Percorrendo le sale della Galleria Nazionale delle Marche, ospitata nel celebre Palazzo Ducale di Urbino, non è possibile evitare di soffermarsi di fronte a uno dei pezzi più pregiati della collezione: l’alcova del Duca, che dà il nome alla sala III del percorso, dove forse, un tempo, si trovava proprio la camera da letto del signore. Nel nostro caso, il termine “alcova” non identifica, come solitamente accade, la stanza da letto, bensì un rarissimo pezzo d’arredamento: un grande cubo di legno (misura tre metri e quaranta centimetri in altezza, larghezza e profondità), che aveva la funzione di ospitare, appunto, il letto del duca. Curiosamente, l’accezione comune, quella di “alcova” come “camera da letto”, è più lontana all’etimo originale rispetto a quella dell’alcova del duca, perché letteralmente, in arabo, l’espressione al-qubba significa “tenda da letto”, e il termine designava in origine quella parte della stanza, solitamente separata proprio attraverso una tenda, destinata a ospitare il letto.
Non sappiamo con certezza quando l’opera è stata realizzata, ma è altamente probabile che l’occasione fosse data dalle nozze tra il signore di Urbino, il futuro duca Federico di Montefeltro (Gubbio, 1422 - Ferrara, 1482), all’epoca insignito del titolo di conte, e Battista Sforza (Pesaro, 1446 - Gubbio, 1472), celebrate nel 1460: l’opera risalirebbe più o meno allo stesso anno. Abbiamo però molte certezze. La prima, una delle più importanti: l’alcova del duca è uno dei pochissimi pezzi dell’arredo originario di Palazzo Ducale che siano pervenuti fino ai giorni nostri. La seconda: la sigla “FF” posta sui capitelli delle due lesene che fiancheggiano l’ingresso dell’alcova (da leggersi “Federicus Feltrius”, ovvero “Federico da Montefeltro”) non lascia dubbi sul destinatario dell’opera. La terza: l’opera viene spesso citata nei documenti. Abbiamo una testimonianza di Michel de Montaigne, che la vide nel 1581 (e su questo documento torneremo più avanti), e una citazione in un inventario del 1631 che la descrive come una bossola d’abete con cornice, colonne, rosoni et altri intagli in pezzi n. cinquanta in circa, qual’era nella camera del Bisquadro ducale, dorata et colorita (la Sala delle Udienze del palazzo viene talvolta citata come “camera del Bisquadro” per via della sua forma). Si tratta dell’ultimo documento prima del ritrovamento dell’alcova, che fu rinvenuta, smontata, nei magazzini del sale di Palazzo Ducale (ma diversi frammenti erano stati portati in altre stanze): era il 1894.
Fra’ Carnevale, Alcova del Duca (1459-1460; legno dipinto e dorato, 340 x 340 x 340 cm; Urbino, Galleria Nazionale delle Marche) |
Dopo la “riscoperta”, le varie parti furono depositate nel Salone del Trono affinché potessero essere meglio studiate. Si dovette però attendere fino al 1912 per la ricomposizione dell’alcova: lo storico dell’arte Luigi Nardini scoprì quale fosse la funzione di questo pregiato pezzo d’arredo e decise di posizionarlo nell’appartamento della duchessa. Nove anni dopo, un altro studioso, Luigi Serra, decise di spostare l’alcova nell’appartamento della Jole, il nucleo più antico del palazzo, così chiamato perché il camino della prima stanza è ornato con una scultura che raffigura la mitica Jole, figlia del re di Tessaglia e amante di Ercole. L’ultimo “trasferimento” risale al 1948, quando Pasquale Rotondi spostò l’alcova dalla prima alla terza stanza dell’appartamento della Jole, dove la si può tuttora ammirare. I documenti attestano che l’ambiente fu effettivamente abitato da Federico da Montefeltro, e la scelta di posizionare l’alcova in un angolo della sala era dettata dal fatto che l’opera era forse collocata proprio in un angolo (com’era tipico per pezzi d’arredo del genere). Dicevamo di Montaigne: il filosofo francese ci ha lasciato una descrizione dell’alcova in cui viene citata anche la sua collocazione. Ecco cosa scrisse: en deus de leurs chambres, il s’y voit d’autres chambres carrées en un coin, fermées de toutes pars, sauf quelque vitre qui reçoit le jour de la chambre; au dedans de ces retranchemens est le lit du maistre (“all’interno di due delle loro camere, si vedono delle altre camere quadrate, posizionate in un angolo, che hanno tutte le pareti cieche, fatta eccezione per alcuni vetri che ricevono la luce del giorno dalla stanza, e dentro a queste costruzioni si trova il letto del signore”). Il brano di Montaigne è interessante non solo perché ci fornisce indizi sulla collocazione (anche se non è detto che al tempo di Federico da Montefeltro si trovasse in un angolo: e infatti non tutti gli studiosi sono convinti di ciò), ma anche perché ci informa del fatto che esistevano almeno due opere simili: la seconda (o almeno quella che probabilmente era la “sorella” di quella che vediamo ancora oggi) è citata in un inventario del 1609, e data la mole degli oggetti in essa contenuti è difficile immaginare che si trattasse dell’alcova oggi posizionata nell’appartamento della Jole. Purtroppo però a noi ne è arrivata solo una.
Cerchiamo di osservarla meglio. Di sicuro, non ci è giunta integra: sappiamo che alcune tavole furono reimpiegate per altri usi, e di sicuro nell’opera come la vediamo oggi non c’è traccia, per esempio, dei “rosoni” citati nell’inventario del 1631. Le tre pareti in legno ospitano eleganti lesene che sorreggono una trabeazione composta da un’architrave in finto marmo, un fregio con putti che reggono festoni, e una cornice dorata. Nei capitelli delle lesene troviamo diversi simboli feltreschi: la sigla “FF” di cui si diceva sopra, l’ermellino (simbolo di purezza particolarmente caro alla famiglia), l’aquila (che compare anche nello stemma familiare), la granata che scoppia (simbolo del valore militare del signore), la scopetta (simbolo di integrità morale, probabilmente associato a Battista Sforza), le fiamme (probabile allegoria d’amore) e lo stemma dinastico. Le pareti sono anch’esse ornate con decorazioni che simulano marmi policromi al di là dei quali vediamo stagliarsi alberi carichi di fiori e frutti. Sopra ai marmi, osserviamo anche alcuni uccellini in varie pose. La decorazione con marmi e alberi si ripete anche nella parete di fondo all’interno. La parete d’ingresso ospita invece i soliti finti marmi, però con gli stemmi dei Montefeltro appesi a due ghirlande. C’è da evidenziare che secondo uno studioso, Dante Bernini (seguito poi da altri, come Paolo Dal Poggetto), le pareti con marmi, alberi e uccellini (ovvero quelle con il “viridario”, il giardino recintato, per usare il termine adoperato dallo stesso Bernini), erano rivolte verso l’interno, così che il signore di Urbino potesse addormentarsi fingendo di trovarsi proprio in un rigoglioso giardino di gusto ancora legato alla tradizione cortese: un’ipotesi che sembrerebbe confermata dalle bruciature delle candele usate per illuminare l’interno dell’alcova, che si trovano sui pannelli ora rivolti verso l’esterno. Infine, il soffitto è decorato con un motivo in cui s’intrecciano melagrane e cardi, che simula un raffinato drappeggio.
La parete d’ingresso dell’alcova del Duca |
Particolare dell’ingresso: sulle lesene, notare a sinistra l’impresa dell’ermellino e a destra la sigla FF |
Particolare dell’ingresso: si notino lo stemma feltresco appeso alla ghirlanda e, sulle lesene, a sinistra la sigla FF e a destra l’impresa della granata |
Particolare dell’interno |
Particolare del soffitto |
Particolare della parete con gli alberi e gli uccellini e, nei capitelli delle lesene, gli stemmi dei Montefeltro |
Particolare della parete con gli alberi e gli uccellini e, nei capitelli delle lesene, a sinistra l’aquila e a destra lo stemma dei Montefeltro |
A partire dalla data del ritrovamento, l’alcova di Federico da Montefeltro è stata oggetto di alcuni interventi di restauro, l’ultimo dei quali avvenuto tra il 2004 e il 2007, finalizzato soprattutto a migliorare la leggibilità dell’opera. I lavori sono iniziati con l’analisi delle specie legnose utilizzate per fabbricare l’alcova: sono stati prelevati campioni che hanno permesso di comprendere come la struttura fosse stata realizzata in abete rosso, mentre sono in legno di tiglio le parti intagliate. L’indagine sulle specie legnose doveva fornire informazioni fondamentali per la scelta del legno con cui realizzare gli inserti per integrare alcuni frammenti mancanti, per esempio certi brani delle lesene. L’indagine successiva è stata l’analisi stratigrafica, che consente di rilevare informazioni, spesso impossibili da cogliere a occhio nudo, sui composti utilizzati, sui pigmenti, sulla preparazione del supporto, e via dicendo. Altre informazioni sui materiali sono giunte poi dalle indagini radiografiche e da quelle in fluorescenza ultravioletta, utili per confermare gli esiti dell’analisi stratigrafica e per rilevare particolari sulla struttura, sul modo in cui l’opera è stata costruita, sullo stato della pellicola pittorica: l’indagine in fluorescenza ultravioletta, in particolare, ha confermato la presenza di diverse ed estese ridipinture. Queste ultime sono state eliminate nelle prime fasi “operative” dell’intervento: più nel dettaglio, l’asportazione delle ridipinture ha permesso di recuperare i colori originari dei finti marmi. Si è quindi proceduto con l’eliminazione, attraverso appositi solventi, dei materiali apposti in epoche successive, la cui presenza è stata rilevata grazie alle analisi stratigrafiche. Infine, sono state integrate le lacune e sono state rimosse vecchie stuccature, non più necessarie grazie alla pulitura della pellicola pittorica. I brani mancanti di quest’ultima sono stati anch’essi integrati, attraverso l’utilizzo di colori ad acquerello. L’ultima operazione è stata l’applicazione di una vernice protettiva per meglio preservare l’opera. Durante i lavori, è stata anche formulata un’ipotesi ricostruttiva apprezzabile grazie a una ricostruzione virtuale realizzata dall’Istituto Centrale del Restauro di Roma, che si è occupato anche delle analisi preliminari (dirette da Francesca Romana Mainieri). Gli interventi sono stati invece eseguiti dall’azienda Bacchiocca di Urbino su direzione di Maria Giannatiempo López.
Ricostruzione virtuale di come l’alcova doveva presentarsi in origine |
Non abbiamo ancora detto a quale artista si deve attribuire il merito di aver realizzato un’opera così raffinata. Per molto tempo il nome dell’artefice dell’alcova rimase un importante nodo da sciogliere. Il primo a provarci fu, nel 1912, Egidio Calzini, che formulò il nome di Paolo Uccello, ipotesi accettata anche da Luigi Nardini. Luigi Serra, al contrario, pensò di assegnare l’opera a un artista affine alla maniera di Piero della Francesca e Melozzo da Forlì. Rotondi pensava invece che l’alcova fosse opera di uno scultore, e propose, nel 1950, il nome di Domenico Rosselli. Il contributo decisivo, quello che cioè propose l’ipotesi attualmente considerata la più attendibile, è stato quello di Federico Zeri datato 1961. Il celebre storico dell’arte riteneva che l’alcova fosse stata realizzata dal cosiddetto Maestro delle Tavole Barberini, artista di cui stava all’epoca ricostruendo il profilo, arrivando a identificarlo con Giovanni Angelo da Camerino. Più tardi invece si arrivò a pensare che il Maestro delle Tavole Barberini fosse in realtà Bartolomeo Corradini, meglio noto come fra’ Carnevale (Urbino, 1416 - 1484), uno dei più importanti pittori urbinati del tempo: un’identificazione poi confermata dalla mostra sullo stesso fra’ Carnevale del 2004. Una curiosità: nella Galleria, i pannelli illustrativi che elencano le opere presenti nella Sala III dell’appartamento della Jole, riferiscono l’opera ancora al Maestro delle Tavole Barberini: segno che l’ultimo aggiornamento risale probabilmente a più di dieci anni fa.
Il pannello... da aggiornare |
Zeri aveva ravvisato la strettissima somiglianza tra il fregio con le teste di cherubini nella trabeazione dell’alcova e quello che compare in una delle due Tavole Barberini, la Presentazione della Vergine al Tempio oggi al Museum of Fine Arts di Boston. Oltre a ciò, Zeri sottolineava la vicinanza nella realizzazione dei marmi policromi e la ricorrenza, in altre opere che potevano essere associate all’artista, di certi caratteri, come i capelli dei putti. In occasione della succitata mostra del 2004, Matteo Ceriana ha individuato un possibile modello ispiratore per l’architettura dell’alcova, ovvero il primo ordine di palazzo Rucellai a Firenze. Sappiamo che fra’ Carnevale fu a Firenze, dove studiò con Filippo Lippi (Zeri evidenziava anche le affinità tra le decorazioni dell’alcova e la pittura lippesca) e dove rimase affascinato dalle soluzioni prospettiche di Filippo Brunelleschi e di Leon Battista Alberti: quest’ultimo fu, peraltro, l’autore del progetto di Palazzo Rucellai. Fra’ Carnevale, lavorando sulle idee di Alberti, eliminò il rivestimento a bugnato (ovviamente non necessario, sottolineava Ceriana, essendo l’alcova un pezzo d’arredamento) sostituendolo con i “lussuosi marmi mischi appresi alla scuola del Lippi” e disegnando il cielo “di tessuto broccato all’interno, del tutto degno dei piviali di Domenico Veneziano e dei paliotti di Giovanni di Francesco” e aggiungendo la “ghirlanda retta da putti di purissima estrazione fiorentina, michelozziana”. Se ormai non c’è più dubbio sul fatto che la struttura, il fregio e i marmi siano ascrivibili alla mano di fra’ Carnevale, permangono alcuni dubbi sugli alberi. Lo stesso Ceriana avvertiva che "fu lasciata a qualche erede della bottega di Antonio Alberti [pittore attivo all’epoca alla corte feltresca, nda] l’esecuzione degli alberetti che, infatti, hanno ancora la grazia artigiana dei prati fioriti composti a collage nell’officina tardogotica".
Il confronto tra il fregio dell’alcova e quello della Presentazione della Vergine al Tempio di fra’ Carnevale conservata a Boston |
Il confronto tra l’architettura dell’alcova e quella di Palazzo Rucellai a Firenze |
Come ampiamente descritto sopra, oggi vediamo l’alcova priva di alcune sue parti (la porta, per esempio) e ricostruita con le pareti interne rivolte verso l’esterno in modo da farci apprezzare pienamente le decorazioni, dato che non è possibile accedere all’interno. Nonostante ciò, rimane indiscutibile l’importanza di un’opera che non è solo (e questo non l’abbiamo ancora detto) l’unica opera di fra’ Carnevale rimasta nel luogo per cui fu realizzata, ma è anche un raro pezzo rimasto degli arredi originari, una testimonianza degli usi di una corte del Quattrocento, un’ulteriore prova dei gusti raffinati di un signore che ha contribuito in maniera decisiva all’affermazione e allo sviluppo del Rinascimento.
Bibliografia di riferimento
Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta
Gli articoli firmati Finestre sull'Arte sono scritti a quattro mani da Federico Giannini e Ilaria Baratta. Insieme abbiamo fondato Finestre sull'Arte nel 2009. Clicca qui per scoprire chi siamo