Sì, è vero: il titolo di questo articolo è volutamente provocatorio. Forse è però questo il modo migliore per rendere il giusto tributo alla figura di Alessandro Magnasco (Genova, 1667 - 1749) che, non ne facciamo mistero, è uno dei nostri pittori preferiti. Perché se è eccessivo attribuirgli sentimenti davvero anticlericali, almeno secondo la nostra prospettiva contemporanea, è d’altra parte vero che una certa dose (anzi: un’alta dose) di provocazione è insita nella sua arte. Questo aspetto è quello che più d’ogni altro emerge dalla mostra Alessandro Magnasco. Gli anni della maturità di un pittore anticonformista, visitabile presso il Museo di Palazzo Bianco a Genova fino al 5 giugno 2016. Uno dei meriti dell’esposizione è quello di lasciare all’osservatore la possibilità di individuare, in un discorso di fondo in cui, a essere onesti, è piuttosto facile perdere il bandolo della matassa, un percorso che scorre carsicamente tra le opere lasciando intravedere l’atteggiamento dell’artista genovese nei confronti delle varie declinazioni a cui la religione veniva sottoposta dai suoi contemporanei.
E si parte con una dichiarazione d’intenti ben precisa, ovvero: la dissipazione e l’ignoranza distruggono le arti e le scienze. Con questo titolo è nota una sua tela moraleggiante, tanto gustosa quanto inquietante (e, per certi versi, molto attuale) nella quale vediamo un asino, immediato simbolo d’ignoranza, e una scrofa, allegoria della dissipazione, che con ferocia s’avventano su cavalletti, libri, compassi, mappamondi (che alludono alle arti e alle scienze), con massimo sconcerto del pittore e dello scienziato, travolti dalla furia delle bestie. Parimenti travolta è l’allegoria del Tempo: l’alato vegliardo, sconfitto, ferito e umiliato dall’ignoranza, se ne va appoggiandosi a un paio di stampelle e rivolgendo un ultimo sguardo sconsolato verso lo sfacelo che si consuma alle sue spalle. Più indietro, un uomo riverisce un asino assiso su un trono, incensandolo: chiaro (e, ancora, attualissimo) esempio di come spesso sia l’ignoranza a salire al potere. Gli specchi, onnipresenti, ci forniscono un suggerimento su chi sia uno dei principali responsabili della devastazione: la vanità, ulteriormente simboleggiata dal cinghiale che si ammira sulla superficie riflettente, e impossessatasi totalmente di un’aristocrazia frivola e disimpegnata, riunita attorno a un tavolo e occupata a perder tempo. Non è difficile, riconoscere tra le figure che siedono attorno alla cortigiana impegnata a far gli onori di casa, un prete che s’abbandona lascivo sulle spalle della donna, un cavaliere preso dalle gozzoviglie e completamente dimentico della spada, che lascia penzolare giù dalla sua sedia, e un giurista troppo affaccendato a osservare la partita di carte tra la padrona di casa e un giovane damerino per pensare alla sua professione.
Alessandro Magnasco, La dissipazione e l’ignoranza distruggono le arti e le scienze (1735-1740 circa; olio su tela, 62,3 x 91,5 cm; collezione privata) |
Proprio in questo dipinto della seconda metà degli anni Trenta troviamo le poco edificanti premesse che ci conducono in un breve viaggio costantemente in bilico tra due poli distanti, che Alessandro Magnasco descrive con il suo occhio cinico e narrativo, e con la sua pennellata agile, veloce e spesso capace di farsi grumosa, che gli permette di costruire le sue tetre figurette, comparse d’un dramma teatrale al quale non possono sottrarsi. Due poli distanti, ma accomunati da un unico denominatore: quello della miseria, che è aridità e miseria morale nei dipinti che mostrano conventi trasformati quasi in residenze di piacere dove la futilità ha soffiato il posto alla preghiera e al raccoglimento, e che è invece miseria materiale nelle composizioni in cui lugubri e vecchi monaci dalle tonache logore e consunte cercano di sopravvivere come meglio possono in una realtà fatta di stenti, privazioni, sofferenze.
Una tela di collezione privata, a cui è stato attribuito l’eloquente titolo Scaldatoio, è una delle più esemplificative delle dure condizioni di vita dei frati protagonisti di moltissimi dipinti di Alessandro Magnasco. Una dozzina di monaci avvolti in sai ormai frusti, magri, dai volti scavati, molti dei quali in là con gli anni, si riuniscono attorno a una brace, insufficiente per scaldare tutti, tanto che uno di loro, quello che vediamo in primo piano a destra, preferisce andarsene sulle sue stampelle, con aria imbronciata e con la bocca aperta quasi a emettere una smorfia di disappunto: nonostante la rapidità esecutiva tipica del pittore ligure, ci sembra proprio di immaginarcelo, questo vecchio monaco, mentre incede claudicante protestando per il miserabile accenno di fuoco col quale i confratelli pretendono di riscaldare un ambiente dal soffitto altissimo. E mentre il fumo nero sale verso la rovinatissima cappa del camino, c’è chi soffia col mantice per provare ad alimentare le fiamme, c’è chi stende uno straccio nel vano tentativo di asciugarlo, e c’è chi semplicemente protende in avanti le mani, adunche e spigolose come quelle di quasi tutti i protagonisti delle pitture di Magnasco, per trovare dal calore un minimo di conforto: la capacità narrativa del pittore è tra le più alte di tutto il Settecento. E per meglio sottolineare la povertà di questi frati, Magnasco decide di giocare la composizione quasi esclusivamente sui toni del marrone e del grigio, i colori che forse più ricorrono in questo tipo di produzione: i richiami alla terra e alla cenere alludono significativamente e forse consapevolmente all’umiltà di questi poveri frati.
Umiltà che connota anche i pellegrini in sosta durante il loro cammino per pregare davanti a una cappella di montagna, immersa in uno scenario che ci rivela, casomai ce ne fosse bisogno dato che la produzione di Magnasco abbonda di illustri esempi, anche l’interesse nutrito dal pittore nei confronti del paesaggio, genere per il quale si avvaleva della collaborazione di un pittore di Ancona, Antonio Francesco Peruzzini: il marchigiano realizzava il paesaggio, e Magnasco lo popolava con le figure. In mostra, peraltro, abbiamo un ulteriore saggio di questa collaborazione in una coppia di dipinti (il Sant’Agostino e la Predica di sant’Antonio), concepiti in pendant, separati in virtù dei passaggi collezionistici, e riuniti in occasione dell’esposizione: un’opportunità interessante per veder dunque nuovamente appaiate le due opere. Tornando alla Preghiera davanti a una cappella campestre, è evidente come in questa opera, conservata proprio nelle collezioni dei Musei di Strada Nuova, Magnasco si premuri di sottolineare quanto sia forte il sentimento religioso di coloro che stanno intraprendendo il pellegrinaggio tra questi sentieri: malgrado la fatica e le privazioni del viaggio, i pellegrini trovano comunque le energie per raccogliersi attorno al prete con lo scopo di recitare una preghiera.
Alessandro Magnasco, Scaldatoio (1720 circa; olio su tela, 93 x 62 cm; Venezia, collezione Lapiccirella Brass) |
Alessandro Magnasco, Preghiera davanti a una cappella campestre (1717-1719 circa; olio su tela, 113 x 89; Genova, Musei di Strada Nuova) |
In questi due dipinti, così come in quasi tutte le fraterie (questo il nome con cui sono noti i dipinti a tema monastico di Magnasco), non c’è il benché minimo intento satirico. Anzi: con le sue fraterie, Magnasco assume una forte presa di posizione all’interno di un dibattito attorno alla corruzione degli ordini monastici, che si stava consumando proprio negli anni in cui il pittore realizzava i suoi lavori. Tra le voci che presero parte alla discussione, vi fu quella del frate cappuccino Gaetano Maria da Bergamo (al secolo Marco Migliorini, Bergamo 1672 - 1753), che nel 1750, quindi un anno dopo la scomparsa di Magnasco, pubblicò le Istruzioni morali, ascetiche, sopra la povertà de’ frati minori cappuccini, una summa delle sue idee oltre che dei contenuti delle predicazioni che il religioso da anni andava svolgendo in terra di Lombardia, regione nella quale Magnasco fu a lungo attivo. Gaetano Maria da Bergamo, acceso e fervente sostenitore della povertà monacale (alcuni dei suoi consigli: spogliarsi di ogni bene superfluo, limitarsi a rappezzare le tonache se logore, evitare d’indossare calzature se non strettamente necessarie, e via dicendo), non si limitava a suggerire ai frati un ideale di vita votato a un’evangelica umiltà, dacché obiettivo dei suoi accesi sermoni era anche la dissolutezza del clero. Leggiamo, da una sua predica: “Anche nelle chiese, senza rispetto alla divina maestà, si viene con la lussuria a profanarne la santità. Lussuria qui vi è ne’ pensieri, lussuria ne’ sguardi, lussuria negli abiti, e negl’inchini, e ne’ cenni... ma non posso dir tutto, e dall’istesso non poter dire potrete voi ben intendere quello che avrei da dire”.
Alessandro Magnasco, con irriverenza e carica provocatoria, in certe sue opere sembra quasi voler dar corpo alle parole di Gaetano Maria da Bergamo. E se, ripetiamo, di anticlericalismo è difficile parlare (anche perché la critica di Magnasco è morale, più che politica), l’artista non è comunque tenero verso la rilassatezza dei costumi di certi personaggi afferenti agli ambienti del clero e dei monasteri. Nel dipinto noto come La cioccolata, l’artista ligure rivolge la sua ironia contro un gruppetto di monache che si riposano all’interno di quella che dovrebbe essere la loro cella, ma che di fatto è un sontuoso interno tipico di una dimora signorile: la fame e la povertà paiono bandite da queste stanze, entro le quali le suore si dilettano con strumenti musicali (un violoncello fa bella mostra di sé in primo piano, appoggiato a un mobile) e soprattutto con la cioccolata, vera protagonista del dipinto, che viene sorbita sia dalla monaca che occupa il centro della composizione e che è impegnata a girare la bevanda con tanto di mignolo ben alzato, sia dalla novizia seduta a fianco a lei, riccamente abbigliata e acconciata come una piccola dama, colta peraltro mentre si diverte con un cagnolino. E, ovviamente, ovunque abbondano gli specchi. Il fatto che la cioccolata ricopra un ruolo da protagonista è funzionale alla critica di Alessandro Magnasco: all’epoca la bevanda aveva costi tali da renderla accessibile solo alle classi più agiate, che l’avevano elevata a una sorta di status symbol. Niente di più lontano rispetto all’ideale di vita che Gaetano Maria da Bergamo raccomandava per i monaci.
La scarsa aderenza di frati e suore è ben descritta in un’ulteriore tela, nota come Il parlatorio, che descrive il momento in cui le suore s’affacciano alla grata del parlatorio del loro convento per assistere a un concertino di violoncello, improvvisato da un giovane ben vestito che vediamo in primo piano, e al quale prende parte anche un frate, che vediamo di schiena, e che evidentemente nutre un certo interesse per le donne di là dalla grata: il fatto che un uomo vesta un saio non lo mette certo al riparo dalle tentazioni della carne. Le monache accorrono con visibile diletto, attirate dalla dolcezza della musica e accalcandosi sul parapetto, con ogni probabilità senza disdegnare di lanciare qualche occhiata voluttuosa nei riguardi dell’avvenenza degli ospiti.
Alessandro Magnasco, La cioccolata (1740-1745 circa; olio su tela, 73 x 57 cm; collezione privata) |
Alessandro Magnasco, Parlatorio (1740-1745 circa; olio su tela, 85 x 70; collezione privata) |
In clima di nascente illuminismo, e avvezzo a frequentare una committenza colta e di mentalità sempre più aperta, Alessandro Magnasco avvertiva l’esigenza di proporre una pittura impegnata, volutamente antiaccademica e anticonformista, schierata dalla parte degli ultimi, in aperto dissenso nei confronti delle classi più elevate. La mostra genovese, nonostante i difetti che reca con sé (la poca organicità dell’impianto, che comunque regge, la sostanziale assenza di riferimenti al contesto culturale entro cui l’artista operò, e l’impressione di trovarsi all’interno di una continua réclame del principale promotore dell’esposizione, la Galerie Canesso di Parigi), riesce tuttavia a far emergere questi aspetti della personalità di un artista a cui, per via della sua estrema modernità e per la carica innovativa della sua pittura, si potrà anche perdonare qualche eccesso di moralismo. Varrà comunque la pena di evidenziare che, quando nel 1914 si tenne, a Berlino, un’importante mostra su questo grande artista, lo storico dell’arte Paolo D’Ancona, nel recensire l’esposizione, ebbe a dire che “Magnasco non è un moralista nel vero senso della parola [...]. È piuttosto uno spirito curioso che osserva con occhio indulgente e con predilezione la vita degli esseri umili, che più apprezza perché più vicini alla natura, e questi esseri riesce mirabilmente ad ambientare nel loro mondo, in modo che ne risulta un insieme omogeneo in cui l’uomo e la natura si trovano indissolubilmente congiunti”. Definizione appropriata per uno degli artisti in assoluto più difficili da inquadrare secondo categorie o etichette precostituite.
Alessandro Magnasco. Gli anni della maturità di un pittore anticonformista. Genova, Palazzo Bianco, fino al 5 giugno 2016 |
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).