas. Con la differenza che il deserto è quello della California e le scritte quasi sbiadite del cartello recitano “Western World Development. Tract 8271”. È come se lì, tra rocce, sabbia e arbusti, qualcuno avesse voluto porre le premesse per un qualcosa di grandioso, che poi non è stato realizzato. L’immagine diventa quindi, come in Paris, Texas, il mezzo sia per mostrare un luogo o una situazione, sia per raccontare una storia.
Wim Wenders, Western World Development, Near four corners, 1986 |
L’America di Wim Wenders è un’America che va al di là dei luoghi comuni. La sua fotografia è calda, brilla spesso di una luce abbacinante come quella del deserto texano, offre sprazzi di luminosissimo cielo azzurro. Ma (e questo sarà ben compreso da chi, ancora, ha visto Paris, Texas) il senso che ne ricaviamo non è quello di allegria, felicità. C’è sempre un’anima inquieta che accompagna le fotografie di Wim Wenders: un po’ come avviene nella pittura di Edward Hopper, dove le immagini trasmettono un forte senso di malinconia. La Las Vegas di Wim Wenders, per esempio, non è quella del Nevada con i suoi casinò, le sue coloratissime insegne al neon, la sua brulicante vita notturna, la sua vocazione al vizio e alla dissolutezza. La Las Vegas di Wim Wenders è un piccolo centro del New Mexico, dove sulle strade polverose si susseguono negozi sì colorati con tinte forti, ma vuoti: nella strada non c’è nessuno. Un viaggio desolante, la cui colonna sonora non sono le allegre canzoni country dello stereotipato deserto americano, ma piuttosto le sconsolate steel guitar di Ry Cooder, che non a caso firmò le colonne sonore di Paris, Texas.
Wim Wenders, Entire family, Las Vegas, New Mexico, 1983 |
Wim Wenders, Cowboy bar |
Tuttavia, anche se le strade sono vuote e le persone difficilmente vengono raffigurate nell’opera fotografica di Wim Wenders, sono molto rare le fotografie in cui la presenza umana non sia percepita. Ogni fotografia di Wim Wenders raffigura sempre un oggetto, una costruzione, un edificio realizzati dalla mano dell’uomo. Questa presenza si rifà in qualche modo a un concetto che ha sempre permeato la storia dell’arte, vale a dire la caducità dell’esistenza, che nelle fotografie di Wim Wenders coinvolge anche gli oggetti creati dall’uomo. Nel deserto americano, le pompe di benzina, le stazioni di servizio, i bar lungo le autostrade, sono elementi tipici del paesaggio, risalenti perlopiù a un’epoca in cui i viaggi in aereo o non esistevano ancora o non potevano essere appannaggio di tutte le classi sociali, e l’unico modo per spostarsi da una parte all’altra del paese in modo economico era l’automobile. A ciò si aggiunga il fatto che molte attività estrattive sono andate incontro alla chiusura, comportando quindi lo spopolamento di villaggi e cittadine. E inoltre, la facilità dei viaggi in aereo ha portato gli americani a spostarsi sempre più verso le coste. Ecco quindi che una foto come Cowboy bar ci trasmette questo senso di una civiltà che “arriva, si sofferma un poco, e poi scompare”, per dirla con le parole di Wim Wenders che troviamo in un’intervista pubblicata nel volume Written in the West del 1987, che documentava, con fotografie, lo scouting delle ambientazioni di Paris, Texas. Una civiltà che probabilmente non tornerà: è un’America che si è ormai dissolta, è il ricordo di un preciso periodo della storia.
E questa dissolvenza va anche d’accordo con ciò che Wenders pensa della fotografia. È una riflessione profonda: il nostro desiderio di scattare una fotografia si avverte solo quando vediamo un paesaggio o un edificio per la prima volta. Quando torniamo nello stesso luogo o di fronte allo stesso edificio, difficilmente ci verrà voglia di scattare di nuovo una fotografia: è una sensazione che avremo provato quasi tutti. La storia di quell’oggetto che fotografiamo finisce, per la fotografia, nel momento in cui l’oggetto viene trasformato in immagine. Ed è per questo che la fotografia diventa metodo per esplorare e per scoprire. E questa esplorazione può essere condotta nei modi e sui temi che ogni fotografo ritiene più opportuni: Wim Wenders ha deciso di condurre la sua esplorazione su questa sorta di America interiore e inquieta. Anche laddove ci imbattiamo in quello che è forse il simbolo più alto del progresso made in USA, i grattacieli, l’attenzione di Wim Wenders si sofferma su una donna seduta sul davanzale di una finestra: la notiamo appena, se messa a confronto con l’imponenza dei palazzi e dei grattacieli. Ma diventa il punto focale della fotografia: e così, più che ammirare la grandiosità delle architetture, siamo portati a chiederci a cosa starà pensando quella donna, e perché il suo sguardo sembra fisso nel vuoto.
Wim Wenders, Woman in the window, 1999 |
Tutte le fotografie che abbiamo visto sin qui sono esposte, fino al 29 marzo, presso la Villa Panza di Varese, in una mostra dal titolo Wim Wenders. America che espone trentaquattro fotografie realizzate dal regista tedesco. La mostra, curata da Anna Bernardini, direttore di Villa Panza, è stata realizzata in collaborazione con il FAI (Fondo Ambiente Italiano) ed è accompagnata da un ciclo di incontri, conferenze e proiezioni cinematografiche: un’occasione da non perdere per chiunque fosse interessato ad approfondire i legami tra Wim Wenders e l’America. Oltre che per scoprire le fotografie di un grande regista.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).