L'incredibile storia di Alceo Dossena, il falsario che ingannò i grandi musei americani


La storia di uno dei più grandi falsari della storia: il cremonese Alceo Dossena, che all'inizio del Novecento produsse diverse opere che, spacciate a sua insaputa da due scaltri mercanti per opere rinascimentali, finirono in diversi musei americani.

Un articolo scritto da un giornalista anonimo e pubblicato il 22 dicembre del 1928 su The Literary Digest, un popolare settimanale statunitense del periodo, ricordava una storia singolare avvenuta cinque anni prima. Una facoltosa collezionista americana, la trentacinquenne Helen Clay Frick (Pittsburgh, 1888 - 1984), figlia del magnate dell’acciaio Henry Clay Frick (West Overton, 1849 - New York, 1919), il fondatore della Frick Collection, acquistò dall’antiquario italiano Elia Volpi (Città di Castello, 1858 - Firenze, 1938) uno spettacolare gruppo scultoreo in marmo raffigurante un’Annunciazione e composto da un Angelo annunciante e da una Vergine annunciata. Le due sculture erano attribuite a uno dei più grandi artisti medievali, Simone Martini (Siena, 1284 - Avignone, 1344), e l’attribuzione sembrava avvalorata dalle iniziali “S.M.” che comparivano sulla base dell’angelo e dalla data “1316” iscritta su quella della Madonna. A garantire la bontà dell’attribuzione era il collezionista e storico dell’arte Frederick Mason Perkins, assieme al quale Helen Frick, in compagnia dello stesso Volpi e dell’amica Gertrude Hill, aveva visionato le due statue in una villa poco fuori Firenze.

Le due statue ricordavano in tutto e per tutto la celeberrima Annunciazione di Simone Martini conservata agli Uffizi: eppure, nonostante l’affidabilità di Perkins e dello stesso Volpi, allora uno degli antiquarî più presenti sul mercato, in grado di trattare opere di grandi artisti del passato per venderle a una clientela internazionale, prestigiosa e selezionata, non c’era traccia di un’attività scultorea di Simone Martini, ragione per la quale la collezionista desiderò ricevere il parere di altri esperti. Si espressero a favore dell’assegnazione a Simone Martini due studiosi come Charles Loeser e Giacomo De Nicola, e di conseguenza Helen Frick decise di portare a termine la trattativa. La giovane pagò i 150.000 dollari pattuiti (una cifra molto alta: corrisponde a circa 2 milioni di dollari attuali) e le due sculture, nel marzo del 1924, sbarcarono a New York. A questo punto per Helen Frick cominciarono i problemi, perché molti studiosi e appassionati oltreoceano cominciarono ad avere dubbî sulle due sculture, tanto che furono necessarî pareri aggiuntivi, come quello di Wilhelm von Bode che, pur notando l’assenza di notizie su eventuali sculture di Simone Martini, rilevò che “l’anatomia, le pieghe, l’espressione tutto è l’arte di Simone” (queste le parole di Bode che Elia Volpi riportava in una lettera). Volpi e Perkins bollarono i sospetti come dicerie, ma ciò non bastò a convincere la collezionista che, nel 1925, fece esaminare le statue da una commissione di esperti, che nell’autunno di quell’anno diedero il loro responso: le opere erano due falsi. A sfavore di una paternità trecentesca deponevano, secondo gli studiosi che avevano analizzato il gruppo, la posizione delle teste, il rapporto tra una figura e l’altra, la scarsa credibilità del modo in cui era stata apposta la data e l’“effetto generale” suscitato dalle due statue. Frick chiese dunque a Volpi la restituzione dei suoi soldi, ma il mercante, dichiarandosi in difficoltà economiche, propose, come risarcimento, un disegno di Leonardo da Vinci.

Si era intanto giunti al 1928, e finalmente, con il deflagrare, nel novembre di quell’anno, di uno scandalo internazionale, si era giunti a scoprire chi fosse il vero autore delle due statue: era il falsario lombardo Alceo Dossena (Cremona, 1878 - Roma, 1937), che proprio quell’anno si trovò al centro di un caso mondiale, dal momento che erano venute allo scoperto le numerose statue che, spacciate per originali del Medioevo e del Rinascimento, erano state spedite in grande abbondanza negli Stati Uniti, con il coinvolgimento di numerosi studiosi di primissimo ordine. La finta Annunciazione di Helen Frick rimase dunque molto poco nella sua abitazione: già nel febbraio del 1933 le due statue furono regalate all’Università di Pittsburgh, che ancora le possiede.

Alceo Dossena, Angelo Annunciante (1920-1923; marmo, 213 x 228,5 cm; Pittsburgh, University of Pittsburgh Art Gallery)
Alceo Dossena, Angelo Annunciante (1920-1923; marmo, 213 x 228,5 cm; Pittsburgh, University of Pittsburgh Art Gallery)


Alceo Dossena, Vergine Annunciata (1920-1923; marmo, 213 x 252 cm; Pittsburgh, University of Pittsburgh Art Gallery)
Alceo Dossena, Vergine Annunciata (1920-1923; marmo, 213 x 252 cm; Pittsburgh, University of Pittsburgh Art Gallery)


Le due statue di Dossena nella loro collocazione a Pittsburgh
Le due statue di Dossena nella loro collocazione a Pittsburgh

Il caso Dossena era scoppiato in un momento di grande attività degli scambi di antichità tra Italia e Stati Uniti, e proprio questo scandalo fu una delle cause che determinarono la fine di un fiorente mercato che era cominciato già negli anni Settanta dell’Ottocento e che aveva fatto arrivare di là dall’Atlantico numerosissime opere antiche dall’Italia ma anche, come si sarebbe scoperto in quel giro d’anni, numerosissimi falsi. L’intensificarsi dei viaggi internazionali e l’amore per l’Italia da parte di ricchi viaggiatori, soprattutto inglesi e americani, aveva fatto nascere in loro un grande amore per l’arte del nostro paese, soprattutto quella gotica e del primo Rinascimento, col risultato che, sul finire dell’Ottocento, soprattutto le città del centro Italia (in particolare Firenze, che divenne il centro principale di questo mercato) si popolarono di mercanti e mediatori, talvolta seri e affidabili ma molto spesso improvvisati, che vendevano ogni genere di bene antico alla loro clientela, tanto che, nel 1902, si rese necessaria la prima legge sulla tutela dei beni culturali nella storia d’Italia. Un mercato così fiorente e così condizionato dalle expertise non poteva però rimanere immacolato a lungo, e presto sulla piazza iniziarono a operare diversi falsarî, molti dei quali, come Federico Joni, Giovanni Bastianini, Umberto Giunti, Gildo Pedrazzoni e lo stesso Dossena, di grandissimo talento e abilità. Joni, che era specializzato nella pittura, aveva delle competenze straordinarie, tanto da turbare gravemente il mercato dei fondi oro senesi e fiorentini: era inoltre un personaggio singolarissimo, che arrivò al punto di scrivere un’autobiografia, le Memorie di un pittore di quadri antichi, pubblicata in Italia nel 1932 e in Inghilterra nel 1936. E proprio il successo di questa sua opera letteraria contribuì ad appesantire il clima di sospetto che già aveva offuscato il mercato italiano. Joni si era dimostrato in grado di imitare con eccezionale maestria lo stile di molti maestri antichi, contraffacendo le tavole con una patina che dava un aspetto antico molto realistico alle opere, e in più aveva anche fatto proseliti (il sopra citato Umberto Giunti, che si specializzò in falsi frammenti di affreschi e in dipinti sullo stile di Botticelli, era un suo allievo).

Dossena fu invece il più grande tra i falsarî della scultura. E agli altri grandi come Joni e Giunti lo accomunava una precisa caratteristica: questi formidabili falsarî non si limitavano a riprodurre semplicemente dei quadri o delle sculture antiche. No: erano dotati di una sorprendente inventiva, avevano una propria personalità che li portava a creare opere d’arte, più che a imitarle. “Ho inventato alla maniera dei grandi maestri, ma ho sempre inventato”, diceva Alceo Dossena per rivendicare l’autonomia e il prestigio della propria arte.

Il falsario le cui opere furono in grado d’ingannare schiere di conoscitori proveniva da una famiglia di umili origini: il padre lavorava come facchino per le ferrovie alla stazione di Cremona, la madre era una sarta, e il piccolo Alceo fu abituato a lavorare fin da bambino, dato che la sua famiglia era povera. Fin dall’infanzia aveva però maturato una passione per l’arte: la biografia scritta dal figlio riporta che imparò presto a dipingere e a scolpire da autodidatta, affinando le proprie conoscenze con frequenti visite alla Cattedrale e alle chiese della sua città natale, ma da altre fonti sappiamo che a dodici anni entrò alla scuola d’arte “Ala Ponzone”, per essere però espulso l’anno seguente: il padre cercò di riammetterlo ma senza esito. Così Alceo cominciò a lavorare come scalpellino nella bottega di un marmista locale, per poi cominciare un periodo di apprendistato a Milano, nella bottega di Alessandro Monti. Sembra che risalga al 1916 la prima contraffazione di un’opera antica: una Madonna col Bambino, che il falsario “invecchiò” sistemandola in un orinatoio (una delle doti più ammirate di Dossena sarebbe stata proprio la sua capacità di conferire una credibile patina antica alle sue sculture). Dossena, che all’epoca serviva nell’esercito, cercò di vendere l’opera a un barista: l’intento era quello di racimolare qualche soldo per fare i regali di Natale alla famiglia. Il barista non si dimostrò interessato, ma l’opera attirò l’attenzione di un facoltoso gioielliere, Alberto Fasoli, che si trovava nella taverna e pensava che Dossena avesse rubato la statua in una chiesa. Comprò dunque la statua per cento lire. Fasoli, dopo qualche tempo, si accorse che la statua non era antica: eppure, non si adirò contro il falsario, ma ebbe l’idea di metterlo al suo servizio. Si mise d’accordo con un collega altrettanto scaltro, Alfredo Pallesi, organizzò uno studio per Dossena, gli garantì uno stipendio mensile, e cominciò a piazzare sul mercato le sue opere spacciandole per antiche.

È altamente probabile che Alceo Dossena stesso fosse stato raggirato da Fasoli, che vendeva a caro prezzo le sue opere, corrispondendo a lui uno stipendio che, in relazione alle cifre che il disonesto antiquario ricavava dalle vendite, era decisamente magro: stando a quanto dichiarato successivamente da Dossena, Fasoli gli avrebbe raccontato che in America si stava costruendo una chiesa in stile rinascimentale, che aveva bisogno di essere opportunamente decorata con sculture simili a quelle realizzate nel Quattrocento. Lo scultore, nel frattempo, si era specializzato nell’imitazione dello stile di un gran numero di scultori del Medioevo e del Rinascimento: Giovanni Pisano, Nino Pisano, Donatello, Francesco di Giorgio Martini, Mino da Fiesole e altri. All’occorrenza era anche in grado di creare finte sculture etrusche e greche. Fasoli e Pallesi, intanto, avevano cominciato a frodare collezionisti ma anche musei: una delle truffe più note fu quella rifilata da Volpi (che aveva comperato l’opera da Fasoli e Pallesi) al Museum of Fine Arts di Boston, che acquistò un monumento funebre di una nobildonna del Quattrocento, Maria Caterina Savelli, spacciato per un originale di Mino da Fiesole (una truffa assurda se si pensa che sul monumento compare una data “1430”, ma lo scultore era nato nel 1429!). E lo stesso museo acquistò peraltro, sempre da Volpi, anche una Madonna col Bambino in legno policromo attribuita al Vecchietta. Tutto a cifre considerevoli: il falso monumento era costato 100.135 dollari, la Madonna 30.750. Anche per i compratori, Fasoli e Pallesi inventavano storie che a tanti sembravano convincenti: per esempio, che l’improvvisa comparsa sul mercato di tante opere fosse dovuta al ritrovamento delle opere provenienti da un’abbazia che si trovava in antico sul monte Amiata (in realtà mai esistita) e che, secondo il racconto, era stata distrutta da un terremoto. Nel frattempo i due facevano affari anche con altri antiquarî, dal momento che, come ricordato poc’anzi, alcune opere di Dossena furono vendute a Volpi dagli stessi Fasoli e Pallesi. E riuscivano a ingannare gli studiosi: si racconta che un giovane John Pope Hennessy, vedendo una Madonna col Bambino, sant’Anna, san Giovannino e due cherubini di Alceo Dossena (oggi in collezione privata), spacciata per un Donatello (fu acquistata dall’antiquario inglese George Durlacher a Venezia per l’esorbitante somma di tre milioni di lire), pianse commosso per l’importanza di quello che si pensava fosse un eccezionale ritrovamento.

Alceo Dossena
Alceo Dossena


Alceo Dossena, Tomba di Maria Caterina Savelli (1920 circa; marmo, altezza 180 cm; Boston, Museum of Fine Arts)
Alceo Dossena, Tomba di Maria Caterina Savelli (1920 circa; marmo, altezza 180 cm; Boston, Museum of Fine Arts)


Alceo Dossena, Madonna col Bambino (1920 circa; marmo, altezza 134 cm; Boston, Museum of Fine Arts)
Alceo Dossena, Madonna col Bambino (1920 circa; marmo, altezza 134 cm; Boston, Museum of Fine Arts)


Alceo Dossena, Madonna col Bambino, sant'Anna, san Giovannino e due cherubini (1926-1927; marmo, 105 x 67 x 15 cm; Milano, Collezione privata)
Alceo Dossena, Madonna col Bambino, sant’Anna, san Giovannino e due cherubini (1926-1927; marmo, 105 x 67 x 15 cm; Milano, Collezione privata)


Alceo Dossena, Madonna col Bambino (1929; marmo, 81,3 x 81,9 cm; Detroit, Detroit Institute of Arts)
Alceo Dossena, Madonna col Bambino (1929; marmo, 81,3 x 81,9 cm; Detroit, Detroit Institute of Arts)

Questo mercato poté fiorire grazie alla smania per le antichità italiane che prese i collezionisti e i musei americani, e sulla quale Fasoli e Pallesi poterono marciare per anni. Ma non passò molto tempo prima che alcuni acquirenti si accorsero di essere stati gabbati, e ai due disonesti antiquarî arrivarono le prime richieste di restituzione. Accaddero così due eventi che possiamo considerare gli antefatti dello scandalo. Il primo fu il processo intentato da Fasoli a Dossena: poiché lo scultore, se le cose avessero preso una brutta piega per i truffatori, era passibile di diventare una persona estremamente scomoda, visto che, a quanto sappiamo, era probabilmente all’oscuro delle trame del suo antiquario (e oltretutto riceveva compensi bassi in rapporto a quanto Fasoli e Pallesi guadagnavano dalle vendite truffaldine, e i due non gli coprivano neanche le spese vive e i materiali), il gioielliere pensò di colpirlo denunciandolo per antifascismo, con l’accusa di aver pronunciato frasi ingiuriose contro Mussolini mentre stava realizzando un suo busto. Il secondo fu l’arrivo in Italia di uno storico dell’arte, Harold Woodbury Parsons, che all’epoca lavorava per il Cleveland Museum of Art (uno degli istituti truffati), e che si mise sulle tracce di Dossena e lo trovò, finendo per farsi rivelare che era proprio lui, Alceo Dossena in persona, l’autore di quelle opere credute antiche.

Dossena riuscì a uscire indenne dal processo: fu assolto per mancanza di prove, grazie anche all’intercessione di uno dei più potenti gerarchi fascisti, Roberto Farinacci, il ras di Cremona che, tra il 1925 e il 1926, ricoprì anche l’incarico di segretario del PNF. A sua volta Dossena denunciò Fasoli per truffa, appropriazione indebita e calunnia, ma il processo ebbe lo stesso esito, e nel dicembre del 1930 l’antiquario fu a sua volta assolto per mancanza di prove. La stampa e l’opinione pubblica, nel frattempo, si erano schierate dalla parte di Dossena, ritenuto anch’egli una vittima dei raggiri dei due loschi trafficanti. E la conseguenza fu l’aumento dell’interesse per la sua opera: uscito finalmente allo scoperto, poté rivendicare con orgoglio il proprio talento, firmando le opere e ricevendo commissioni importanti, e lavorando sia per incarichi pubblici, sia per soddisfare i collezionisti privati. Tra questi ultimi, il più fedele fu probabilmente l’avvocato Alessandro Ansaldi, a cui si aggiunse forse anche il figlio di quest’ultimo, Carlo Francesco, anch’egli avvocato: i due radunarono un’importante collezione di opere di Dossena, che oggi è diventata pubblica. Nel 1981, infatti, il nipote di Alessandro, lo storico dell’arte Giulio Romano Ansaldi, donò allo Stato la raccolta, che fu dapprima trasferita in deposito alla Galleria Nazionale di Roma e che attualmente si trova, dal 1989, in deposito permanente al Museo Civico di Pescia (Pistoia).

Le opere della collezione Ansaldi dimostrano, hanno scritto gli studiosi Federica Gastaldello ed Emanuele Pellegrini, che Dossena fu “un artista capace di una produzione di alto profilo non necessariamente ancorata all’attività del falso, sorretta da una varietà linguistica e da un intento divulgativo ancora da studiare con la debita attenzione”. Tra le opere Ansaldi figura una Maddalena pubblicata per la prima volta in occasione della mostra Voglia d’Italia, tenutasi al Vittoriano e a Palazzo Venezia tra il dicembre del 2017 e il marzo del 2018: la Maddalena, molto vicina all’omologa donatelliana, denota un “segno sicuro [...] che non solo guarda a Donatello, ma violenta e rilegge in negativo l’inquieta eleganza di talune figure femminili bistolfiane o ieraciane”, e un “uso consapevole di una fonte quattrocentesca caricata al massimo della sua espressività” che “diviene un grimaldello per avvicinarsi alla scultura del suo tempo” (così Gastaldello e Pellegrini).

Alceo Dossena, Maddalena penitente (1920-1930; terracotta, 55 x 45 x 17 cm; Pescia, Museo Civico Galeotti)
Alceo Dossena, Maddalena penitente (1920-1930; terracotta, 55 x 45 x 17 cm; Pescia, Museo Civico Galeotti)


Alceo Dossena, San Francesco (1932; bronzo; Pescia, Museo Civico Galeotti)
Alceo Dossena, San Francesco (1932; bronzo; Pescia, Museo Civico Galeotti)


Alceo Dossena, Madonna con Bambino e angeli (1925-1937; terracotta; Pescia, Museo Civico Galeotti)
Alceo Dossena, Madonna con Bambino e angeli (1925-1937; terracotta; Pescia, Museo Civico Galeotti)


Alceo Dossena, Madonna con Bambino (1930-1937; terracotta; Pescia, Museo Civico Galeotti)
Alceo Dossena, Madonna con Bambino (1930-1937; terracotta; Pescia, Museo Civico Galeotti)


Alceo Dossena, Madonna con Bambino (1930; bronzo; Pescia, Museo Civico Galeotti)
Alceo Dossena, Madonna con Bambino (1930; bronzo; Pescia, Museo Civico Galeotti)


Alceo Dossena, Ritratto di Giuseppe Verdi (1900-1924; bronzo; Pescia, Museo Civico Galeotti)
Alceo Dossena, Ritratto di Giuseppe Verdi (1900-1924; bronzo; Pescia, Museo Civico Galeotti)


Alceo Dossena, Cane (1930; terracotta; Pescia, Museo Civico Galeotti)
Alceo Dossena, Cane (1930; terracotta; Pescia, Museo Civico Galeotti)

Ma come riusciva Dossena a creare opere così verosimili? L’artista aveva sviluppato una tecnica particolare per imitare il naturale invecchiamento delle sculture: “la sua patina”, ha scritto lo studioso Giuseppe Cellini nella voce dedicata a Dossena sul Dizionario biografico degli italiani, “non è una sovrapposizione di materiali, come quella che si trova nelle sculture di scavo, ma è una tonalità di colore sottostante all’epidermide, penetrata all’interno per gradi, fissatasi indelebile nei sottosquadri, come appunto si verifica nei marmi medievali e rinascimentali. Non si tratta di un imbratto dato e ritolto al lavoro finito, secondo il metodo usato dagli altri falsari: il suo procedimento geniale era quello di scolpire le composizioni sin quasi a compimento, con piani lisciati dalla gradina, e a quel punto applicare una patina liquida a base di permanganato, acqua di ruggine e terra di quercia essiccata al calore della fiamma a gas. In tal modo si veniva a mascherare l’intera superficie con una crosta nerastra; successivamente, sulla rifinitura, con gli scalpelli piani ed i calcagnoli egli mondava la superficie stessa e, come ad un frutto, scopriva la polpa del marmo, con l’alone interno di patina, come nell’antico. Quando poi le parti in oggetto venivano polimentate con piombo e acido ossalico, e si aggiungevano le fratture ed i danni accìdentali, il maquillage era perfetto”.

Molti musei si disfecero delle sue opere, ma ce ne sono tanti altri dove invece ancora si conservano, e spesso sono tutt’altro che nascoste. Anche la storia di Dossena è un momento estremamente significativo della storia dell’arte, inserito nel periodo in cui si sviluppò il mercato delle antichità, nacquero le leggi della tutela, i musei cominciavano a espandersi e a incontrare gli interessi del pubblico, i grandi collezionisti d’inizio Novecento a formare strabilianti raccolte. Oggi, con i progressi che hanno fatto gli studî e con l’ampliamento della comunità scientifica, difficilmente opere come quelle di Dossena potrebbero ingannare gli studiosi, anche se il problema dei falsi è ben lungi dall’essere debellato. Ad ogni modo, Alceo Dossena è diventato per la sua città natale anche una sorta di vanto, tanto che, nel 2003 l’associazione degli Amici del Museo “Ala Ponzone” di Cremona ha voluto donare all’istituto un’opera di Dossena, un tondo in terracotta raffigurante una Madonna col Bambino. Era doveroso, secondo i sostenitori dell’iniziativa, che almeno una sua opera fosse inclusa nel percorso del museo civico cremonese, per ricordare il più grande falsario che l’Italia abbia conosciuto, testimone unico e irripetibile di una temperie culturale e di un brano importante della storia dell’arte e dell’Italia.

Bibliografia essenziale

  • Emanuele Pellegrini, Voglia d’Italia, catalogo della mostra (Roma, Palazzo Venezia e Vittoriano, dal 7 dicembre 2017 all’8 aprile 2018), Artem, 2017
  • Federica Gastaldello, Alceo Dossena before Alceo Dossena. The lawsuit against Alfredo Fasoli, tesi di laurea, Università Ca’ Foscari di Venezia, 2015
  • David A. Scott, Art: Authenticity, Restoration, Forgery, Cotsen Institute of Archaeology, 2015
  • Gianni Mazzoni (a cura di), Falsi d’autore: Icilio Federico Joni e la cultura del falso, catalogo della mostra (Siena, Palazzo Squarcialupi, dal 18 giugno al 3 ottobre 2004), Protagon, 2004
  • Giuseppe Cellini, Alceo Dossena in Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 41 (1992)
  • Walter Lusetti, Alceo Dossena: scultore, De Luca Editori, 1955

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Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta

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